Perchè meravigliarsi? I giovani che domenica scorsa, alla manifestazione del PD, hanno provato disagio sentendosi chiamare compagni, riflettono benissimo la natura del partito democratico. Una formazione politica che, ad anni dalla sua nascita, non sa che pesce sia nè quali possono essere le sue radici culturali e storiche. E’ abbastanza risibile che con una situazione grave quale quella che vive il Paese, il partito di opposizione con maggior forza elettorale, affronti una discussione anche sul modo di chiamare i propri iscritti. Non meraviglia che Letta o Fioroni rimpiangano il combattivo appellativo di amico, ma per coloro che assegnavano le loro speranze al riformismo per risolvere i problemi della nostra repubblica, la discussione appare quanto meno bizzarra. Anche questa stravagante tenzone ci conferma che la catastrofe italiana è sì il berlusconismo, ma anche la pochezza delle forze che si oppongono al Cavaliere rampante ad iniziare dal partito delle primarie.
Non siamo mai stati tra gli entusiasti del nuovo partito riformista, ma dobbiamo ammettere che c’è stato in noi un eccesso di ottimismo. Ciò che abbiamo di fronte è un agglomerato di notabilato politico incapace di stare insieme sulla base di un progetto condiviso ed incapace di mobilitare le forze necessarie ad impedire la deriva che le classi dirigenti stanno imprimendo al Paese. Bersani dichiara che il PD è il partito della Costituzione. Bene, bravo. Il problema è che gli sbreghi alla carta costituzionale sono il filo rosso che da tempo sta uccidendo, nel silenzio o con il consenso di parti consistenti del Paese, la democrazia italiana. Prima ne prendiamo atto, meglio sarà . La democrazia che abbiamo conosciuto nei decenni passati non esiste più. Oggi l’Italia è sgovernata a prescindere dal suo atto fondativo e non per la sola responsabilità  della destra. L’assillo delle modifiche costituzionali dura da trent’anni e ha avuto come primi attori anche uomini e donne del centrosinistra. La legge elettorale che ha prodotto un parlamento di “impiegati” dei partiti, è la fotocopia delle leggi con cui vengono eletti molti consigli regionali anche nelle regioni rosè. Tra premi di maggioranza e listini di porcellini ne sono stati prodotti parecchi anche con il benestare di una parte della sinistra radicale.
Non passa settimana che non vi sia un atto, una dichiarazione, un evento che vada in conflitto con quanto scritto dai costituenti eppure soltanto la CGIL manifesta in difesa della Carta.
Un ultimo esempio di ciò che vogliamo sottolineare? Il referendum dei lavoratori di Pomigliano pone al voto un diritto inalienabile e indisponibile. Il diritto di sciopero previsto dall’articolo 40 della Costituzione. Nel partito democratico, le voci critiche verso la Fiat sono state rare come i goal della nazionale di Lippi. Ciò che ha prevalso è un balbettio confuso, quando non hanno primeggiato gli hurrà  dei tifosi di Bonanni e di Sacconi, quelli degli innamorati del maglioncino di Marchionne, o dei Fiat dipendenti alla Fassino.
Come scrive Valentino Parlato, è meglio perdere combattendo che arrendersi alle preponderanti forze del nemico. Una battaglia si può perdere, ciò che non è ammissibile è presentare una sconfitta come un evento naturale dovuto alle sacre leggi di mercato.
A Pomigliano tutto era contro i lavoratori. Pochissimi hanno segnalato il rischio che l’introduzione del modo di produzione asiatico voluto dalla Fiat può mettere a rischio la stessa tenuta sociale del Paese. Lo scontro è stato durissimo, ma un partito che si proclama il partito della Costituzione non può non denunciare la gravità  dell’attacco ad un diritto come quello allo sciopero. Al di là  del merito della ristrutturazione produttiva prevista dal lodo Marchionne, tra l’altro accettata anche dalla Fiom, il Pd non poteva sottovalutare la destrutturazione del contratto nazionale e il colpo alla Costituzione inferto dall’accordo. L’euforia del riformista Sacconi non era un segnale da sottovalutare.
Tempi difficili quelli che si prospettano. In Umbria a torto o a ragione, è stato un vanto delle classi dirigenti amministrative il livello dei servizi al cittadino. Noi non siamo tra quelli che hanno sottovalutato i risultati della buona amministrazione quando questa è stata visibile. Siamo abbastanza certi che il livello raggiunto dalla spesa pubblica nella nostra regione sia robustamente al di sopra della media nazionale anche per motivi giusti. Non siamo tra quelli che ritengono un toccasana la privatizzazione dei servizi a prescindere dalla gestione dei beni comuni. Non ci guida l’ideologia, ma la concreta verifica dei risultati ottenuti anche in Umbria dalla vendita del patrimonio pubblico o dalle privatizzazioni già  realizzate. Abbiamo tuttavia la certezza che la questione della riconversione della spesa pubblica sia obbligatoria e non solo per i tagli del governo centrale.
L’arte del galleggiamento, in cui in questi anni sono stati maestri insigni molti protagonisti del ceto politico, non sarà  sufficiente a superare i marosi di una crisi che già  incide nei destini di tanta parte delle nuove generazioni. Una svolta sarà  necessaria se si vuole mantenere al centrosinistra l’amministrazione di così tanta parte della cosa pubblica. E’ richiesta una grande capacità  di innovazione nella gestione, ma anche una rinnovata capacità  di rapportarsi alle forze produttive e culturali regionali. Non sono un’enormità , ma ci sono.
La difficoltà  profonda nasce dal fatto che la politica si è consolidata come un mondo a parte che non riesce a mettere a leva i mondi esterni al ceto politico. E’ questo un problema che si è aggravato con il berlusconismo, ma anche per il populismo di troppi leader del centrosinistra. In ripetute stagioni l’Umbria è stata capace nelle fasi di difficoltà , di ricercare strade nuove cercando la collaborazione di intelligenze e culture esterne agli addetti ai lavori della politica. E’ forse illusorio augurarsi che anche in questi tempi difficili le classi dirigenti umbre la smettano di considerare solo il proprio ombelico è ricomincino a guardare alla materialità  delle cose? Come più volte detto, la speranza è l’ultima a morire. Galleggiare nell’esistente o nel già  fatto, diventa sempre più difficile.

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