INGRAO, LA SINISTRA E LA DEMOCRAZIA

I
Nel suo scritto per i 100 anni di Pietro Ingrao, Luciana Castellina ricorda come per il cinquantesimo compleanno regalò assieme a Sandro Curzi, un paio di mocassini invitando Pietro ad essere meno prudente e “A camminare con i tempi. Cammina con noi”.
Era il 1965 l’anno di preparazione dell’XI congresso del PCI. Nell’autunno si svolsero i congressi provinciali sulla base di tesi elaborate dal comitato centrale. Il primo dopo la morte di Togliatti. Ingrao era il parlamentare dell’Umbria e per l’occasione congressuale, il partito umbro decise di regalare un abito da “cerimonia” come incoraggiamento per un evento che sarebbe stato di tensione estrema per Pietro. Sapevamo che il congresso sarebbe stato di rilievo per la vita del partito. Quello della federazione di Perugia aveva già sperimentato chiaramente la divisione tra la piattaforma del comitato centrale e le posizioni di Ingrao. Le conclusioni del dibattito, infatti, furono svolte da Rinaldo Scheda, uno dei leader della CGIL più amati e popolari. Non piacquero le sue conclusioni tanto che parte del congresso, guidata da Ilvano Rasimelli, pretese la riapertura del dibattito che ci fu ma non cambiò il dato: Ingrao e le sue idee erano in netta minoranza anche a Perugia.
Il congresso nazionale si aprì a Roma il 25 di gennaio. Non essendoci formali correnti, i delegati furono eletti sulla base di rappresentatività sociale e politica. A me spettava il ruolo del delegato “giovane operaio”. Sono passati 50 anni e rileggere gli atti del congresso è stato certo di grande utilità per la qualità politica di molti interventi. Utile è stato per rammentare il clima che respirai in quell’enorme salone del Palazzo dei Congressi dell’EUR. Nitida è l’immagine dei delegati in piedi ad applaudire Ingrao mentre la presidenza, gelidamente seduta, cercava di interrompere l’ovazione dei delegati. Pochi della presidenza si unirono all’applauso, tra questi Gino Galli in piedi e commosso. La indignazione mia e di Vinci Grossi, altro delegato umbro, fu tale che al momento della votazione per alzata di mano dei membri del comitato centrale votammo contro Cossutta e Paglietta. Gli altri delegati umbri rimasero di sasso. Ma io ero il giovane operaio “arrabbiato” e Vinci l’intellettuale fuori dal coro. Nessuna reprimenda quindi. Subito dopo il congresso, andò molto peggio a Ingrao e agli ingraiani doc.. Ingrao aveva, tra le altre cose, messo in dubbio la sacralità dei vincoli del centralismo democratico. Ciò non era tollerabile né per la destra amendoliana né per i filosovietici di Cossutta. E Cossutta era il responsabile rigoroso dell’organizzazione!! Prestigiosi dirigenti dovettero cambiare ruolo e lavoro, Ingrao fu di fatto spostato all’impegno in parlamento come Capo Gruppo. In quel clima iniziò l’incubazione del processo che sfocio nella straordinaria avventura del “Manifesto”. Il PCI si apprestava dopo pochi anni a radiare la parte più innovativa del suo gruppo dirigente.
Ingrao è stato parlamentare dell’Umbria fino al 1989 e non ha mancato occasione per aiutare a rinnovare il partito umbro malgrado che, le sue posizioni politiche, fossero sempre in netta minoranza nei gruppi dirigenti e nei congressi, il suo contributo di idee è stato decisivo per rendere il PCI meno provinciale. La assillante raccomandazione di Pietro volta ad allargare a nuove idee e riferimenti le nostre biblioteche personali, ha funzionato in una certa fase di formazione dei gruppi dirigenti. Soltanto al XVIII congresso le posizioni programmatiche approvate furono quelle di Ingrao e in minoranza si ritrovò la squadra dei miglioristi di Napolitano. Purtroppo Occhetto decise di fare una cosa giusta, rinnovare il PCI. Lo fece in modo sbagliato. Le conseguenze sono note. Una delle assurdità della svolta fu che coloro che per anni avevano impedito le innovazioni programmatiche e organizzative dell’ala sinistra del partito, adesso diventavano gli alfieri di un rinnovamento che, come si è visto, rientra nella categoria della dissoluzione verso il nulla.
Il PCI umbro ha dovuto molto a Ingrao e certamente negli anni ha dimostrato un approccio verso il dissenso molto diverso da altre parti del Paese. Coltivare il dubbio è un esercizio molto utile in politica. Nell’esplodere negli anni ’60 delle lotte studentesche e operaie, in occasione del XII congresso della Federazione di Perugia, arrivò una lettera al segretario Settimio Gambuli in cui venivano presentate le dimissioni dal partito della quasi totalità dei dirigenti della mia generazione. Una lacerazione umana e politica che cambiava profondamente la struttura del gruppo dirigente. Compagni di grande intelligenza e passione politica sceglievano un’altra strada. Per me fu un trauma sapere che Enzo Forini o Enrico Mantovani non erano più dei dirigenti del partito. I congressisti ebbero reazioni diverse. Aspra fu quella dell’area filosovietica, dialogante quella di quasi tutto il vertice della Federazione. Gambuli scrisse a Forini una lettera di grande affetto politico e umano. Lettera che non evitò la rottura. Comunque il dialogo iniziò e proseguì sempre nei tumultuosi anni della contestazione studentesca senza settarismi eccessivi da parte di nessuno. L’invenzione del “Circolo Carlo Marx” fu un tentativo fallito nel tempo di continuare un rapporto tra PCI e giovani dei movimenti. Che c’entra Ingrao in tutto questo? Molto. La categoria dell’ingraismo (definizione che non amo) ha nel suo DNA l’ascolto delle idee degli altri e il confronto continuo con chi la pensa diversamente. Infatti, l’assillo di Ingrao è stato sempre quello di come costruire una democrazia di massa capace di riformare lo Stato anche attraverso una partecipazione organizzata dai partiti e dalle forze vive della società. Il filo rosso dei suoi scritti e discorsi è proprio questo: di fronte a un capitalismo che può e vuole fare a meno della democrazia, come innovare la struttura pubblica rendendola più democratica e trasparente? Nel suo lavoro prima di presidente della Camera e poi come in quello del CRS (centro riforma dello stato) il suo impegno si è incentrato su come valorizzare le assemblee elettive nella gestione del potere. Alla luce di quello che è successo, si può definire Ingrao come un profeta disarmato che ha fallito il suo obbiettivo? Forse sì, ma rimane il fatto che la questione democratica è ancor più oggi la questione non detta e quindi non affrontata da molti anni dalla sinistra. Non sarà uno dei motivi di crisi della sinistra in Italia e nel mondo?
La crisi della democrazia è negata dal PD che anzi lavora alacremente da anni per lo smantellamento della repubblica parlamentare e della Costituzione. Lo sta facendo con la complicità di tanti e nell’indifferenza di intellettuali e forze sociali come se la questione riguardasse il ceto politico e non la qualità della cittadinanza. Il progetto della loggia P2 di Gelli finalmente viene passo a passo realizzato.
L’Umbria in molte circostanze è stata protagonista di valenza nazionale nell’esercizio del potere democratico. Lo è stata negli anni ’60 con la ricerca e elaborazione della programmazione economico-sociale; con la chiusura dell’ospedale psichiatrico; con l’elaborazione e la pratica della medicina del lavoro. Negli anni ’70 nella difficile fondazione degli istituti regionale la nostra regione (la chiamammo “regione aperta”) seppe essere esempio con una legislazione sulla partecipazione democratica; sulla gestione del territorio e su altre ancora che la resero protagonista del processo di fondazione dello Stato decentrato. Viene da sorridere osservare con freddezza la faida e la violenza verbale di cui sono protagonisti i candidati al seggio di consigliere. Forese non sanno di essere candidati al nulla. I consigli regionali sono gusci vuoti senza potere in cui le funzioni principali sono diventate quella dell’interpellanza e degli ordini del giorno. L’elezione diretta del presidente ha reso superfluo sia il consigliere che l’assessore. Anche per questa centralizzazione dei poteri che l’ente regione sia tra i meno apprezzati dai cittadini in tutto il Paese. Un solo uomo al comando è stato affascinante con Fausto Coppi, adesso è un disastro della democrazia.
Francesco Mandarini
Micropolis 28 Aprile 2015