da Francesco Mandarini | Gen 30, 2007
In occasione della formazione del primo governo di centro-sinistra all’inizio degli anni ’60, l’Avanti, quotidiano del PSI uscì con un titolo a otto colonne: “Da oggi ognuno è più libero”. L’enfasi nasceva dal primo accordo tra socialisti e democristiani e provocò aspre contestazioni dall’opposizione di allora incentrata nel partito comunista. Quella stagione fu segnata da profondi mutamenti. Per un complesso di fattori, non ultimo la costante scesa in campo di studenti e lavoratori, il Paese attraversò un processo di grandi riforme che cambiarono molte cose e alla luce dell’oggi lo slogan dell’Avanti ebbe un senso. Nazionalizzazione dell’energia elettrica, riforma sanitaria, leggi sulla casa e sui diritti dei lavoratori, tutela della maternità , divorzio, istituzione delle regioni e via, via riformando, i vari governi di centro-sinistra, anche stimolati da un sindacato e da un PCI vigile ad un riformismo serio, mutarono il volto dell’Italia. Va ricordato che gran parte delle leggi di riforma furono possibili grazie alla convergenza in Parlamento di governo e l’opposizione di sinistra. Il riformismo dei cattolici che incontrava quello della sinistra il cui orizzonte era il socialismo. Niente a che vedere con il dibattito attuale sul Partito Democratico? No. Allora i partiti avevano identità e idee forti e a differenza di oggi le definizioni avevano un senso e una prospettiva.
Dopo il decreto relativo alle liberalizzazioni, il capo del governo attuale, Prodi, ha dichiarato: “L’economia italiana è liberata, abbiamo varato provvedimenti di straordinaria importanza. Si tratta di misure che rilanciano il paese”.
Sommessamente consiglierei qualche cautela. Sono provvedimenti che nel complesso vanno benissimo, ma pensare che l’Italia si sta avviando ad una stagione positiva perchè si liberalizzano gli orari di lavoro dei parrucchieri, perchè finirà la rapina sulle ricariche telefoniche o perchè avremo la targa dell’auto personalizzata, ce ne corre. Che il cittadino-consumatore (associazione che non mi piace) sia soggetto a varie angherie è vero e tutto ciò che elimina assurdi meccanismi, va salutato con entusiasmo. Ma riformare è tutt’altra cosa ed è tempo che i riformisti attuali ci dicano cosa e come riformare. Per intenderci la questione dello stato sociale va affrontata per ridimensionarlo o per cambiare i meccanismi che non funzionano più? Un riformista di destra affronta la questione delle pensioni guardando alla possibilità di tagliare quelle pubbliche e favorire quelle private. Il riformista di destra è indifferente rispetto alla condizione degli attuali pensionati. Una realtà difficile che denunciano in molti. E’ assolutamente insostenibile il fatto che gran parte delle pensioni sono sotto i 500 euro mensili. Si può affermare con ragione che tutte le pensioni hanno subito un ridimensionamento nel loro potere d’acquisto. Un riformismo non liberista dovrebbe necessariamente affrontare oltre i limiti d’età anche la questione delle pensioni povere.
Siamo tutti per la flessibilità , sembrerebbe, ma come la mettiamo con i redditi da lavoro dipendente flessibile o no che sia? Sapete a quanto ammonta il reddito di un metalmeccanico o di un impiegato comunale? Qualcuno ha coscienza dei redditi che i giovani percepiscono con il loro lavoro “flessibile”? Come faranno i giovani a pagare le loro pensioni private con l’attuale domanda di lavoro? Â In pochi decenni vi è stato uno spostamento massiccio, nel rapporto con il prodotto interno lordo, dei redditi da lavoro a quelli da capitale. Un riformista serio (di sinistra) rimane indifferente rispetto al fatto che l’arricchimento dei precettori di reddito da capitale non ha aumentato affatto la produttività delle imprese? Gli investimenti in ricerca e innovazione, infatti, sono rimasti praticamente fermi. Forse qualcosa non funziona nel libero mercato.
da Francesco Mandarini | Gen 22, 2007
Dalla “fabbrica del programma” al conclave nella reggia di Caserta è passato meno di un anno, eppure l’impressione è che si sia conclusa un’era politica. E questa sensazione nasce non soltanto per la sconfitta della destra berlusconiana alle elezioni politiche, sconfitta comunque pesante, ma anche per l’evidente precarietà del governo Prodi che mantiene un livello basso di consensi anche tra coloro che hanno votato Unione.
Eppure le premesse per una svolta, nonostante un voto non entusiasmante, c’erano tutte. Bastava iniziare ad applicare il programma con cui si era chiesto il consenso e azzittire i ciarlieri leader e leaderini dei partiti dell’Unione. Meno televisione e più lavoro tra la gente. Così non è stato. Ad iniziare dalla formazione del governo, Prodi ha dimostrato limiti politici e debolezza nella guida della litigiosa coalizione. Con il decreto Bersani si era cominciato con qualche intelligenza. Ma Bersani potrebbe aver ballato una sola estate considerando l’opposizione che ha incontrato nel Paese e tra le forze sociali. L’aver intrecciato l’azione di governo con il dibattito attorno al partito democratico non è stata una geniale trovata politica. E la politica non è una scienza esatta, ma voler accelerare processi complessi, come mettere nello stesso partito Rutelli e Cesare Salvi, è stato un errore grave da dilettanti. La discussione attorno ad un nuovo soggetto politico ha semplicemente reso l’azione dei partiti al governo più difficile. L”˜esigenza di un accorpamento dei partiti è una questione reale sentita e voluta dai cittadini? Si, ma anche l’identità di una formazione politica ha rilevanza per l’elettorato. Mettere insieme due identità infragilite dalle divisioni interne, come sono oggi diessini e margheritini, non porta automaticamente ad una forte caratterizzazione politica. Molti osservatori sostengono che lo slogan “il partito dei riformisti” ha poco appeal. Non si sa bene cosa concretamente significhi. Mancano idee, valori e non si conosce per quale tipo di società vogliono lavorare i riformisti. In Europa, quando si parla di riforme si intende tagli alla spesa pubblica e ridimensionamento dello stato sociale. Più mercato, meno Stato anche in settori delicati quali i sistemi pensionistici, la sanità pubblica, la scuola.
Potrebbero i nostri capi verificare cosa concretamente hanno significato per i cittadini le privatizzazioni nei vari Paesi Europei? Ad esempio è noto che nell’Inghilterra di Blair la privatizzazione dei trasporti ha portato ad avere il peggiore e il più caro sistema di trasporto passeggeri d’Europa. Sembra strano, ma stanno peggio di noi italiani. Le leggendarie ferrovie inglesi hanno prodotto più profitti privati, ma funzionano malissimo. Sarebbe apprezzato conoscere in quale settore privatizzato sono scese le tariffe o migliorati i servizi anche nel nostro Paese. L’aver privatizzato tutto il sistema bancario non ha certo migliorato il rapporto tra un piccolo imprenditore e la banca. Qualcosa non ha funzionato? Bisogna chiamare le cose con il loro nome: l’enfasi sulle privatizzazioni è una scelta ideologica e come tale va combattuta. Ciò non significa che bisogna lasciare le cose come stanno. Una concorrenza piena può essere un grande vantaggio anche per certi servizi pubblici. E in ogni caso una profonda innovazione nel settore pubblico è urgente e necessaria. Di questo deve essere convinta anche la sinistra radicale.
da Francesco Mandarini | Gen 8, 2007
Anno nuovo, politica nuova? No. Si ricomincia il “Gioco dell’Oca”. Sono una ventina d’anni che la politica si arrovella su come cambiare il sistema democratico avendo come unico obbiettivo quello di assicurare una governabilità forte ai governi. commissioni bicamerali, referendum, riforme dei ministeri e della presidenza del consiglio, leggi elettorali le più fantasiose si sono susseguite negli anni sfibrando la democrazia italiana. E adesso si ricomincia. Dimentichi del risultato dell’ultimo referendum costituzionale, Amato e riformisti di destra, di centro e di sinistra vogliono modificare insieme la pessima legge elettorale imposta da Berlusconi subito prima delle ultime elezioni politiche. Con entusiasmo il cavaliere di Arcore ha aderito alla proposta Amato: facciamo una bella convention e decidiamo le modifiche da apportare alla “mia” legge e poi avanti tutti assieme appassionatamente nelle altre riforme istituzionali. Così si fa felice anche il presidente Napolitano.
Che la legge debba essere modificata è giusto, è il come che lascia perplessi. Il popolo italiano nel giugno scorso ha confermato la volontà di voler vivere in una repubblica parlamentare. Il presidenzialismo insito nella controriforma berlusconiana è stato respinto con un referendum. Come concilia il ministro Chiti quel voto con la proposta del “sindaco d’Italia”? Si vuol nuovamente una discussione per modificare la Costituzione? Il sistema elettorale in vigore per le regioni, se applicato nelle elezioni politiche, comporta una modifica costituzionale e il ministro dovrebbe saperlo. E dovrebbe essere spiegato perchè soltanto Israele, un paese in guerra permanente, prevede l’elezione diretta del primo ministro. Se si vuole una repubblica presidenziale lo si dica con chiarezza senza cercare mistificazioni che servono soltanto a perpetuare la classe politica al potere.
Altrettanto intollerabile è il fatto che tutti i piccoli partiti della coalizione dell’Unione mettano, nella discussione sulla legge elettorale, paletti tali da rendere impossibile ogni cambiamento. Le bandierine che alzano i vari Pecoraro Scanio, Mastella,Di Pietro, Diliberto e Giordano sono ormai simboli logori che mobilitano soltanto i clientes elettorali e non aiutano affatto la riqualificazione della democrazia rappresentativa. Possibile che la sinistra-sinistra non riesca a trovare il modo di mettere insieme le forze che ancora votano per partiti alternativi al modello economico-sociale voluto dal liberismo? Come non vedono e non sentono crescere nel Paese una disaffezione alla politica frutto del modo di essere delle formazioni politiche anche della sinistra?
La stessa discussione attorno al partito democratico avviene nella genericità più assoluta. In Italia si dichiarano riformisti quasi tutti. Ds, Margherita, Forza Italia e così elencando. Non è tempo di esplicitare e aggettivare la parola riformismo? Cosa e come riformare dovrebbe essere ormai chiarito. La discriminante non può essere soltanto l’adesione o meno all’Internazionale socialista. Deve essere chiarita innanzitutto la funzione del partito che si vuole mettere in campo in sostituzione di quelli esistenti, ma anche quale forma di democrazia si ha in testa di costruire considerando il pessimo stato di quella esistente.
Rimossi da anni ormai i timidi tentativi di una democrazia della partecipazione, anche il centrosinistra si è adattato alla democrazia della delega. Ogni cinque anni si vota per candidati scelti dalle oligarchie di partito, poi tutti a casa a tifare per i nostri eroi impegnati nei reality show televisivi. Non è tempo di cambiare?
Consiglio la lettura di un saggio: “La democrazia che non c’è”. Lo ha scritto uno storico inglese, Paul Ginsborg, che vive e insegna in Italia da moltissimi anni. Nel frontespizio c’è scritto: “la democrazia è un sistema mutevole e insieme vulnerabile. Per rivitalizzarla oggi è indispensabile connettere rappresentanza e partecipazione, economia e politica, famiglia e istituzioni”. Che bellissimo incipit per i riformisti e anche per la sinistra radicale.