Quarant’anni da quel 20 luglio del 1970 quando si riunirono i trenta consiglieri regionali che avrebbero iniziato la costruzione dell’istituto regionale, sono una ricorrenza che sollecita qualche riflessione politica. Saranno gli storici, con maggior dottrina, a precisare il significato e il ruolo che l’ente regione ha avuto nella crescita della nostra comunità ma la storia è anche costruita attraverso le esperienze delle persone. Ecco la mia. Quel 20 luglio ero tra quei trenta eletti all’assemblea regionale e, come consigliere giovane, fui segretario nella prima seduta.
Ho nitido il ricordo di una Sala dei Notari gremita di popolo e di una classe dirigente che esprimeva collettivamente una forte tensione civile. Colma di grandi speranze la Sala dei Notari esprimeva una composta allegria. Non c’era alcun burocratismo. Piuttosto si svolse una sorta di rito liberatorio pieno di fiducia. La cerimonia aveva come protagonisti coloro che già rappresentavano i legittimi interessi di forze sociali e dell’Umbria delle cento città , i rappresentanti del governo centrale e i sindaci delle città . I sindaci. A quei tempi non erano eletti direttamente ma furono capaci, negli anni delle grandi emigrazioni degli umbri nel mondo, a organizzare una lunga lotta di resistenza al degrado delle città svuotate dalle forze migliori. Chi ha una certa età ricorda con angoscia la povertà di tante città umbre fino agli anni sessanta. Oggi Spoleto, Gubbio o i comuni del Trasimeno sono gioielli di straordinaria bellezza. E’ l’intera Umbria che viene vissuta dai visitatori come terra di civiltà , nonostante che sbreghi e brutture non manchino. Il vivere in Umbria può essere attraente. Questo processo di emancipazione dalla miseria non è stato un regalo della provvidenza. Decisivo è stato il lavoro dei sindaci di quegli anni. Espressione diretta del mondo contadino, delle fabbriche, delle professioni o dell’intellettualità , i sindaci furono veri capi popolo capaci di organizzare nella sobrietà e nel rigore le forze per costruire un nuovo sviluppo. La coreografia della Sala Notari era semplice: non esprimeva altro che la soddisfazione per il raggiungimento di un obbiettivo voluto dal popolo. Negli anni cinquanta e sessanta, in Umbria più che da altre parti, tra gli slogan delle grandi manifestazioni popolari, ce ne era uno che rivendicava l’istituzione della regione. Come esigenza di autogoverno come metodo di costruzione della società post bellica la regione era considerato il necessario strumento per superare l’indifferenza dei governi centrali verso una terra considerata marginale.
Le regioni furono istituite con venti anni di ritardo. Grazie alla straordinaria stagione riformatrice frutto delle lotte degli anni sessanta, alla fine la Costituzione fu applicata. Altro che il chiacchiericcio di questi anni sulle riforme istituzionali. L’elenco delle riforme prodotte negli anni sessanta sarebbe lunghissimo. Basta ricordare l’inizio della costruzione del welfare, la riforma sanitaria, lo statuto dei diritti dei lavoratori, il diritto ad una formazione scolastica di massa.
Una stagione riformatrice che i novelli riformisti dovrebbero studiare con attenzione per capire ciò che è necessario fare per portare fuori dal pantano l’Italia.
Nessuno dei partiti componenti la prima assemblea regionale sono presenti nell’attuale fase politica. O meglio sussistono alcune sigle che richiamano i vecchi partiti. Ma sono sigle che non esprimono significativi consensi elettorali e comunque sono altra cosa rispetto a quelli passati.
La cerimonia per l’anniversario dei quaranta anni di vita regionale si svolgerà alla Sala dei Notari martedì prossimo e sarà interessante ascoltare gli interventi. Tra i relatori è stato scelto, giustamente, Vinicio Baldelli. Sono molti anni che non ci vediamo eppure in me permane un sentimento di riconoscenza nei confronti di questo gentiluomo. Democristiano integerrimo era vice presidente della prima commissione, quella per il bilancio e gli affari istituzionali. Come assessore al bilancio dovevo relazionare e, spesso, entrare in discussione con Baldelli. In sincerità all’inizio del mio mandato non riuscivo sempre a reggere alle critiche della minoranza. Una questione di conoscenza dovuta all’impreparazione del sottoscritto, ma anche a difficoltà oggettive del quadro finanziario dell’ente regione. Sarebbe stato nelle cose che l’opposizione approfittasse dei limiti di un giovane in formazione. Non fu così. Prevalse in Baldelli l’interesse generale. Così, con cautela e tranquillità , il democristiano cercò di insegnare al giovane assessore comunista i meccanismi del bilancio. Ciò che contava per Baldelli era la qualità dell’istituzione. L’interesse non fu quello di mettere in difficoltà l’assessore, ma quello di contribuire a far funzionare meglio l’ente regione. L’assessore doveva conoscere nell’interesse di tutti come gestire un bilancio pubblico. Sembra una favoletta eppure in quei tempi di aspre tensioni tra i partiti, il dovere che i dirigenti di partito insegnavano a tutti coloro che gestivano la cosa pubblica era quello di guardare all’interesse generale e non al tornaconto di parte.
A guardare al pantano della politica attuale un battito d’ali di nostalgia è legittimo, ma lo superiamo subito augurando ai nuovi consiglieri ogni successo nel costruire la regione federale. Qualche dubbio al riguardo è legittimo considerando la storia del regionalismo. L’istituzione delle regioni fu una riforma mancata. Una delle tante, ma la più grave nelle sue conseguenze. Si mancò l’occasione del mutamento radicale nel funzionamento dello Stato e presto il morto si riprese il vivo, il centralismo tornò a trionfare e le regioni si trasformarono (non tutte in verità ) in enti burocratici piuttosto che in strumenti di partecipazione e d’innovazione democratica. Difficile pensare che il federalismo immaginato dai leghisti possa costituire una speranza di riforma democratica dello Stato. L’ideologia dell’egoismo proprietario o di area geografica, non sono viatici seducenti per coloro che amano la democrazia organizzata. Possono provocare catastrofi.