MACERIE

L’impresa non era facilissima. Si trattava di far dimenticare decenni di lotte di emancipazione che la sinistra umbra e italiana avevano condotto per costruire una identità alla nostra comunità. L’Umbria che  usciva dal conflitto mondiale era terra  di sottosviluppo e di degrado sociale ma aveva una classe dirigente di grande  passione .e capacità.  Intellettuali, imprenditori, artigiani e mezzadri riuscirono, in un conflitto sociale  aspro e durissimo, a costruire una classe dirigente di prima qualità.La sfida tra le classi sociali avvenne appunto sulla qualità delle iniziative e sulle propote migliori per conseguire un avanzamento complessivo della vita dei vari ceti e classi sociali . Per molti anni le classi dirigenti politiche, imprenditoriali e culturali hanno saputo far parte dei territori più innovativi del Paese a dispetto dell’irrilevanza del numero di abitanti e delle ridotte dimensioni territoriali. Un ceto politico mediocre e ottuso è riuscito nell’impresa di fare dimenticare tutto questo a vantaggio di una destra a guida Salvini. Ci vorrà tempo per capire, dipende dalla volontà delle classi dirigenti della sinistra che, ad oggi, continuano a balbettare spiegazioni risibili. Difficile indicare il momento in cui é iniziato il distacco della Sinistra  dalle forze sociali e culturali che ha rappresentato per decenni. Più semplice capire che la lunga stagione del “nuovo che avanza” è riuscita a disintegrare alla radice quella comunità articolata del popolo della Sinistra.. Bisognerà studiare molto senza pregiudizi e con rigore per capire quali processi locali e nazionali hanno riportato l’Umbria ad essere rilevante quanto  un quartiere di Roma.

 

 

 

 

 

 

PAURA

La squallida vicenda parlamentare della legge sullo Jus soli ha molti piccoli padri (piccoli in tutti i sensi, anzi piccini) e una sola grande madre, la Paura. Una paura pervasiva, sorda, velenosa che ha serpeggiato per tutta l’estate sotto la pelle del paese, si è gonfiata a dismisura, è cresciuta su se stessa sull’onda dei telegiornali e sulle prime pagine dei quotidiani, dei proclami dell’opposizione e degli atti di governo, operando come un contagio contro cui non sembra esserci vaccino che tenga. Ebbene lo confesso. Anch’io ne sono stato contaminato. Anch’io ho paura.

Non di quello di cui sembrerebbe che tutti dovrebbero averne per esser conformi alla vogue mediatica. Non del migrante, del negro, dello straniero, del pericolo che viene da fuori. Ho paura del morbo che viene di dentro. Ho paura di quanti – e sono tanti – alimentano quella paura, degli spregiudicati imprenditori delle fabbriche della paura, che mobilitano persino il batterio della malaria al servizio del proprio odio etnico e politico. E di quanti la cavalcano, quella paura, per qualche pugno di voti, da conquistare o da non perdere. Ho paura dei Salvini e dei Minniti, dei Sallusti e degli Esposito. Di chi apre le cataratte della peggiore demagogia xenofoba e di chi si presenta come olimpico custode di una legalità formale umanamente insostenibile. Ho paura di un partito che si definisce “democratico” nel suo stesso nome e sacrifica un principio umano fondamentale sull’altare di una lesionata maggioranza. Ho paura di una diplomazia che seleziona i propri alleati tra i peggiori aguzzini libici, pur di scaricare su di loro il lavoro sporco. Ho paura della violenta ipocrisia che ne emana.

HO PAURA anche del mio prossimo. Di ciò che siamo diventati: dell’anziana pensionata che a Ventimiglia, affacciata alla finestra della propria casa al pianterreno, aspetta tutti i giorni il passaggio della volontaria di Intersos che assiste l’umanità dolente accampata sul greto del torrente, per insultarla. Degli anonimi vicini che tagliano di notte le gomme dell’auto a chi presta ospitalità ai migranti. Dell’uomo in malarnese, forse un disoccupato o un cassintegrato, che mi guarda storto se sulla porta del supermercato scambio un sorriso col senegalese in attesa, e gli affido il carrello perché ne ricuperi l’euro…

Mi spaventa, soprattutto, l’impressionante permeabilità del nostro immaginario (collettivo e individuale”) all’operazione mentale che ha portato a trasformare la migrazione da problema in ossessione (in nuovo “pensiero unico”), forzandone parossisticamente le dimensioni percepite (l’”invasione”!) e facendola esplodere nell’agenda politica. Perché di una vera e propria “operazione mentale” – o sul mentale – si tratta, a cui stanno lavorando tutti e tre i principali attori politici, quelli d’opposizione con l’intenzione di quotare alla propria borsa la paura come arma di delegittimazione di massa del governo, e quello di governo, per quotare alla propria borsa la promessa la securizzazione del fenomeno e il monopolio del controllo della paura.

UN’OPERAZIONE – possiamo aggiungere -, non nuova, paragonabile ad altre, che negli ultimi decenni hanno trasformato le linee di fondo del nostro sistema politico: quella che nella prima metà degli anni Novanta ha segnato la fine della Prima Repubblica e del suo sistema dei partiti (di massa), e quello che alla fine del primo decennio del secolo ha posto fine al tendenziale bipolarismo della Seconda Repubblica. Entrambi strutturate sullo stesso meccanismo che portava a far deflagrare un aspetto reale ma particolare fino a totalizzarlo e fargli occupare l’intero campo della discussione e dell’azione pubblica: nel primo caso si trattò della corruzione, nel secondo dello spread e della crisi del debito. Ora tocca ai migranti. E c’è davvero il rischio, reale, realissimo, che su questo tema ad alta potenzialità emotiva, se non si riuscirà a disinnescarla quella carica, si strutturi tutta la prossima campagna elettorale, piegando ad esso il profilo delle forze politiche e dell’azione istituzionale, in una rincorsa a chi con maggior clamore sfida e travalica il confine tra umano e inumano, nella ricerca di consenso.

MA DISINNESCARE quella carica esplosiva non è cosa facile. Non basta contrapporre al trionfo dell’inumano il racconto umanitario per dissolverla. Né il richiamo edificante a una solidarietà triturata e massacrata nella deriva individualistica che per decenni ci ha riconfigurati. La “malattia” è di sicuro “mentale”, ma ha una solida base materiale. La paura che si fa ostilità verso l’altro ha le sue radici nel processo di deprivazione, di perdita, di marginalizzazione e di precarizzazione dell’esistenza che ha sfarinato la nostra società. Nell’esercito di declassati, falcidiati nel reddito, umiliati nello status, smarriti nella dissoluzione dell’identità professionale o sociale, nella sensazione di essere stati abbandonati, sacrificati, dimenticati. È nella rabbia dell’”uomo dimenticato” e della frustrazione dell’indebitato e del fallito, che si annida la “malattia mentale” della paura dell’altro, dell’invasione, dello straniero… «Chi è sradicato sradica» scriveva Simone Weil a proposito della catastrofe mentale consumatasi entre deux guerres. Potremmo riadattarne il senso dicendo che «Chi è deprivato depriva»… E suona a beffa feroce che i responsabili di quella deprivazione, chi dal governo (centro-destra o centro-sinistra) ha contribuito con le proprie scelte sciagurate, d’austerità e di privilegio, a produrre quella deprivazione di massa, oggi tenti di usare quella stessa massa di deprivati – quei “penultimi” infuriati – per trarne consenso a danno degli ultimi tra gli ultimi.

È a quei “penultimi” che dovrebbe guardare una sinistra che si volesse adeguata alla sfida, per difenderne con le unghie e con i denti reddito, status e garanzie, se non si vuole che sull’altare dei loro diritti sociali offesi sacrifichino fin anche i diritti umani degli altri e di tutti.

Marco Revelli Il Manifesto del 15 settembre 2017

L’obbiettivo non è il governo ma una nuova forza

Il Forum “C’è vita a sinistra” (il manifesto, 8 luglio) ha avuto il merito di mettere finalmente di fronte alcuni interpreti potenziali della costruzione di una lista di sinistra e forse, obiettivo ancor più ambizioso, di un processo unitario, facendoli interloquire direttamente.

Cosa che prima era avvenuta solo a distanza e in modo separato. Il guaio è che con qualche variante è ancora quello che sta accadendo ora.

Le chance «da uno a dieci» di avere una «lista si sinistra capace di raccogliere il consenso di quei milioni di ex elettori che non votano più» – la domanda iniziale del Forum – sembrano assottigliarsi. C’è bisogno del classico colpo di reni e sarebbe bene avvenisse prima della cesura estiva, tracciando fin d’ora un road map che ci metta al sicuro da indecisioni e tentennamenti autunnali, che sarebbero letali.

I singoli hanno le loro responsabilità, passate e presenti, anche per quella sorta di irrigidimento autodifensivo generato da debolezza, ma sarebbe ingeneroso e fuorviante fermarsi a questo. Il nodo da sciogliere è che cosa si vuole ottenere con una presentazione elettorale. Va detto con nettezza che la posta in gioco non è il governo del paese. Dirlo con onestà non allontanerebbe voti. Anzi. Un obiettivo di simile natura è completamente fuori dalla portata di ciò che esiste a sinistra.

Non è poi così banale affermarlo, dal momento che dietro la ripetitività della formula del cosiddetto nuovo centrosinistra, si cela l’ambizione se non la convinzione della possibilità di ricoprire ruoli di governo seppure in forma subordinata. Un senso di responsabilità completamente travisato. Anche quando ce ne si rende conto, poi lo si nega nel passaggio successivo.

Ad esempio, D’Alema – persona attenta con le parole – afferma nel forum che la domanda è “volete o no che ci sia la sinistra?” Giustissimo, è esattamente questo l’interrogativo che dovremmo porre al nostro potenziale elettorato. Riguarda sia una lista che un eventuale soggetto politico. E’ un interrogativo che
segna un’epoca, proprio perché la risposta è tutt’altro che scontata. Quindi ci si dovrebbe presentare a un simile appuntamento con l’intelligenza dell’umiltà che non significa affatto la dismissione di ruoli e responsabilità ma la loro giusta riconsiderazione alla luce delle attuali condizioni.

Ma poi lo stesso D’Alema ripropone il centrosinistra, la “bandiera gettata nel fango” da Renzi, negando quindi l’assunto iniziale. Invece qui bisogna scegliere. O si lavora per ricostruire una sinistra, di cui il passaggio elettorale può essere un primo atto, oppure ci si prepara ad essere come l’intendenza che segue e a un più che probabile fiasco elettorale. Obiettivo, esiti e credibilità della lista vanno assieme. Se non è chiaro il primo non si ottengono gli altri e viceversa. D’altro canto in questi dieci giorni – guardando per ora solo lo scenario nazionale, ma con la consapevolezza che agiamo in un ambito europeo interdipendente chiamato anch’esso tra meno di due anni a elezioni – alcune cose si sono venute chiarendo.

Se qualcuno avesse avuto qualche dubbio sulla vocazione centrista con sguardo fisso a destra del Pd – ed è la definizione più tenera – se li è potuti togliere. Basti pensare alla vergogna della rinuncia allo ius soli o alla stessa ipotesi di agitare la carta dell’allontanamento del fiscal compact per abbassare le tasse anziché per rilanciare la spesa sociale e per investimenti, malgrado si sia coscienti, o si dovrebbe esserlo, che gli effetti reflattivi della prima scelta sono ben inferiori alla seconda. Mentre la repentina conversione destrorsa del M5Stelle libera forze in attesa di una credibile rappresentanza che non andrebbero deluse.

La stessa rinuncia di Pisapia a candidarsi alle elezioni – un episodio in sé minore – è sintomatica di una irrisolta identità e autonomia. Era già chiara la differenza fra il Brancaccio e Piazza Santi Apostoli. Il primo era percorso dalla domanda “cosa proponiamo?”, la seconda da “chi siamo?”.

Questioni di per sé non confliggenti, ma che necessitano un ordine di percorso (crono)logico-politico per essere risolte. Per questa ragione conviene partire dal Brancaccio e necessita una maggiore e tempestiva presa di responsabilità da parte di chi vi ha dato vita e vi ha partecipato.

I tempi sono brevissimi e impietosi. A quell’appuntamento sono seguite assemblee di territorio e altre ne seguiranno. Così pure approfondimenti tematici. Come si vede una scelta ben diversa da quella di improbabili primarie non si capisce fra chi, con chi e per cosa, alla ricerca del nuovo o del perduto leader.

L’esperienza di altri paesi europei ci dice che non esiste un’unica formula o un modello di percorso per dare o ridare vita a una sinistra. Ma un principio di base, sì. Un principio che rifiuta di essere confuso con un generico e indistinto populismo, considerando quest’ultimo come un terreno di lotta fra destra e sinistra.
Sul tema dei migranti questo è di una chiarezza solare. Ed è il legame dialettico, cioè non monodirezionale, con persone e figure sociali, diffuse e/o organizzate, portatrici di pensiero, di idee, di bisogni, di diritti.

Solo questo può evitare la frantumazione sia del giorno prima come del giorno dopo la scadenza elettorale.

Certo ci vuole coraggio. E il coraggio non ama modelli né continuismi: è sempre originale.
Alfonso Gianni
il manifesto 18 Luglio 2017

DISASTRI

Perpetuando il vizio della negazione dell’evidenza, movimenti e partiti dichiarano di aver avuto un successo nelle elezioni amministrative del 10 giugno. Solo Grillo riconosce che 5 Stelle non ha avuto un buon risultato. Per recuperare ha pensato bene di inseguire la Lega di Salvini nella caccia ai Rom e in genere agli immigrati. La sindaca Raggi dichiara Roma off limits per i gitani e per i mendicanti che operano attorno alle stazioni del metrò. Prioritaria, per la Sua amministrazione, è la questione dei campi Rom. Il nuovo che avanza è indifferente al disastro di immagine di una capitale incapace di risolvere problemi vitali per i cittadini come i rifiuti o lo stato delle sue strade,  della fuga di tanti centri di produzione verso Milano, del degrado sociale ed economico della più bella capitale d’Europa. Bazzecole. Sono i poveracci che necessitano di più controlli. Chi ha votato 5Stelle con la speranza di aver finalmente una amministrazione efficace e adeguata alle bisogna deve prendere atto che il nuovo somiglia molto al vecchio e l’incompetenza non è risolvibile con le chiacchiere di un comico. Enfatizzare la democrazia diretta del web non è sufficiente a ottenere consenso elettorale. Scegliere un candidato sindaco con cento “mi piace” non sembra essere cosa saggia anche se sembra molto cool, come direbbero  gli inglesi. Perplessità sulle verità di internet sono giustamente diffuse. Forse bisognerà affrontare le noiosissime riunioni in cui il popolo discute e sceglie i candidati. Molto retrò ma che ha dimostrato efficacia per molti anni. La sindaca Raggi può legitimamente continuare a accusare le vecchie amministrazioni (pessime) di centrodestra e di centrosinistra, ma ad un certo punto dovrà iniziare a risolvere qualche problema.
Con frettolosità i partiti hanno dichiarato la propria soddisfazione per i risultati e tutti hanno considerato irrilevante il crollo dei votanti. Negli ultimi venti anni si è passati da una partecipazione al voto amministrativo di oltre l’80 per cento al 60 percento. Certo si può dire che la disaffezione al voto è diffusa in Europa. Macron, il nuovo enfant prodige tanto amato anche in Italia, ha vinto le presidenziali alla grande e ha ottenuto alle politiche il 32 per cento ma alle politiche i votanti sono stati pochi. Un francese su due ha scelto l’astensione quindi Macron ha vinto con il 16 per cento degli aventi diritto al voto. Molti intellettuali di ogni colore ritengono che le forme democratiche più diverse siano ormai tutte in crisi. Le ragioni sono molteplici e riconducono tutte alla crisi della politica e delle forme della struttura pubblica. Dove nasce la incapacità della politica nell’affrontare i problemi posti dalla globalizzazione? La crisi della politica viene dichiarata a tutte le latitudini e il ceto politico continua a cercare scorciatoie che si scontrano almeno in Italia con l’interesse per la sopravvivenza di simil partiti e con interesse dei singoli per la propria sopravvivenza. Non c’è sistema elettorale perfetto. La sciocchezza del pifferaio di Toscana che prevedeva una legge elettorale che garantiva un vincitore la sera dello spoglio elettorale, era appunto una stupidaggine. Il sistema maggioritario più estremo, quello della Gran Bretagna, può produrre  a due settimane dal voto un governicchio della signora May destinato a vita grama come la neve d’agosto. Ballerà una sola estate la leader dei conservatori inglesi. Politicamente ha vinto l’arcaico Corbyn nonostante tutte le previsioni degli opinion maker e ha vinto con una piattaforma elettorale chiaramente di sinistra che mette in soffitta il blairismo conquistando la maggioranza del voto giovanile. Occasione di riflessione anche per il PD? Non se ne parla, Lui ha dichiarato che è stato un peccato. Se al posto di Corbyn ci fosse stato un blairiano i laburisti avrebbero vinto. Non c’è limite al ridicolo.