Il sistema politico-istituzionale del nostro Paese è semplicemente disastroso. Per ogni ente vige un sistema elettorale diverso. Senza alcuna coerenza, senza un criterio comprensibile ai comuni mortali. Ogni regione può scegliere il suo sistema elettorale, per il comune vige un sistema diverso da quello per le province. I parlamentari europei sono stati eletti in modo differente da quelli della Camera e del Senato italiani. Sbarramenti, premi di maggioranza, proporzionale puro o corretto, simil maggioritario. Di tutto e di più. Elezione diretta di sindaci e presidenti, liste bloccate, preferenze singole o multiple secondo la struttura da rieleggere. Non esiste Paese al mondo con tante varietà  di norme elettorali come da noi. Una confusione frutto di almeno quindici anni d’improvvisazioni delle diverse classi politiche al potere unite nell’aggiungere alla vecchia struttura pubblica nuovi meccanismi di funzionamento. In realtà  si tratta sostanzialmente dello stesso ceto politico con l’innesto decisivo, nel 1994 di Berlusconi e dei suoi dipendenti Fininvest. La novità  più rilevante negli anni è stata la formazione di partiti personali completamente dipendenti dal nome del Leader. Chiamare partiti quello che abbiamo sotto gli occhi sembrerebbe un’esagerazione. Un partito dovrebbe rappresentare pezzi di società  civile e funzionare secondo statuti che ne organizzano il funzionamento e selezionandone la classe dirigente attraverso meccanismi trasparenti e democratici, contribuire al funzionamento dello Stato. In realtà  quello che oggi si può dire è che i partiti in campo sono tutti pezzi dello Stato e, i suoi eletti, sono funzionari, in genere ben pagati, della struttura pubblica. La politica è anche qualcosa di diverso da una delibera di giunta. I partiti produttori di dipendenti pubblici non sono esattamente quelli che prevede la nostra Costituzione. La leggendaria stagione delle “Leggi Bassanini” dei primi anni “˜90 sarà  ricordata per il grado di leggiadra creatività  nella riforma della pubblica amministrazione e particolarmente per quella degli Enti Locali. Una grande riforma che introdusse il concetto di managerialità  assegnando ai vertici burocratici degli enti tutto il potere amministrativo. Con l’elezione diretta del sindaco si rese marginale sia il ruolo delle giunte sia quello delle assemblee elettive. Sono stati anche gli anni in cui si eliminarono tutte le incompatibilità  previste nelle elezioni di tutti gli enti. Ad esempio un dipendente regionale non poteva essere eletto in consiglio regionale. Ricordo che d”˜incompatibilità  ce ne erano moltissime e molto vincolanti. Tutte abolite. Nella prima repubblica in genere l’incarico politico escludeva l’impegno amministrativo. La selezione della classe dirigente non avveniva soltanto attraverso l’incarico pubblico, ma attraverso criteri che cercavano “talenti” nella realtà  dei luoghi di lavoro, nel mondo della cultura e delle professioni, cercando di intercettare il meglio che la società  civile esprimeva. Oggi l’unico criterio premiante è quello della candidatura in qualche ente locale o nazionale. Inesistente ormai ogni processo di formazione politica esterna alla struttura pubblica, chi vuole svolgere un ruolo politico non può che mettersi in corsa per qualche candidatura. In base a cosa si sceglie pinco invece di pallino? Le ultime elezioni hanno confermato un processo degenerativo della politica. La lotta per entrare in lista prima e per la conquista della preferenza poi non ha aiutato a rendere la politica più credibile agli occhi del popolo. In genere oggi conta molto il territorio e il peso elettorale della zona e specialmente se si tratta di conquistare preferenze è decisivo il peso specifico della zona. Ad esempio, essere candidato per l’Alta Valle del Tevere è per un uomo o una donna del centrosinistra, una sicurezza come per un candidato del centrodestra essere in lista ad Assisi o a Norcia. Se l’unico criterio è il territorio, la classe dirigente di un partito non può che essere un agglomerato d’interessi territoriali. Ciò può rendere difficile una lettura unitaria dei problemi di una regione o di un Paese. Responsabilità  primaria dei gruppi dirigente dei riformisti o della sinistra-sinistra è stata quella di sottovalutare il processo di formazione di una classe dirigente politica adeguata ai tempi che viviamo. Non si va da nessuna parte senza rovesciare la tendenza di questi anni. Non si tratta del richiamo all’esigenza, che pur esiste, di un processo di rinnovamento. Si tratta piuttosto di introdurre criteri diversi da quelli vigenti che sostanzialmente esauriscono l’attività  politica all’interno della struttura pubblica. Anche una buona amministrazione basta a recuperare un rapporto positivo con i molti che subiscono una crisi non solo economica, ma di prospettive realistiche per i propri figli e per le proprie famiglie. L’esangue democrazia italiana ha bisogno di una politica diversa da quella in campo e senza nostalgie, bisognerà  pur capire che il sistema politico attuale deve essere riformato alla radice. Per farlo bisogna evitare di ripetere gli errori già  compiuti nel recente passato. Il sistema vigente è figlio di molti padri, di destra, di centro e di sinistra. Certamente un contributo essenziale è stato quello del referendum elettorale del 1992 promosso dall’eroico Segni e appoggiato, con decisione improvvisa, da Achille Occhetto. Un referendum contro la partitocrazia si disse allora. Il referendum fu vinto. Alla partitocrazia si è sostituita questa palude fatta di plebisciti e di populismo. Caratteristiche di un sistema che non è ascrivibile soltanto al Cavaliere di Arcore. Le deliziose dichiarazioni di soddisfazione per le preferenze incassate da qualche candidato o da qualche sindaco dimostrano che se Berlusconi ha qualche difficoltà , il berlusconismo è ben vivo e permea in profondità  la società  politica italiana.

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