Intervista a Luciano Gallino

Una cam­pa­gna elet­to­rale in cui «è stato fatto il pos­si­bile per tra­sfor­mare il voto euro­peo in un voto sui par­titi. I veri temi in que­stione? Assenti». Al pro­fes­sore Luciano Gal­lino, socio­logo del lavoro e tra i pro­mo­tori della lista l’Altra Europa con Tsi­pras, il modo in cui i grandi par­titi e i media hanno affron­tato il voto euro­peo è sba­gliato: «Potrebbe essere un’elezione che si svolge in Austra­lia o in Gua­te­mala: i tre prin­ci­pali par­titi sgo­mi­tano solo in vista del dopo».

Una ragione può essere che per le due grandi fami­glie, Pse e Ppe, le lar­ghe intese sono un esito scontato?

Comun­que non giu­sti­fica l’omissione. Fac­cio un esem­pio: la Com­mis­sione Euro­pea da un anno con­duce trat­ta­tive segrete con gli Stati Uniti per sta­bi­lire un par­te­na­riato sugli inve­sti­menti nel com­mer­cio, il Ttip (il Tran­sa­tlan­tic trade and invest­ment part­ner­ship, ndr). È un dispo­si­tivo che pre­senta rischi colos­sali per i diritti dei lavo­ra­tori, per la sicu­rezza ali­men­tare, per la pro­prietà intel­let­tuale. E i com­mis­sari lo sanno bene, tant’è che si chiu­dono in segrete stanze per discu­terne. Da noi non se ne parla, in altri paesi sì. O anche: eleg­gere un pre­si­dente o un altro può fare la dif­fe­renza, dopo i cin­que anni di pre­si­denza ottu­sa­mente libe­rale di Barroso.

Il social­de­mo­cra­tico Schulz però sarebbe eletto con i voti del par­tito di Barroso.

Su alcuni temi Schulz potrebbe fare la dif­fe­renza. Certo è un espo­nente della Spd tede­sca post-Schroeder, dimis­sio­na­ria da ogni tipo di sini­stra. Il Pse si accor­derà con il Ppe, in fondo la pen­sano allo stesso modo sul trat­tato di Maa­stri­cht, che è uno sta­tuto di una cor­po­ra­tion, non un docu­mento politico.

L’Italia rispet­terà le regole del six pack e del fiscal com­pact, o non potrà farlo, come ormai ammette anche il Pd?

I dati dicono che il nostro debito pub­blico ormai è impa­ga­bile. Il Pil è sceso intorno ai 1550 miliardi, il debito è bal­zato oltre i 2mila. Per fare fronte ai requi­siti del fiscal com­pact ser­vi­rebbe desti­nare 40–50 miliardi l’anno dell’avanzo pri­ma­rio. Ma è insen­sato. Già oggi lo stato incassa circa 500 miliardi di impo­ste e tasse e ne spende intorno a 420–430. Toglierne altri 40–50 sarebbe un disa­stro per lo stato sociale e per l’amministrazione pub­blica. Le strade sono due: o, appunto, il disa­stro, ovvero che l’Italia non si ade­gua e ven­gono ero­gate ulte­riori misure puni­tive; oppure che i prin­ci­pali paesi con debito rile­vante si accor­dano per diluire o abo­lire il fiscal com­pact; o comun­que per pro­ce­dere a una ristrut­tu­ra­zione paci­fica del debito. Molto dipende dal risul­tato di que­sto voto.

È la pro­po­sta di Tsi­pras, che lei sostiene. Una con­fe­renza per can­cel­lare parte del debito, sul modello di quella di Lon­dra del ’53 che per­mise di risol­vere il debito della Ger­ma­nia. È fat­ti­bile, a suo parere?

Sarebbe un primo passo con­creto. L’idea di bat­tere i pugni sul tavolo, quella di Renzi, è ridi­cola: ci vuole un certo numero di paesi, Fran­cia Spa­gna e altri, per otte­nere una la con­fe­renza. Docu­men­tando che il debito non si può pagare. Par­larne ad alto livello sarebbe già un passo avanti rispetto alla lita­nia del ’ce lo chiede l’Europa’. La Ger­ma­nia non va demo­niz­zata: ma va ricor­dato che ha tratto van­tag­gio dal fatto di non aver mai pagato i suoi debiti. Ha pagato in misura minima le ripa­ra­zioni della guerra del ’15-’18. E quanto all’enorme debito lasciato dai nazi­sti, è stato can­cel­lato dagli ame­ri­cani che hanno stam­pato miliardi di mar­chi deu­tsche mark, non più di rei­ch­smark, nel giu­gno del ’48 li hanno por­tati in Ger­ma­nia, e il giorno dopo hanno distri­buito la nuova moneta. Così si è abbat­tuto il debito pub­blico tede­sco. Sono argo­menti deli­cati, ma qual­cuno ben pre­pa­rato che li affronti avrebbe più pos­si­bi­lità di suc­cesso che non uno che si fac­cia male bat­tendo i pugni sul tavolo.

Le poli­ti­che di Renzi rispon­dono a cri­teri europei?

Agli aspetti peg­giori, però. La Troika e il Con­si­glio euro­peo da vent’anni lavo­rano per com­pri­mere le con­di­zioni di lavoro i diritti e i salari, in linea con le misure regres­sive che hanno visto alla testa i par­titi di sini­stra, social­de­mo­cra­tici tede­schi, socia­li­sti fran­cesi e labu­ri­sti bri­tan­nici. C’è un docu­mento del ’99, un pro­clama di Blair e Schroe­der, che sem­bra scritto da Con­fin­du­stria. E dice chiaro che biso­gna tagliare lo stato sociale.

Renzi segue ancora quelle vec­chie linee di dire­zione, per esem­pio sul lavoro?

La gene­ra­liz­za­zione del lavoro pre­ca­rio è già una realtà. Nes­sun governo era arri­vato a imporre spinte alla pre­ca­riz­za­zione del lavoro come è stato fatto oggi.

Ora dovrebbe arri­vare il vero cuore del job act, il con­tratto unico e la costosa riforma degli ammor­tiz­za­tori sociali.

Prima che costosa è rischiosa. La cassa inte­gra­zione ha un van­tag­gio fon­da­men­tale: man­tiene il posto di lavoro, quindi man­tiene una qual­che tito­la­rità di diritti per il lavo­ra­tore. Quello che si pro­spetta, a quanto si capi­sce, can­cel­le­rebbe que­sta minima difesa di un lavo­ra­tore. Le ricette di Renzi sono figlie di quelle di Blair, a loro volta nipoti di quelle di That­cher, e cugine di quelle di Schroe­der, per il quale la social­de­mo­cra­zia doveva smet­tere di pen­sare che i lavo­ra­tori hanno diritto a un posto fisso. Appun­tan­dosi il badge di par­titi di sini­stra hanno ridotto i salari e mol­ti­pli­cato la pre­ca­rietà. Così è l’Italia oggi. La pre­ca­rietà è ele­va­tis­sima, lo dice l’Ocse (l’organizzazione per la coo­pe­ra­zione e lo svi­luppo eco­no­mico, ndr). E porta a un impo­ve­ri­mento di tutta la strut­tura eco­no­mica. Lavo­ra­tori mal­pa­gati con­su­mano meno, la domanda aggre­gata — ricor­dava Key­nes — sof­fre. E un’azienda che deve retri­buire in modo decente e con­ti­nua­tivo i lavo­ra­tori è incen­ti­vata a fare ricerca e svi­luppo, gli altri fronti che fanno il suc­cesso di un’impresa. Invece poter usare i lavo­ra­tori con il cri­te­rio on-off, cioè quando mi servi ti uso e quando no ti butto, spinge le imprese a pun­tare solo sul costo del lavoro e tra­scu­rare il resto. I nostri impianti sono i più vec­chi d’ Europa, le spese in ricerca sono mise­rande, sul 34 paesi Ocse siamo intorno al 30esimo.

Renzi dice: ce la faremo, no ai gufi.

È uno spot pub­bli­ci­ta­rio, ma se non si affron­tano i nodi prima o poi, anzi pre­sto, il conto lo paghe­ranno i lavoratori.

Su que­sto Grillo pesca voti a piene mani.

La pro­po­sta di Grillo sul lavoro è un insieme di cose dif­fe­renti, alcune gene­ri­che e con­di­vi­si­bili, altre no. E tra i lavo­ra­tori c’è il mal­con­tento, che ovvia­mente si sfoga con­tro i sin­da­cati. È già suc­cesso con la Lega, oggi suc­cede con il M5S.

Anche Renzi prova a inter­cet­tare il mal­con­tento con­tro i sin­da­cati, attac­cando aper­ta­mente la Cgil.

I lavo­ra­tori sono insof­fe­renti per quello che i sin­da­cati non hanno fatto. Ma va detto che ai sin­da­cati è stata fatta una guerra senza quar­tiere, dagli anni 80 in poi. La pre­ca­rietà, appunto: come si fa a orga­niz­zare i lavo­ra­tori in pre­senza di venti con­tratti dif­fe­renti pic­cole aziende sparse sul ter­ri­to­rio? La glo­ba­liz­za­zione ha signi­fi­cato una radi­cale tra­sfor­ma­zione nel modo di pro­durre: i mille lavo­ra­tori che sta­vano sotto lo stesso padrone con lo stesso con­tratto sono diven­tati dipen­denti di 15 aziende dif­fe­renti con con­tratti dif­fe­renti. E con un padrone che non si sa più chi sia. Di lì biso­gna par­tire per rico­struire una qual­che forma solida di sindacato.

dal Manifesto del 24 maggio 2014

Centralismo democratico

Sarà anche una frase fatta ma qualche volta è inevitabile ricordare che la storia tende a ripetersi trasformandosi a volte in farsa. Dure e ripetute dichiarazioni di vari esponenti del PD: Renzi ha vinto le primarie, è segretario del partito e presidente del consiglio. Lui ha il diritto dovere di decidere. Ciò che Lui decide lo decide il partito e quindi tutti devono obbedire. Ricorda qualcuno le regole delle democrazie popolari del blocco sovietico? Vigeva il meccanismo del centralismo democratico. Il partito sopra tutto. Che cos’era il centralismo democratico? Da Wikipedia: L’opera Che fare? del 1902 (di Lenin) è spesso vista come il testo fondante del centralismo democratico. A quel tempo, il centralismo democratico era generalmente visto come un insieme di principi per l’organizzazione di un partito rivoluzionario dei lavoratori. Il modello di Lenin per questo partito, che secondo lui doveva seguire i principi del centralismo democratico, era il Partito Socialdemocratico Tedesco.
La dottrina del centralismo democratico fu uno dei motivi dei contrasti fra bolscevichi e menscevichi. I menscevichi propugnavano una più lasca disciplina di partito all’interno del Partito Operaio Socialdemocratico Russo nel 1903, come fece Lev Trockij, negli scritti I nostri doveri politici, fino a quando Trockij si unì ai bolscevichi nel 1917.
Il centralismo democratico fu anche descritto nella Costituzione sovietica del 1977 come un principio per organizzare lo stato: “Lo stato sovietico è organizzato e funziona sul principio del centralismo democratico, cioè il carattere elettivo di tutti gli organi dell’autorità statale dal più basso al più alto, la loro responsabilità verso il popolo, e l’obbligo degli organi inferiori di sottostare alle decisioni degli organi superiori. Il centralismo democratico unisce l’autorità centrale con l’attività creativa e l’iniziativa locale e con la responsabilità di ogni organo e funzionario sul lavoro affidato a loro”. Ascoltando la ministra Boschi rimproverare coloro che prospettano soluzioni diverse di riforma del Senato da quelle dell’accoppiata Renzi-Berlusconi, vengono spontanei due suggerimenti. Il primo: rendere esplicita la volontà di trasformare il PD in un partito leninista. Il secondo consiglio visto che bisogna, per il bene del Paese, “riformare” in fretta la Costituzione, per non perdere ulteriore tempo, adottiamo la Costituzione sovietica del 1977. Sarebbe coerente con le ripetute affermazioni renziane attorno alla rivoluzione in atto.