da Francesco Mandarini | Ott 31, 2014
Al termine di una delle prime esposizioni pubbliche delle sue ricerche, Sigmund Freud si guadagnò un commento piuttosto velenoso: «C’è del nuovo e del buono nelle sue teorie, dottor Freud, peccato che il buono non sia nuovo e il nuovo non sia buono!». L’astio conservatore che ispirò questo giudizio rivelava brutalmente l’intento di denigrare ogni innovazione e celebrare le salde verità della tradizione accademica. Nondimeno si faceva forza di una contraddizione, sempre possibile, sul piano logico come su quello storico, tra il «nuovo» e il «buono». Contraddizione che l’ideologia progressista lasciava svanire in un ottimismo raramente disinteressato e assai efficace nel mascherare gli squilibri, gli orrori di nuovo conio, le esclusioni e le discriminazioni compiute durante il cammino verso il «Progresso». Questa ideologia, un tempo terreno prediletto d’incontro tra la così detta borghesia «illuminata» e il socialismo del movimento operaio, è stata sottoposta alle catastrofiche prove della storia e a una ineludibile critica teorica e politica, che alla fine ha preteso che la «Modernità» si facesse «riflessiva», attenta ai guasti che aveva prodotto e al blocco delle sue stesse prospettive. Il «progressismo» ingenuo e trionfalista divenne così un ferro vecchio che nessuno voleva più nominare, sebbene fosse rimasto, sottotraccia, l’ultima linfa identitaria della «sinistra». La rivoluzione neoliberista le avrebbe sottratto anche questo labile ancoraggio. Quando fu fatta passare l’idea che dall’ arricchimento dei ricchi tutti avrebbero tratto un qualche vantaggio, che l’accentuarsi delle diseguaglianze sarebbe stato motore di sviluppo e il potere incontrastato delle élites il trionfo dell’efficienza, il campo del «Progresso» era interamente occupato. A suggello di questa occupazione i cervelloni del Corriere della sera, poterono infine decretare che «il liberismo è di sinistra». Ben consapevoli che con l’inversione dei termini il risultato non cambia. La sinistra liberista si accingeva a occupare la scena all’insegna della «novità».
Il «progressismo» era però alquanto screditato e per riesumarne il nuovo spirito animale bisognava ricorrere ad altre parole: «innovazione», «cambiamento», «futuro», «nuovo», perfino «rivoluzione» accompagnata da qualche aggettivo glamour. E sospingere negli inferi della «conservazione» voci critiche, posizioni conflittuali e resistenze. Ma per fare questo una ulteriore acrobazia retorica si rendeva necessaria. Fin dagli albori della Modernità, «conservazione» ha significato la conservazione di gerarchie e privilegi e «tradizione» la trasmissione indisturbata dei medesimi. Si trattava a questo punto di equiparare i diritti acquisiti ai privilegi di questa o quella categoria, gli operai di fabbrica ai signori col sangue blu. Operazione facilitata dal fatto che quei diritti erano stati nel frattempo indeboliti e soprattutto negati a una vasta platea di cittadini, la nuova plebe del precariato e dei diversamente inoccupati (che, di riforma in riforma, plebe è sempre rimasta). Fatto sta che altri «privilegi», quelli spettanti (per tradizione o per usurpazione) alle alte sfere della gerarchia economica e sociale non dovevano essere toccati. Perché esigere una cosa del genere ci avrebbe confinato nelle fila della «conservazione» più arcaica, ostacolando il progresso (pardon, l’innovazione) fondata sulla mitologia della «competitività» e del «merito». In poche mosse la dialettica tra innovazione e conservazione veniva così ridisegnata ad uso e consumo della propaganda governativa.
Ora, tra le «novità» del tempo presente possiamo annoverare l’erosione dei redditi e delle condizioni di vita, il blocco della mobilità sociale verso l’alto, la devastazione dell’ambiente, il potere incontrollabile del capitale finanziario, la pervasività dei dispositivi di controllo sulla vita quotidiana, la crescita smisurata della popolazione carceraria, la barbarie postmoderna e «giovanissima» che imperversa in diverse aree del modo e molte altre sgradevoli «innovazioni». Esiste un «nuovo» capace di contrastare queste «novità»? Un «buon nuovo»? Se esiste non sembra prosperare tra gli innovatori per professione e per vocazione. Dediti, piuttosto, a un sostanziale ritorno al passato. Il lavoro con pochi diritti e a basso salario è già esistito, la «governabilità» senza intralci anche, l’identificazione tra Partito e Nazione, disgraziatamente, pure. Il gioco consiste nello spacciare il negativo prodotto nel presente, e secondo i suoi parametri «innovativi», come retaggio del passato. Attenendosi al vecchio adagio secondo cui tutti i mali deriverebbero dal fatto di non aver applicato le «riforme» con sufficiente decisione e non dal contenuto di quelle «riforme» stesse.
«Tutto è cambiato», declama l’uomo del futuro, «il posto fisso non esiste più» (ce ne eravamo accorti da almeno due decenni), ragion per cui il suo Jobs act, promette di ampliare e stabilizzare il lavoro a tempo indeterminato (e cioè la finzione di un «posto fisso» a certe improbabili condizioni). Serve un chiarimento: se, tendenzialmente, il lavoro standard a tempo indeterminato continuerà inevitabilmente a contrarsi (vuoi per processi connessi all’automazione, vuoi per l’affermarsi di diverse forme di vita, vuoi per obsolescenza storica del lavoro sotto padrone e l’accresciuta autonomia del lavoro vivo) allora la redistribuzione della ricchezza andrebbe ripensata su basi più universalistiche e sganciate dalla specifica condizione lavorativa; se invece «il posto fisso» esiste ancora ed è considerato addirittura la condizione normale e auspicabile, privarlo di diritti e di garanzie sarebbe semplicemente criminale. Almeno se ci si pone dal punto di vista della difesa dei lavoratori e non da quello di chi si giova della loro più estrema ricattabilità, senza dare, neanche a queste condizioni, alcuna garanzia di nuova occupazione.
Nel frattempo si aumenta enormemente la pressione fiscale sui lavoratori autonomi (questi sì davvero nuovi nelle loro grame condizioni di vita) a partire dallo stratosferico reddito di 15.000 euro all’anno. Per un campione del postfordismo di «sinistra», quale si vorrebbe il nostro presidente del consiglio, non c’è male.
Passando in rassegna la più avanzata frontiera dell’immaginazione politica contemporanea troveremo poi il bonus bebè rateizzato, lo sconto penale sul rientro dei capitali «esodati», senza dimenticare gli ateliers nationaux delle Grandi opere, la pro¬messa di 800mila posti di lavoro e altre inaudite «innovazioni» del medesimo tenore. La «luce in fondo al tunnel» è addirittura abbagliante.
Il ritorno innovativo all’antico fu chiamato, in un tempo feroce ma di formidabile fioritura culturale, Rinascimento. In un altro tempo di ritorno delle signo¬rie e delle servitù, delle teste coronate e dei loro privilegi, di spietata repressione di ogni dissenso e conflitto, fu invece battezzato Restaurazione. Questa seconda denominazione sembra purtroppo la più adatta a designare il panorama della crisi e del suo governo che ci circonda.
Marco Bascetta
Dal Manifesto del 31 Ottobre 2014
da Francesco Mandarini | Ott 10, 2014
Matteo Renzi non perde occasione di ripeterlo: se l’Italia vuole rimanere competitiva deve seguire l’esempio della Germania e fare “le riforme” (alla tedesca). Non è ovviamente l’unico a sostenere questa posizione. L’idea che la Germania sia uno dei pochi paesi in Europa ad “avercela fatta”, e che rappresenti dunque un modello per il resto del continente, è un fatto che viene dato per assodato dalla maggior parte dei politici e commentatori, al punto che oggi quel processo di “germanizzazione dell’Europa” (e, nel caso specifico, dell’Italia) in corso viene salutato da molti come un fatto positivo se non addirittura inevitabile. Trattasi però di una pericolosa illusione: il “modello tedesco”, lungi dall’essere una best practice da esportare nel resto d’Europa, rappresenta un serio pericolo non solo per gli altri paesi ma anche per la stessa Germania.
A dirlo non è qualche “gufo” del Sud Europa, ma nientedimeno che Marcel Fratzscher, presidente di uno dei principali istituti di ricerca economica tedeschi, il DIW, in un libro intitolato appunto Die Deutschland-Illusion (“L’illusione tedesca”; a tal proposito si veda anche questo articolo di Vincenzo Comito). Secondo Fratzscher, il mito del modello tedesco si basa su una serie di false illusioni, prima fra tutte l’idea che l’enorme avanzo commerciale accumulato dalla Germania in seguito all’introduzione dell’euro (a fronte di un disavanzo commerciale altrettanto grande nei paesi della periferia) sia da imputare alla maggiore “produttività” ed “efficienza” dell’economia tedesca, a sua volta il risultato della famosa riforma del mercato del lavoro (detta “Hartz”) introdotta da Schröder nel 2003-5 – quella a cui si è ispirato Renzi per il suo “Jobs Act” –, a cui andrebbe il merito di aver ridotto la disoccupazione e rilanciato la crescita nel paese. Questa in sostanza la narrazione autocelebrativa del “miracolo tedesco”, che però ha ben poco a che vedere con la realtà, dice Fratzscher. Tanto per cominciare bisogna sfatare il mito della Germania come “locomotiva d’Europa”: a ben vedere, dal 2000 ad oggi il tasso di crescita del paese è stato un misero 1.1%, ponendo la Germania al 13esimo posto tra i 18 membri dell’eurozona. La riforma Hartz, poi, ha sì diminuito la disoccupazione ma lo ha fatto allargando enormemente il bacino dei lavoratori precari, part-time e sottopagati (alla riforma va il merito di aver introdotto i cosiddetti minijob e midijob), col risultato che il monte ore totale è rimasto praticamente invariato. (Per un’analisi dettagliata dei deleteri effetti sociali della riforma, si veda questo recente studio della fondazione Rosa Luxemburg).
La riforma ha anche e soprattutto avuto l’effetto di “congelare” i salari tedeschi, comprimendo la domanda interna e permettendo al paese di acquisire un vantaggio competitivo rispetto ai suoi partner commerciali europei, che non sono riusciti a imporre le stesse condizioni ai loro lavoratori: è unicamente a questo – ricorda Fratzscher – che va imputato il successo commerciale della Germania, e non a un aumento del tasso di produttività, che è da anni uno dei più bassi del continente (tanto per capirci, in seguito all’introduzione dell’euro, il tasso di produttività greco è cresciuto molto più rapidamente di quello tedesco). E ovviamente il boom delle esportazioni tedesche è stato reso possibile solo dal fatto che gli altri paesi del continente non hanno seguito la stessa politica salariale, ma hanno invece mantenuto un livello di domanda tale da poter assorbire le esportazioni tedesche (accumulando dunque un disavanzo commerciale). Questo è perfettamente normale: all’interno di un’area monetaria, il surplus di certi paesi corrisponde necessariamente al deficit di altri (se io ho un surplus nei tuoi confronti, tu non puoi averlo nei miei). Ma c’è di più: se è vero che l’alto livello della domanda in alcuni di questi paesi era in parte il risultato di bolle speculative (soprattutto nel settore immobiliare) – secondo la lettura moralistica che i tedeschi danno della crisi, il risultato di una naturale tendenza all’eccesso dei paesi periferici, da espiare per mezzo dell’austerità –, è altrettanto vero che il settore finanziario tedesco ha attivamente contributo alla creazione di queste bolle. In sostanza, le banche tedesche hanno preferito reinvestire i profitti delle esportazioni all’estero piuttosto che in Germania, esportando enormi quantità di capitali verso i paesi della periferia, alimentando boom immobiliari in molti di essi (in particolare in Spagna e Irlanda) – e, soprattutto, permettendo ai consumatori di questi paesi di continuare ad importare prodotti tedeschi. È quello che gli americani chiamano vendor-financing: ti vendo qualcosa ma te ne finanzio l’acquisto.
Questa politica – nota Fratzscher – ha rappresentato un problema tanto per i paesi in deficit (le cui economie sono crollate allo scoppio di queste bolle, nel 2008) quanto per la Germania, che infatti da anni registra un tasso di investimento, sia pubblico che privato, tra i più bassi in Europa, a cui è da imputarsi la crescita anemica del tasso di produttività tedesco. Come ha scritto di recente Philippe Legrain, ex assistente economico del presidente della Commissione europea, il caso della Germania dimostra che un avanzo commerciale delle dimensioni di quello tedesco – che ormai ha superato anche quella della Cina – non è il segno di una maggiore “competitività” o “efficienza” del sistema tedesco ma al contrario il sintomo di un’economia profondamente “disfunzionale”, in cui la ricchezza viene progressivamente redistribuita dal lavoro al capitale (e dalle piccole e medie imprese alle grandi imprese esportatrici) e in cui gli investimenti e la domanda interni – fattori determinanti per la crescita della produttività e di una competitività “sana” – vengono sacrificati sull’altare della bilancia commerciale. (Guarda caso nessuno si ispira al “modello cinese”, anch’esso fortemente export-oriented).
Più in generale, lo stato dell’economia europea mette in evidenza quanto sia fallace l’idea che il cosiddetto “modello tedesco” – basata sulla compressione dei salari e della domanda interna al fine di incrementare le esportazioni, perché di questo si tratta, null’altro – possa rappresentare un modello per l’Europa nel suo complesso. Risulta evidente, infatti, che tale modello può funzionare solo se c’è qualcuno che si fa carico di trainare le esportazioni, stimolando la domanda interna. Se tutti i paesi dell’eurozona seguono la stessa politica di deflazione interna (sia sul fronte fiscale che salariale, comprimendo dunque sia la domanda pubblica che quella privata), come stanno facendo da vari anni a questa parte, il risultato è inevitabilmente un crollo della domanda aggregata in tutta l’area monetaria e conseguentemente una diminuzione delle esportazioni dell’eurozona nel suo complesso. Il riequilibrio della bilancia dei pagamenti intra-euro, dovuto a una drammatica riduzione dei deficit commerciali dei paesi della periferia, è infatti imputabile perlopiù al crollo della domanda e dei salari – e dunque all’aggravarsi della recessione – in quei paesi, piuttosto che a un aumento delle esportazioni. In altre parole, il beneficio (limitato) di un incremento delle esportazioni per i paesi della periferia viene completamente azzerato dagli effetti devastanti sull’economia di un’ulteriore riduzione della domanda in un periodo di recessione, accelerando così la spirale deflazionistica, specialmente se prendiamo in considerazione il fatto che le esportazioni rappresentano una percentuale relativamente bassa dell’attività economica di quei paesi (a differenza della Germania).
In questo senso, è lecito domandarsi se lo scopo della riforma del mercato del lavoro su cui sta spingendo il governo sia realmente quello di una semplice “sburocratizzazione” del mercato del lavoro italiano, o se sia piuttosto finalizzata a facilitare quella politica di deflazione salariale che l’asse Berlino-Francoforte-Bruxelles continua ad indicare – in barba a ogni evidenza del contrario – come l’unica via d’uscita dalla crisi per paesi come il nostro (si veda per esempio l’editoriale di qualche giorno fa di Hans-Werner Sinn nel Financial Times, in cui l’influente economista tedesco afferma che “la deflazione non è un pericolo per il Sud Europa ma un presupposto necessario per il recupero della competitività”). Soprattutto se si considera che la moderazione salariale fu l’obiettivo centrale della riforma tedesca a cui si ispira apertamente il nostro Presidente del Consiglio.
A nulla sembra valere il fatto che il volume degli scambi intra-europei ha registrato un crollo vertiginoso negli ultimi quattro anni, a danno anche della Germania (che non a caso ha segnato un tasso di crescita negativo nell’ultimo trimestre). È vero che finora il settore delle esportazioni tedesco è riuscito a riorientarsi verso il mercato extra-europeo, ma è opinione diffusa che di fronte a una stagnazione della domanda a livello globale una politica di questo tipo non è sostenibile nel medio termine neanche per la Germania (che infatti ha visto la sua fetta delle esportazioni globali passare dal 9.1% del 2007 all’8% nel 2013, più o meno la stessa percentuale che registrava ai tempi della riunificazione). E di certo non è immaginabile che tutti i paesi dell’eurozona registrino un avanzo commerciale nei confronti del resto del mondo, in una corsa al ribasso su costi e salari, impossibile da vincere, con paesi come la Cina.
L’Europa e la Germania, concordano Fratzscher e Legrain, hanno una sola speranza per rimanere realmente “competitive” sul mercato globale: rilanciare la domanda interna e gli investimenti (sia pubblici che privati) e puntare su quei settori ad elevato valore aggiunto che sono gli unici che hanno il potenziale di coniugare crescita economica, competitività e sostenibilità ambientale e sociale. Prima che la “malattia tedesca” contagi irreversibilmente il resto del continente.
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