Alla fine del prossimo marzo si svolgeranno le elezioni per il rinnovo di molti consigli regionali.  La scadenza ha assunto un valore politico che va al di là  dell’oggetto della competizione che è, appunto, quello di elezioni parziali che riguardano enti diversi dal parlamento.
Sia il centrodestra che il centrosinistra sono alla ricerca di candidati forti per la presidenza delle diverse regioni.  Non si discute affatto dei programmi da sottoporre agli elettori, ciò che appassiona è la ripartizione del potere all’interno degli schieramenti, tra le diverse forze politiche e non da ultimo, di quale equilibrio realizzare all’interno dei singoli partiti.
Per tradurre, il Partito della Libertà  ha al suo interno diverse “anime”, tutte rivendicano visibilità  e la Lega di Bossi pretende ciò che gli spetta in numero di presidenti della padania libera mettendo, così, in ambasce Berlusconi. Come è noto, il Capo è in ben altri problemi affaccendato. Avrebbe bisogno di tranquillità  e non delle beghe causate della spartizione del potere locale tra Bossi, Galan o Formigoni.
Il PD è ancora in costruzione, ha anche esso al suo interno sensibilità  diverse che non possono non essere considerate nell’indicare i candidati alle leadership delle regioni.
E’ pur vero che con il lungo congresso il PD ha rimescolato le carte, i franceschiniani non sono tutti ex Margherita e Bersani non organizza tutti gli ex diessini. Ma ancora l’amalgama non sembra concluso e la scadenza elettorale non aiuta a trovare la quadratura del cerchio. Ciò che resta della sinistra non riesce a darsi, non dico un contenitore unico, ma nemmeno a trovare una linea comune. Si contratta qualche posto nei listini, si invoca la promessa di qualche assessore. Il pallino è ben saldo nelle mani del PD. Anche l’ultimo tentativo, in ordine di tempo, di Sinistra e Libertà  implode con l’uscita della componente dei Verdi e proprio ieri di quella socialista. L’esperienza di governo di Vendola in Puglia corre il rischio di esaurirsi sotto le macerie di  quello che a dicembre doveva divenire un nuovo partito della sinistra italiana.
Essendo poi la politica diventata un mestiere, la carriera del singolo assume rilievo e condiziona molto la discussione interna alle coalizioni e ai partiti. Una discussione che è confinata nel mondo a parte del ceto politico. Non può affascinare il popolo. Ormai tramortita da una politica invadente quanto inconcludente, la democrazia italiana non sembra più in grado di reagire.
Studiosi italiani e non solo guardano con allarme lo stato delle istituzioni repubblicane. L’equilibrio tra i poteri è sottoposto ogni giorno a invasioni di campo che hanno trasfigurato la democrazia italiana. La nostra è una repubblica parlamentare che si va trasformando in una repubblica presidenziale alla sudamericana anni ’50 nell’indifferenza di molti. Sostenere ad esempio che gli italiani hanno eletto capo del governo Berlusconi è una mistificazione. Gli italiani hanno votato dei partiti i quali hanno scelto chi nominare in parlamento. Il capo dello stato ha indicato Berlusconi come premier, il parlamento ha votato la fiducia al governo Berlusconi. Il potere di eleggere il capo dell’esecutivo è anche oggi formalmente nelle  mani del parlamento e non direttamente in quelle della volontà  popolare. D’altra parte nelle democrazie occidentali soltanto Israele elegge il primo ministro e lo fa sulla base della sua Costituzione. La nostra non lo prevede, con buona pace del ciarliero Senatore Gasparri.
Con qualche ragione si dirà  che nella stagione della cultura berlusconiana il senso comune intende Berlusconi come il Capo, espressione della volontà  popolare e quindi autorizzato a confliggere con quei poteri non democraticamente eletti dal popolo. Ma questo comune sentire ha poco a che fare con la democrazia liberal-democratica. E’ questo il risultato dell’egemonia esercitata da una destra illiberale unica in Europa, quella italiana, e delle balordaggini istituzionali del centrosinistra. Aver imposto l’elezione diretta dei sindaci poteva avere un senso, aver modificato la Costituzione per eleggere direttamente il presidente di regione invece ha aperto la strada alla volontà  plebiscitaria di Berlusconi. Anche una parte del popolo non berlusconiano può essere affascinato dall’elezione del Sindaco d’Italia. Se poi questo sarà  Berlusconi anche formalmente, ogni lamentazione sarà  fuori luogo.
E c’è poco da meravigliarsi se anche in Umbria la discussione politica è tutta condizionata dagli organigrammi degli enti pubblici. Tutti parlano della gravità  della crisi, non passa giorno che un presidio produttivo non entri in difficoltà , ma non c’è luogo in cui la politica affronta nel concreto i nodi strutturali della nostra terra. Innovare o conservare è un falso problema se non si ha la consapevolezza della realtà  e non se ne conoscono le debolezze e le potenzialità . Che niente sarà  più come prima della crisi economica esplosa nel 2008 anche in Umbria è cosa certa, il problema è come costruire qualcosa di diverso dal conosciuto e dal già  fatto. Il ruolo dell’intervento pubblico non può che modificarsi sia per la crisi della finanza pubblica, sia per le mutate aspettative delle forze produttive. Un solo esempio. Il governo centrale ha tagliato in finanziaria gli stanziamenti per la realizzazione della banda larga. Dell’infrastruttura necessaria a velocizzare la trasmissione dei dati senza la quale difficile immaginare una comunità  capace di competere in un mondo reso più piccolo proprio dalla velocità  resa possibile dalle nuove fibre ottiche. Il governo commette un errore, ma qui in Umbria che si fa? Si protesta contro il taglio o si mettono in campo provvedimenti e idee per procedere nell’informatizzazione della pubblica amministrazione? Si creerebbe quel mercato senza il quale le imprese innovative non possono crescere. E’ noto che la maggior parte del prodotto interno regionale è dovuta al settore pubblico. Se il pubblico non investe in innovazione come si salvaguardano e si fanno crescere le punte di eccellenza?

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