Pietro Laffranco, consigliere di Alleanza Nazionale, ha
interrogato la presidente Lorenzetti per sapere se anche la
Regione dell’Umbria ricorrerà alla Corte Costituzionale contro il
famoso Decreto Bersani dopo che lo ha fatto, la Regione Toscana.
L’interrogazione non è di poco conto e pone questioni molto
importanti. Sbaglierebbe la presidente a sottovalutare la
questione che è sottesa all’iniziativa di Laffranco.
Il rapporto tra governo centrale e quello locale non ha trovato
mai un equilibrio in nessuna fase della storia repubblicana
italiana. Ad esempio, sembrerà incredibile ma il periodo peggiore
per l’esperienza regionale degli anni settanta è stato quello dei
governi di solidarietà nazionale.
In quella fase il centralismo era così scontato da non sollevare
alcuna forma di seria rimostranza da parte delle regioni qualunque
fosse il loro colore politico. Il fallimento dell’esperienza dopo
pochi anni dall’istituzione delle regioni è stato frutto del
ministerialismo che permeava i partiti di allora. PCI,DC,PSI e
altri preferirono valorizzare i poteri del governo centrale contro
le giunte regionali. Dopo quasi trenta anni, di quell’impostazione
disastrosa paghiamo ancora oggi il prezzo,.
Le regioni, anche quelle più efficienti, sono essenzialmente enti
di spesa le cui entrate sono in massima parte decise dalle
finanziarie annuali nazionali. Le regioni sono strutture in cui
gli apparati politici e burocratici sono costosi, elefantiaci,
squilibrati e sempre meno capaci di realizzare progetti
innovativi. Scomparso ogni tentativo di programmazione (parola
ormai fuori moda), con un movimento legislativo risibile i
consigli regionali vivono di interpellanze e mozioni e
l’amministrazione è di fatto esercitata da manager e burocrati.
Le giunte regionali, grazie al presidenzialismo, sono al massimo
la “squadra” del presidente tuttofare: nessuna autonomia politica,
nessun potere amministrativo.
L’assalto alla Costituzione non è stata prerogativa del
centrodestra. Se c’è stato un “miracolo politico” questo è stata
la vittoria del No al referendum costituzionale. Un miracolo
perchè quello che hanno in testa i riformisti dell’Ulivo in
materia istituzionale non è molto dissimile da quello che voleva
Berlusconi. Esagero? L’ottimo sindaco Veltroni ha annunciato la
sua disponibilità ad essere candidato a premier nel 2011 soltanto
se vi saranno riforme istituzionali che consentano l’elezione
diretta del capo del governo. Torna con forza l’idea del “sindaco
d’Italia” di rutelliana memoria. Berlusconi non chiedeva
l’elezione diretta, al cavaliere bastava annichilire parlamento e
magistratura. Avrò capito male, ma il No al referendum era anche
un No secco ad ogni forma di cesarismo, ma forse mi sbaglio e la
gente ha votato in quel modo perchè vuole un Cesare ulivista.
Certo è che soltanto in Israele il capo dell’esecutivo viene
eletto direttamente e, in quel travagliato Paese, la stabilità del
governo non è certo esemplare.
Come è possibile che dopo che, nonostante il disimpegno nello
scontro referendario dell’Unione, la maggioranza dei cittadini
abbia confermato che l’Italia deve rimanere una repubblica
parlamentare, si voglia costruire una repubblica presidenziale?
Misteri del riformismo italiano.
Di ben altro dovrebbero occuparsi i dirigenti dell’Ulivo. La
finanziaria preannunciata da Padoa Schioppa rischia di non essere
avvertita dalla gente comune come dissimile da quelle del creativo
Tremonti. Tagli alla sanità , alle pensioni e via, via
ridimensionando l’intervento pubblico per il Welfare.
Bruxelles vuole questo, ci dicono. Si potrebbe rispondere che sia
la Francia che la Germania hanno risposto picche alle imposizioni
dei vari Almunia e che era possibile una trattativa per un rientro
meno violento dentro i parametri di bilancio europei. La divisione
tra i “rigoristi” e “spalmisti” rischia di far ballare una sola
estate il governo Prodi. Che i problemi siano complessi è ovvio.
L’economia italiana rimane in stallo e tutti i parametri di fondo
rimangono precari. Basta guardare al rapporto importazioniesportazioni,
alla fragilità delle nostre infrastrutture e alla
frammentazione delle nostre imprese.
Meno ovvio è l’assoluta incapacità del governo di centrosinistra
di dare almeno la sensazione di voler sfuggire alla pura logica
dei tagli. Se è vero, come è vero, che negli ultimi venti anni i
redditi da lavoro e da pensione si sono ridotti in maniera
drammatica rispetto all’incidenza sul PIL, bisognerà che la
politica economica del governo dell’Unione cerchi di invertire
questa tendenza. L’emergenza pensioni dovrebbe essere letta
partendo dal fatto che milioni e milioni di pensionati hanno
redditi da fame. Non è quindi in quel settore che si deve
tagliare.
Di sprechi e inefficienze è piena la struttura pubblica sia a
livello centrale che nelle amministrazioni locali. Non è un caso
che nella nostra regione si sia aperto da tempo un dibattito volto
a trovare la soluzione ad enti e strutture pubbliche che non hanno
più una ragione di esistere e che costano molto. La riforma endo
regionale può essere un’occasione di riqualificazione della spesa
pubblica. Nel comparto sanità è possibile trovare le risorse
attraverso una lotta rigorosa agli sprechi e alle inefficienze.
Una maggiore sobrietà aiuterebbe anche il bilancio regionale.
Ci sarebbe bisogno di più coraggio e inventiva. Ma come insegna
Alessandro Manzoni il coraggio non si acquista al supermercato e
l’inventiva non è merce comune.
Corriere dell’Umbria 3 settembre 2006