Finalmente Berlusconi è entusiasta di una valutazione sull’Italia che viene dall’estero dopo anni di cattive notizie sullo stato del bel paese. Dopo editoriali e scritti che descrivevano il disagio della democrazia italiana e la pochezza delle sue classi dirigenti, da Parigi è arrivata la novità  che ha reso felice il premier.
L’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) ha valutato che l’Italia, assieme a Gran Bretagna, Francia e Cina ha segnato a settembre forti segnali di ripresa economica. Il super indice utilizzato dimostra che questi Paesi hanno segnato indici positivi dopo mesi pessimi degli indicatori economici. Il peggio è alle nostre spalle ha gridato il Capo e addirittura, ha sostenuto, abbiamo superato la Gran Bretagna nella classifica dei Paesi più ricchi del pianeta. Felice come quando il Milan ha battuto il Real Madrid, Berlusconi è apparso incontenibile.
E’ pur vero che la stessa organizzazione invita alla cautela: si tratta di una ripresa che ha una sua fragilità  e non assicura affatto un futuro di crescita sostenuta. Tanto è vero questo che le stime ci dicono che per raggiungere il prodotto interno del 2007, l’Italia dovrà  aspettare, se tutto va bene, il 2013. Quisquilie, l’importante è che per una volta non siamo, come solito, in fondo alle classifiche europee per quasi tutti gli indicatori di benessere sociale. Qualche dubbio dovrebbe venire a tutti quando le borse tornano a salire e, contemporaneamente, aumenta il numero di disoccupati in tutto l’occidente. Negli Stati Uniti in un mese si sono persi 190 mila posti di lavoro e Obama non sembra così euforico come lo sono i nostri governanti. Il rischio di un’altra bolla finanziaria speculativa rimane dietro l’angolo. Se non riparte l’economia reale, se il potere d’acquisto delle famiglie continua a decrescere, gli speculatori della finanza proseguiranno ad assegnarsi bonus miliardari, ma le occasioni per far lavorare i giovani non aumenteranno. Assieme ai nuovi disoccupati continueremo ad avere un’emigrazione intellettuale di giovani e di donne e un impoverimento strutturale della nostra economia.
La fiducia sulle possibilità  di uscire dalla crisi provocata dall’ideologia liberista è cosa giusta e fa bene Berlusconi a segnalare i dati incoraggianti, dovrebbe però aggiungere qualcosa rispetto alle prospettive di medio periodo. Un discorso di verità  deve essere fatto. Se si vuole invertire la tendenza al degrado è necessario individuare con esattezza i punti di arretratezza di un Paese che accanto a punti di eccellenza ha gravi anomalie.
Un discorso che non riguarda soltanto il governo centrale.
Anche in Umbria è necessario che le classi dirigenti dicano come stanno le cose e quali prospettive ha la nostra terra.
Il partito democratico ha svolto un lungo congresso utilizzando il meccanismo delle primarie per la scelta del ceto dirigente. Al di là  di ogni valutazione rispetto ai meccanismi scelti, è indubbio che quando 70 mila umbri vadano a votare per scegliere uomini e donne da impegnare nella vita politica, si ottiene un risultato democraticamente rilevante e si dimostra una vitalità  che tanti non riconoscevano a questo partito mai nato. E’ stata una buona cosa per la democrazia e per il centrosinistra. Senza il risveglio del popolo che si riconosce nel PD, difficilmente si può sperare in qualcosa di positivo nel rapporto tra la politica e la gente comune. In Umbria nessun candidato ha raggiunto il quorum per essere eletto. Sarà  l’assemblea regionale del 14 novembre a scegliere chi guiderà  il PD per i prossimi anni. Le cose sono complicate e non sarà  semplice trovare una soluzione che tenga insieme forze che esprimono quelle che Stramaccioni ha definito due linee alternative. Come previsto la campagna elettorale “interna” ha lasciato morti e feriti. E’ un eufemismo dire che i rapporti nei gruppi dirigenti non sono al massimo. Si sono stratificate tensioni che durano da anni e che si sono accentuate in questi mesi di lotte intestine. Amicizie pluriennali interrotte, vendette promesse.
In questo va sottolineata una responsabilità  collettiva di un ceto politico che ha, per molti anni, guardato al proprio ombelico senza mai porsi il problema di regole trasparenti per costruire una linea comune che consentisse processi di rinnovamento senza i quali nessun organismo sopravvive nel tempo. Con la scomparsa dei partiti di massa si è dissolta anche l’attività  politica autonoma dalle istituzioni. Uno si sente dirigente politico esclusivamente se è eletto o nominato in un ente. Se diventi segretario di una struttura di base questo è il viatico per andare a occupare nel prossimo futuro quell’incarico pubblico. Da anni è stata questa l’aspettativa delle forze in campo giovani o no che fossero.
Non si vive per la politica ma di politica. E’ stato questo l’orizzonte imposto da un ceto politico incapace di guardare al di là  dei propri interessi. Difficile dire se si ha coscienza dei danni che questo processo di schiacciamento sulle istituzioni ha comportato. Oggi i partiti hanno perduto qualsiasi capacità  di autonoma elaborazione e il rapporto con i cittadini avviene sempre attraverso il fatto amministrativo. I partiti attuali sono organizzazioni che non sono quelle disegnate dalla Costituzione all’articolo 49. Non concorrono con metodo democratico a determinare la politica nazionale, occupano lo Stato ed altro.
Nel momento di maggior debolezza della politica è la politica che interferisce continuamente con la vita dei cittadini. Sono tutti diretti da una sorta di funzionari dello Stato che esauriscono il loro lavoro politico nel movimento deliberativo di una giunta o di un consiglio. La sfida per il PD, e non solo, è quella di ridare alla politica un ruolo diverso. Prima di tutto formando gruppi dirigenti che si costruiscono attraverso un paziente percorso di formazione nell’attività  di ascolto delle concrete realtà  che il popolo vive.
Il processo di rinnovamento dovrebbe nascere da un’ambizione. Quella di produrre una specie di rivoluzione copernicana che induca la passione politica a progettare un futuro diverso invece che galleggiare in un esistente non proprio entusiasmante.

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