Una comica di Charlot? Uno spettacolino alla Ridolini? No. Quanto si è visto e udito nel Parlamento della Repubblica in questa settimana somiglia più agli scalcinati avanspettacoli che transumavano nella provincia italiana negli anni cinquanta. Mancava il capo comico, impegnato a Lampedusa, ma la gag dei ministri che correvano per arrivare in tempo a votare, con la Ministra Brambilla che ondeggiava incerta in tacchi alti o l’onorevole Scilipoti che cercava di battere il record di Mennea per confermare con il voto il suo disinteressato amore per il Capo, è stata la giusta cornice per la crisi di nervi  dei Ministri La Russa e Alfano. Purtroppo c’è poco da ridere. Cosa c’era in discussione alla Camera dei Deputati? La riforma epocale della giustizia propagandata dal Governo per settimane o forse provvedimenti tesi ad affrontare le emergenze della guerra in Libia? No. Si trattava d’invertire l’ordine del giorno dei lavori parlamentari per far approvare rapidamente l’ennesima legge salva Silvio. Soltanto dieci giorni fa, il gelido Alfano aveva solennemente giurato che la stagione delle leggi a persona era finita, ha cambiato idea. Per fortuna che Napolitano c’è. Il Presidente ha convocato i capigruppo per avvertire che se il Parlamento non funziona nell’interesse del Paese è meglio procedere allo scioglimento delle Camere. Essendo queste ormai ridotte a luoghi da sconsigliare ai minori di diciotto anni, è il caso di mandare a casa gli scadenti nominati in Parlamento non dal popolo, ma dalle oligarchie politiche.
Indignarsi è giusto, ma non basta.
A novantasei anni, Pietro Ingrao ha scritto un altro libro. Intanto, auguri al grande vecchio della sinistra italiana. Di cosa parla il libro? Riguarda appunto l’indignazione. Ingrao scrive: “l’indignazione è una molla senza la quale non c’è politica, ma che da sola non fa politica; è il sentimento primario per reagire all’ingiustizia e al sopruso, ma poi conseguire  con efficacia un risultato significa suscitare e orientare forze, costruire una relazione condivisa e attiva, la puoi chiamare movimento o partito o in altro modo. Io e altri insieme, per influire, fosse pure per un grammo, sulle vicende umane.”
Sono ormai anni che manifestazione dopo manifestazione emerge la rabbia di giovani, di donne, di lavoratori di tutti i settori. Ciò che emerge è l’assoluta mancanza di una strategia per organizzare e rendere permanente un’indignazione che pur riguardando la maggioranza del Paese, non riesce ad incidere nelle scelte della politica. Le stesse istituzioni democratiche sembrano impermeabili alle tensioni del Paese. Agiscono ormai come un mondo a parte che segue logiche e obbiettivi di autoconservazione di una casta interessata esclusivamente al mantenimento dei privilegi del potere. La crisi della politica sta tutta qui e ad oggi i tentativi di riprodurre aggregazioni in cui prevalgano gli interessi generali non hanno funzionato. Il problema non riguarda soltanto il centrosinistra. Il partito di Berlusconi è rimasto un partito personale che ha come obbiettivo esclusivo la salvaguardia degli interessi del Capo. Un Capo assoluto che non ha consentito l’affermarsi in Italia di una destra di qualità  europea. E’ questa una responsabilità  primaria di Berlusconi, ma stupisce la pochezza di intellettuali e quadri politici che pur avrebbero la qualità  per costruire un’idea di una destra politica coerente con il dettato Costituzionale, sono silenti come pesci in un acquario. Il tentativo di Fini, per imperizia e faciloneria, non ha resistito alla campagna acquisti del presidente dell’A.C. Milan e rischia di ballare una sola estate.
Oggi cominciano ad esplodere le contraddizioni del berlusconismo.
Quello che è stato propagandato come il governo del fare si dimostra un’amministrazione incapace di gestire i problemi del Paese. Un governicchio che galleggia senza altra meta che sopravvivere agli eventi. Un solo esempio. Che l’ondata dei migranti sia un problema europeo è evidente ed è giusto chiedere a tutti i Paesi comunitari di affrontarlo con intelligenza. Ma come è stato possibile arrivare ad una situazione come quella che si è creata a Lampedusa? Nell’isola da gennaio sono sbarcati circa ventimila migranti. In un mese di guerra libica in Tunisia sono arrivati circa centocinquantamila migranti dalla Libia. Questi sono i numeri. Possibile che un Paese come l’Italia non riesca a gestire civilmente l’emergenza? I traghetti proposti soltanto questa settimana non potevano essere inviati prima? E gli accordi con le Regioni non potevano essere intessuti prima da Maroni? E’ confermato, Berlusconi non porta fortuna al Paese. Aveva promesso che in sessanta ore avrebbe risolto il problema e invece si è alzata la marea e i poveri profughi sono ancora a Lampedusa. Gli abitanti dell’isola si possono consolare: il Capo è divenuto loro concittadino, ha promesso un paradiso fatto di un casinò, di meno tasse da pagare, di un campo di golf e via, via promettendo. Esattamente quello che è accaduto a l’Aquila. Basta rileggere le dichiarazioni di quei giorni terribili per gli aquilani.
Di fronte alla pochezza del Governo, ci sarebbe un’autostrada per un centrosinistra unito. Ma unito non lo è. L’emergenza democratica viene denunciata senza che si compiano scelte volte ad aggregare forze attorno ad un progetto di salvaguardia della democrazia italiana. Ognuno sembra interessato soltanto alla leadership. La sinistra continua nelle sue lacerazioni; il PD imperterrito prosegue nella sua ricerca d’identità  riformista. Ancora oggi, non è dato sapere di quale riformismo si tratti, in attesa del chiarimento, si consente alla Lega di incassare il federalismo regionale senza aver chiaro quello che ciò concretamente comporterà  per la vita dei cittadini e per l’unità  del Paese. Un federalismo all’italiana che per molti esperti potrebbe rappresentare l’occasione di maggior trasparenza dell’amministrazione pubblica, ma anche l’inizio della frantumazione secessionista, il vero obbiettivo del raffinato Bossi.

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