Se non da cartellino rosso almeno il giallo dell’ammonizione ci sta tutto nell’entrata in politica del professor Monti. Dismesse le vesti di tecnico super parte, il rettore della Bocconi di Milano ha infilato nell’ultima settimana una serie di cantonate che ne hanno annichilita la sua dota maggiore, la sobrietà. Rincorrendo il record di Berlusconi nel minutaggio delle presenze nei mass media, il dimissionario capo del governo ha spiegato al mondo che lui non è di sinistra, né di centro, né di destra. Lui è un “riformista estremo”. Senza riuscirci, letterati, filosofi e scienziati della politica si arrovellano per capire il significato profondo dell’auto definizione montiana. In Italia tutti si dichiarano riformisti. L’orrenda seconda repubblica è stata gestita da un ceto politico che tutto intero si dichiarava proteso a riformare la nazione. I risultati sono sotto gli occhi di tutti e tutti ne stiamo pagando le conseguenze. D’altra parte un Paese in cui l’amministrazione pubblica allargata è debitrice di almeno cento miliardi di Euro nei confronti dei fornitori di servizi, è un Paese che deve essere riformato. Il quesito è cosa riformare. Riformare significa colpire interessi e favorirne altri. Chi ha subito il riformismo dell’amministrazione Monti? Nei tredici mesi di governo dei tecnici le uniche riforme fatte sono state tutte volte a penalizzare i ceti produttivi e a rendere il welfare più leggero e costoso per i cittadini. Mario Monti è un europeista convinto e ne siamo lieti. Interessante sapere dal professore di cosa avrebbe bisogno l’Italia per adeguarsi ai Paesi più evoluti del nord europeo. Siamo in Europa in coda per i livelli salariali, in cima per il livello della tassazione, in allarme rosso per la corruzione e a rischio per la qualità della nostra democrazia. Parola questa, democrazia, che non sembra interessare più di tanto. Nelle venticinque pagine dell’agenda Monti non c’è alcuna valutazione sullo stato comatoso della nostra democrazia. Spontanea domanda all’europeista Monti: è immaginabile che negli stabilimenti della Renault francese o della Mercedes tedesca, sia proibito l’accesso al più grande sindacato francese o tedesco? Visitando lo stabilimento di Melfi assieme al dottor Marchionne, non si è accorto, Monti, che la Fiom non era presente per volontà della Fiat? Come si può immaginare il rilancio della Comunità Europea se i principi basilari dei trattati comunitari non sono rispettati in tutti i Paesi? E la questione dei diritti democratici è parte integrante di quanto deliberato più volte nel passato dal Parlamento Europeo. Forse il tecnico per propria scienza infusa, può fare a meno dei meccanismi democratici. Essi comprendono anche il confronto delle idee. E’ bizzarro che un gentlemen come Monti suggerisca imperiosamente a Bersani di tappare la bocca a Fassina, responsabile economico del Pd, e a Vendola, segretario di un partito e presidente di una regione. Accusare continuamente la CGIL di essere una forza conservatrice non è elegante, Professore. Il più rilevante sindacato italiano rappresenta milioni di lavoratori che hanno dimostrato grande senso di responsabilità in circostanze drammatiche. Evitando di trasformare la giusta protesta per le loro condizioni salariali in rivolta sociale rappresentano un baluardo democratico che Lei non dovrebbe trascurare. Lei si appresta a correre nella campagna elettorale assieme allo stagionato doroteo Casini e al sempre in campo Fini. Ambedue sono stati protagonisti per molti anni della stagione berlusconiana. Si sono pentiti, è vero, e da buon cattolico Lei lì ha perdonati, ma trasformarli in riformatori sembrerebbe eccessivo. Qualche dubbio dovrebbe averlo sulla convinzione che le politiche economiche volute dalle burocrazie europee siano quelle giuste. I risultati sono quelli che sono. E non sono eccellenti. Certo il differenziale con i Bond tedeschi si è ridotto e ciò costituisce un aiuto a contenere il costo del debito. Solo uno sciocco può sottovalutare la questione. Ed è anche noto che ciò è successo anche per i bond spagnoli e greci. Rimane intatta la questione di come riprendere la creazione di posti di lavoro in un’area, quella europea, che si appresta a raggiungere i venti milioni di disoccupati. Se non si agisce con rapidità le spinte alla disgregazione diventeranno esplosive. Com’è possibile che in nome del neo-liberismo non si dia priorità a investimenti pubblici capaci di riattivare un processo di crescita virtuosa? Lo sostengono grandi economisti. Da ultimo la bibbia del capitalismo, “The Economist” del 13 ottobre che, senza tanti giri di parole, assegna un ruolo importante allo Stato e ai sistemi di welfare per la ripresa dello sviluppo economico. Non tagli alla spesa pubblica ma riqualificazione. Sollecita la fine dei favori ai ricchi, priorità nelle politiche per i giovani e un sostegno all’istruzione con stipendi adeguati senza enfatizzare il “merito”, ma cercando di abbassare il divario sociale aumentato a dismisura nell’ultimo decennio. Da ultimo, bisogna cessare con i sussidi alle istituzioni finanziarie, beneficiarie ultime dei sacrifici imposti ai popoli. Non è che Fassina o Vendola sostengano cose tanto diverse dall’Economist, o no? Siamo abituati a pensare che in campagna elettorale si dice di tutto e di più per raccogliere voti. Sarebbe salutare, questa volta, se le balle rimanessero patrimonio esclusivo di coloro che per tanti anni hanno costruito il loro consenso attraverso la vendita di panna fresca.
Corriere dell’Umbria 6 gennaio 2013