da Francesco Mandarini | Ott 10, 2014
Matteo Renzi non perde occasione di ripeterlo: se l’Italia vuole rimanere competitiva deve seguire l’esempio della Germania e fare “le riforme” (alla tedesca). Non è ovviamente l’unico a sostenere questa posizione. L’idea che la Germania sia uno dei pochi paesi in Europa ad “avercela fatta”, e che rappresenti dunque un modello per il resto del continente, è un fatto che viene dato per assodato dalla maggior parte dei politici e commentatori, al punto che oggi quel processo di “germanizzazione dell’Europa” (e, nel caso specifico, dell’Italia) in corso viene salutato da molti come un fatto positivo se non addirittura inevitabile. Trattasi però di una pericolosa illusione: il “modello tedesco”, lungi dall’essere una best practice da esportare nel resto d’Europa, rappresenta un serio pericolo non solo per gli altri paesi ma anche per la stessa Germania.
A dirlo non è qualche “gufo” del Sud Europa, ma nientedimeno che Marcel Fratzscher, presidente di uno dei principali istituti di ricerca economica tedeschi, il DIW, in un libro intitolato appunto Die Deutschland-Illusion (“L’illusione tedesca”; a tal proposito si veda anche questo articolo di Vincenzo Comito). Secondo Fratzscher, il mito del modello tedesco si basa su una serie di false illusioni, prima fra tutte l’idea che l’enorme avanzo commerciale accumulato dalla Germania in seguito all’introduzione dell’euro (a fronte di un disavanzo commerciale altrettanto grande nei paesi della periferia) sia da imputare alla maggiore “produttività” ed “efficienza” dell’economia tedesca, a sua volta il risultato della famosa riforma del mercato del lavoro (detta “Hartz”) introdotta da Schröder nel 2003-5 – quella a cui si è ispirato Renzi per il suo “Jobs Act” –, a cui andrebbe il merito di aver ridotto la disoccupazione e rilanciato la crescita nel paese. Questa in sostanza la narrazione autocelebrativa del “miracolo tedesco”, che però ha ben poco a che vedere con la realtà, dice Fratzscher. Tanto per cominciare bisogna sfatare il mito della Germania come “locomotiva d’Europa”: a ben vedere, dal 2000 ad oggi il tasso di crescita del paese è stato un misero 1.1%, ponendo la Germania al 13esimo posto tra i 18 membri dell’eurozona. La riforma Hartz, poi, ha sì diminuito la disoccupazione ma lo ha fatto allargando enormemente il bacino dei lavoratori precari, part-time e sottopagati (alla riforma va il merito di aver introdotto i cosiddetti minijob e midijob), col risultato che il monte ore totale è rimasto praticamente invariato. (Per un’analisi dettagliata dei deleteri effetti sociali della riforma, si veda questo recente studio della fondazione Rosa Luxemburg).
La riforma ha anche e soprattutto avuto l’effetto di “congelare” i salari tedeschi, comprimendo la domanda interna e permettendo al paese di acquisire un vantaggio competitivo rispetto ai suoi partner commerciali europei, che non sono riusciti a imporre le stesse condizioni ai loro lavoratori: è unicamente a questo – ricorda Fratzscher – che va imputato il successo commerciale della Germania, e non a un aumento del tasso di produttività, che è da anni uno dei più bassi del continente (tanto per capirci, in seguito all’introduzione dell’euro, il tasso di produttività greco è cresciuto molto più rapidamente di quello tedesco). E ovviamente il boom delle esportazioni tedesche è stato reso possibile solo dal fatto che gli altri paesi del continente non hanno seguito la stessa politica salariale, ma hanno invece mantenuto un livello di domanda tale da poter assorbire le esportazioni tedesche (accumulando dunque un disavanzo commerciale). Questo è perfettamente normale: all’interno di un’area monetaria, il surplus di certi paesi corrisponde necessariamente al deficit di altri (se io ho un surplus nei tuoi confronti, tu non puoi averlo nei miei). Ma c’è di più: se è vero che l’alto livello della domanda in alcuni di questi paesi era in parte il risultato di bolle speculative (soprattutto nel settore immobiliare) – secondo la lettura moralistica che i tedeschi danno della crisi, il risultato di una naturale tendenza all’eccesso dei paesi periferici, da espiare per mezzo dell’austerità –, è altrettanto vero che il settore finanziario tedesco ha attivamente contributo alla creazione di queste bolle. In sostanza, le banche tedesche hanno preferito reinvestire i profitti delle esportazioni all’estero piuttosto che in Germania, esportando enormi quantità di capitali verso i paesi della periferia, alimentando boom immobiliari in molti di essi (in particolare in Spagna e Irlanda) – e, soprattutto, permettendo ai consumatori di questi paesi di continuare ad importare prodotti tedeschi. È quello che gli americani chiamano vendor-financing: ti vendo qualcosa ma te ne finanzio l’acquisto.
Questa politica – nota Fratzscher – ha rappresentato un problema tanto per i paesi in deficit (le cui economie sono crollate allo scoppio di queste bolle, nel 2008) quanto per la Germania, che infatti da anni registra un tasso di investimento, sia pubblico che privato, tra i più bassi in Europa, a cui è da imputarsi la crescita anemica del tasso di produttività tedesco. Come ha scritto di recente Philippe Legrain, ex assistente economico del presidente della Commissione europea, il caso della Germania dimostra che un avanzo commerciale delle dimensioni di quello tedesco – che ormai ha superato anche quella della Cina – non è il segno di una maggiore “competitività” o “efficienza” del sistema tedesco ma al contrario il sintomo di un’economia profondamente “disfunzionale”, in cui la ricchezza viene progressivamente redistribuita dal lavoro al capitale (e dalle piccole e medie imprese alle grandi imprese esportatrici) e in cui gli investimenti e la domanda interni – fattori determinanti per la crescita della produttività e di una competitività “sana” – vengono sacrificati sull’altare della bilancia commerciale. (Guarda caso nessuno si ispira al “modello cinese”, anch’esso fortemente export-oriented).
Più in generale, lo stato dell’economia europea mette in evidenza quanto sia fallace l’idea che il cosiddetto “modello tedesco” – basata sulla compressione dei salari e della domanda interna al fine di incrementare le esportazioni, perché di questo si tratta, null’altro – possa rappresentare un modello per l’Europa nel suo complesso. Risulta evidente, infatti, che tale modello può funzionare solo se c’è qualcuno che si fa carico di trainare le esportazioni, stimolando la domanda interna. Se tutti i paesi dell’eurozona seguono la stessa politica di deflazione interna (sia sul fronte fiscale che salariale, comprimendo dunque sia la domanda pubblica che quella privata), come stanno facendo da vari anni a questa parte, il risultato è inevitabilmente un crollo della domanda aggregata in tutta l’area monetaria e conseguentemente una diminuzione delle esportazioni dell’eurozona nel suo complesso. Il riequilibrio della bilancia dei pagamenti intra-euro, dovuto a una drammatica riduzione dei deficit commerciali dei paesi della periferia, è infatti imputabile perlopiù al crollo della domanda e dei salari – e dunque all’aggravarsi della recessione – in quei paesi, piuttosto che a un aumento delle esportazioni. In altre parole, il beneficio (limitato) di un incremento delle esportazioni per i paesi della periferia viene completamente azzerato dagli effetti devastanti sull’economia di un’ulteriore riduzione della domanda in un periodo di recessione, accelerando così la spirale deflazionistica, specialmente se prendiamo in considerazione il fatto che le esportazioni rappresentano una percentuale relativamente bassa dell’attività economica di quei paesi (a differenza della Germania).
In questo senso, è lecito domandarsi se lo scopo della riforma del mercato del lavoro su cui sta spingendo il governo sia realmente quello di una semplice “sburocratizzazione” del mercato del lavoro italiano, o se sia piuttosto finalizzata a facilitare quella politica di deflazione salariale che l’asse Berlino-Francoforte-Bruxelles continua ad indicare – in barba a ogni evidenza del contrario – come l’unica via d’uscita dalla crisi per paesi come il nostro (si veda per esempio l’editoriale di qualche giorno fa di Hans-Werner Sinn nel Financial Times, in cui l’influente economista tedesco afferma che “la deflazione non è un pericolo per il Sud Europa ma un presupposto necessario per il recupero della competitività”). Soprattutto se si considera che la moderazione salariale fu l’obiettivo centrale della riforma tedesca a cui si ispira apertamente il nostro Presidente del Consiglio.
A nulla sembra valere il fatto che il volume degli scambi intra-europei ha registrato un crollo vertiginoso negli ultimi quattro anni, a danno anche della Germania (che non a caso ha segnato un tasso di crescita negativo nell’ultimo trimestre). È vero che finora il settore delle esportazioni tedesco è riuscito a riorientarsi verso il mercato extra-europeo, ma è opinione diffusa che di fronte a una stagnazione della domanda a livello globale una politica di questo tipo non è sostenibile nel medio termine neanche per la Germania (che infatti ha visto la sua fetta delle esportazioni globali passare dal 9.1% del 2007 all’8% nel 2013, più o meno la stessa percentuale che registrava ai tempi della riunificazione). E di certo non è immaginabile che tutti i paesi dell’eurozona registrino un avanzo commerciale nei confronti del resto del mondo, in una corsa al ribasso su costi e salari, impossibile da vincere, con paesi come la Cina.
L’Europa e la Germania, concordano Fratzscher e Legrain, hanno una sola speranza per rimanere realmente “competitive” sul mercato globale: rilanciare la domanda interna e gli investimenti (sia pubblici che privati) e puntare su quei settori ad elevato valore aggiunto che sono gli unici che hanno il potenziale di coniugare crescita economica, competitività e sostenibilità ambientale e sociale. Prima che la “malattia tedesca” contagi irreversibilmente il resto del continente.
La riproduzione di questo articolo è autorizzata a condizione che sia citata la fonte: www.sbilanciamoci.info.
da Francesco Mandarini | Set 11, 2014
L’imprevisto si è materializzato nella casamatta del crescente potere renziano, investendo gli «uomini nuovi» che già si preparavano a guidare l’amministrazione di un territorio simbolo della sapienza amministrativa che fu. Un brutto colpo all’immagine di una squadra costruita per mostrare i cavalieri e le dame della tavola rotonda votati al servizio del Paese.
Governo, partito e leadership nazionale sono stati colpiti dall’effetto domino dell’inchiesta sulle «spese pazze» degli amministratori dell’Emilia Romagna. Si vedrà se le accuse dei giudici (che riguardano tutti i gruppi emiliani, generosi in profumi, gioielli, cene e forni a micronde), troveranno riscontri processuali. Intanto però l’evidenza di un malaffare, o quantomeno di un malcostume, che ha già travolto il ventre molle della maggior parte dei consigli regionali, non ha alcun bisogno di conferme.
E a proposito di conferme, ancora una volta (e nonostante il tanto sventolato rinnovamento del partito, frutto di una costante e colpevole costruzione mediatica), quelli saliti sul carro del vincitore reagiscono alla bufera giudiziaria che li riguarda nel modo peggiore. Strillando contro «la giustizia a orologeria». Rinnovando ai politici indagati la fiducia del Pd. Tutto secondo il collaudato stile del «complotto delle toghe» contro i «rappresentanti del popolo». È penoso assistere a questo spettacolo che ormai va in scena da oltre vent’anni, secondo le solite modalità. Ed è penoso vedere che il renzismo, osannato da quasi tutti i media, soffre della stessa fobia anti-giudici.
Eppure lo scontro tra magistrati e politici, che in questo momento tornano a incrociare le spade anche sulla riforma della giustizia, non è certo l’unico terreno comune tra il presidente del consiglio e il suo più forte sostenitore — il pregiudicato — provvisoriamente ai domiciliari e politicamente collocato tra i banchi dell’opposizione.
Sulle riforme istituzionali, come su quelle del mercato del lavoro, la scintilla della profonda sintonia ha avuto modo di accendersi emanando tutta la sua forza incendiaria, durante questi primi sei mesi di renzismo onnivoro. Però molto fumo e poco arrosto. I cantori del nuovo corso plaudono alla ripresa di ruolo della politica contro le odiate burocrazie che «gufano e rosicano», mentre sentiamo dire che non rinnovare i contratti e iniettare massicce dosi di precarietà nelle deboli vene del mercato del lavoro sarebbe la rivoluzione di sinistra e non, purtroppo, la replica (in peggio) dell’agenda Monti. E poi tagli di 20 miliardi alla spesa pubblica e applicazione forzata dei Trattati europei (da ieri sorvegliati dal finlandese Katainen, quello che voleva scambiare i prestiti alla Grecia avendo in pegno il Partenone).
Per farsi un’idea della scena — triste — bastava osservare il teatrino televisivo di Vespa che, insieme a miss Italia, inaugura da vent’anni il rito del rientro dalle vacanze. Non si era mai visto Sallusti, il direttore del giornale di Arcore, alternare sorrisi a sguardi ammirati verso il giovane premier, che ritornava sui soliti refrain («ma se uno si mette a leggere i giornali che dicono che tutto va male…»), che si gongolava («l’altra sera al vertice europeo è venuto fuori il Renzi che è in me…»).
Basterebbe questa battuta per far capire, soprattutto agli elettori del Pd, che sta avvenendo qualcosa di profondamente distorto nella politica e nella cultura del Paese. Ma il primo a capirlo dovrebbe essere lo stesso premier: cambiare a sinistra si può e si deve. Cambiare invece rinnovando il berlusconismo che ha ammalato l’Italia, non si può e non si deve.
Norma Rangeri
Il Manifesto dell’11 Settembre2014
da Francesco Mandarini | Set 5, 2014
Si dice che continui la luna di miele tra il governo e il paese. Renzi se ne vanta, con quella vanità gonfia di vuoto che Musil definiva biblica. Fosse vero, si riproporrebbe un classico problema. Sa questo popolo giudicare? O forse ama essere irriso, deriso, abbindolato? Era meglio persino Monti (ci si passi l’iperbole), il nostro cancellier Morte (parola del Financial Times, che ebbe modo di assimilarlo al rigorista che spianò la strada a Hitler). In pochi mesi Monti rase al suolo la parte più indifesa del paese, ma almeno non vestiva panni altrui. Renzi non fa praticamente altro che infinocchiare il prossimo, con quella sua faccia di bronzo da bambino viziato e prepotente.
Le balle più odiose riguardano ovviamente la riduzione delle tasse (gli 80 euro per i quali si ribloccano i salari del pubblico impiego). Nonché la difesa di ceti medi e lavoro dipendente. In realtà il governo colpisce duro entrambi.
Nei diritti (è vero, l’art. 18 è un simbolo: poi c’è la sostanza, come dimostra questa novità del manager scolastico che arbitrerà le carriere dei colleghi a propria discrezione). Nelle tutele (persino l’Ocse segnala che la «riforma» Poletti esagera con la precarietà). Nei già esangui redditi. Tornano i tagli lineari, vergognosi in sé, e tanto più perché valgono a sostenere l’indifferenza tra bisogni essenziali (la salute, la formazione, la vita stessa) e sprechi veri, a cominciare dalla scandalosa spesa militare. E torna – per la quinta volta – il blocco degli scatti nelle retribuzioni dei dipendenti pubblici. Non una porcheria: un vero e proprio furto.
Hanno lor signori idea di che significhi di questi tempi in Italia per milioni di famiglie, specie al Sud, perdere mille euro l’anno? Certo, per chi ne guadagna quindici¬mila al mese o più, è una bazzecola. Per molti invece è un dramma, come dimostra quel 5% di famiglie (l’anno scorso era appena l’1%) costrette a indebitarsi con banche e finanziarie per comprare libri e corredo scolastico. Anche di quella che continua a chiamarsi scuola dell’obbligo.
Il peggio è la motivazione fornita cinicamente dalla ministra Madia. «Non ci sono risorse». Il che può tradursi in un solo modo: «Per questo governo sono intangibili rendite e patrimoni, pur in larga misura accumulati con l’illegalità» (leggi: elusione ed evasione fiscale).
Ora finalmente chiediamoci: che razza di governo è mai questo? Chiediamocelo senza guardare alle etichette, badando alle cose che fa e progetta, dalla politica economica alle scelte internazionali, dalla controriforma del lavoro a quella della Costituzione.
Chiediamocelo noi. Ma se lo chiedano prima di tutti seriamente sindacati e politici. La Cgil minaccia mobilitazioni in difesa del pubblico impiego. Vedremo. Parte del Pd mugugna e medita di dar battaglia sull’art. 81 della Costituzione. Vedremo. Ma all’una e all’altra suggeriamo di guardarsi finalmente dall’errore che ci ha portati a questo stato.
Non c’è più tempo per traccheggiare. Ne va della loro residua credibilità, ma soprattutto della vita di milioni di persone.
Antonio Burgio
Il Manifesto del 5 settembre 2014
da Francesco Mandarini | Ago 7, 2014
Che cosa penserebbero Orwell e Koyré se capitasse loro in sorte di vivere oggi qui tra noi? Entrambi furono colpiti dalla pervasività della menzogna politica, dalla sua capacità di reinventare la realtà a uso dei potenti. Ma ritenevano che la faccenda riguardasse soltanto i regimi totalitari. Un breve soggiorno nell’«Italia di Renzi» li convincerebbe di aver peccato di ottimismo. Sulla menzogna politica si fonda anche la post-democrazia populista, nella quale – come nei totalitarismi storici –l’indottrinamento delle masse passa per i due versanti del mentire: promettere disattendendo e raccontare mistificando.
Promettere a vanvera è lo sport prediletto dal nuovo padroncino del paese. Alberto Asor Rosa ne ha fornito su queste pagine una puntuale documentazione in tema di politica industriale e di tutela dell’ambiente, del territorio e dei beni culturali, considerati un valore solo se capaci di fruttare denaro. Di qui la previsione di «rottamare» le Soprintendenze e di affamare settori non spendibili nel turismo di massa come gli archivi e le biblioteche. Possiamo facilmente aggiungere altri esempi rilevanti.
Nessuna delle pur caute previsioni di crescita economica formulate dal governo regge alla prova dei fatti. Il pil ristagna (nonostante i pingui proventi delle mafie) e il debito di conseguenza corre. A settembre serviranno almeno 20 miliardi, ma Renzi giura che non ci sarà alcuna manovra aggiuntiva. Mente sapendo di mentire. Dapprima, per differirla, aveva pensato a elezioni anticipate. Ora preannuncia altri tagli alla spesa. Cioè una manovra nascosta. Nuovi taglieggiamenti a danno dei soliti noti che da sempre pagano
per tutti. Così si spiegano anche i continui balletti di quest’altra indecente «riforma» della Pubblica amministrazione, propagandata nel nome del ricambio generazionale ma dettata come sempre da ragioni di bilancio. Si era promesso di cancellare una delle più macroscopiche porcherie della controriforma Fornero permettendo ai «quota 96» della scuola (circa quattromila insegnanti) di andare finalmente in pensione. E invece tutto si è puntualmente risolto in una bolla di sapone, con la conseguenza di perpetuare un’ingiustizia paragonabile a quella già inflitta agli esodati. Ma è certamente nell’arte del racconto mistificatorio che la nuova classe dirigente politico-mediatica dà il meglio di sé. Il processo di revisione costituzionale è costellato da un’orgia di menzogne. Sul merito della «riforma». Su suoi presupposti e sulle sue conseguenze. Su quanto sta accadendo in
Senato. Né i media né tanto meno il governo spiegano che, nonostante tutti i maquillages, il combinato tra l’Italicum e la trasformazione della Camera Alta sarà l’accentramento di tutti i poteri costituzionali nelle mani della leadership del partito di maggioranza relativa. La formale subordinazione del Parlamento, già screditato dalle martellanti campagne anti-casta e dalla corruttela dilagante tra i suoi membri. La fine del delicato equilibrio poliarchico che ci ha sin qui bene o male protetti da sempre incombenti regressioni autoritarie. Altro che la mera ripetizione dell’esistente come argomenta da
ultimo Ilvo Diamanti. Il presidente del Consiglio si appropria, non smentito, del risultato delle Europee per millantare un presunto consenso plebiscitario alle proprie iniziative e arrogarsi il diritto di calpestare ogni norma vigente, a cominciare da quella Costituzione che ha fermamente deciso di stravolgere. Intanto ogni giorno veste indisturbato i panni della vittima che subisce paziente insulti e ricatti. Proprio lui che prima ha squadristicamente dipinto i dissenzienti come miserabili mossi da interessi personali, poi
annunciato la fine di ogni accordo con chi a sinistra osasse contrastarlo. Salvo prontamente ricredersi, una volta verificato che il saldo tra benefici (l’espulsione degli infedeli dalle istituzioni) e costi (la crisi a macchia d’olio nelle amministrazioni di città e regioni) sarebbe al momento sfavorevole.Bugiardi e violenti. Ma anche usurpatori. Non ha torto Manlio Padovan quando, commentando il mio articolo sulle forzature del presidente della Repubblica, afferma in una lettera al manifesto che c’è una questione più rilevante di quelle che io ricordavo, costituita dal sopravvenuto deficit di legittimità di questo Parlamento (quindi dei suoi atti, compresa la rielezione di Napolitano) dopo la sentenza
della Consulta sul Porcellum pubblicata all’inizio di quest’anno. Anche su questo si è mistificato. Si è invocato il principio di continuità dello Stato per sostenere che la legislatura deve durare sino alla scadenza naturale. È stata un’ennesima forzatura, forse la più grave, poiché dalla sentenza della Corte derivava per il presidente della Repubblica l’incombente dovere politico e morale (se non strettamente giuridico) di prescrivere alle Camere l’immediata riscrittura della legge elettorale quale premessa del ritorno anticipato alle urne. Si è fatto finta di nulla pur di tenere in vita un Parlamento ormai privo di legittimità. Al quale, in forza di un patto segreto sottoscritto da due capibastone, si riserva oggi il compito di riscrivere la Costituzione e domani di eleggere il nuovo capo dello Stato.
E così torniamo alla «riforma» renziana della Costituzione, stipulata con l’incappucciato di Arcore. Benedetta dal Colle e imposta al Parlamento mercé l’uso manganellare dei regolamenti e la zelante complicità del presidente Grasso. Ci rivolgiamo finalmente a quella parte del Pd che ha alle spalle una storia di lotte democratiche. Che si pensa erede del movimento operaio e della Costituente antifascista. Che dovrebbe a rigore rifiutarsi di funzionare come l’intendenza del «Partito di Renzi». Come può questa parte politica non avvertire il peso della responsabilità che il suo partito si sta assumendo per volontà del proprio capo facinoroso e prepotente, sprezzante di ogni principio di rispetto per le posizioni altrui e di ogni limite che l’ordinamento ancora vigente pone? Come può non
sentire come un’onta la connivenza con questo ennesimo scempio, il più grave fra tutti quelli pur gravi subiti in questi anni dalla Carta del ’48, a conferma della trista regola che vuole talvolta proprio i partiti democratici disposti a compiere le scelte più nefande che le destre non potrebbero da sole imporre? Come può illudersi che presto sarà dimenticato quanto accade in questa grigia estate in cui persino il tempo pare volersi rivoltare, e che non prevarrà invece la vergogna per avere nonostante tutto consentito e cooperato?
Leggiamo che molti dissidenti del Pd sono stati in queste ore febbrili insultati, intimiditi, minacciati. Non sottovalutiamo l’impatto di simili pressioni. Ma non vorremmo che per questo essi scambiassero cedimenti per doveri, e la tranquillità di un momento per un onore duraturo.
A.Burgio
Dal Manifesto del 6 Agosto 2014
da Francesco Mandarini | Lug 10, 2014
Dopo le aporie del riformando senato, tocca ad alcune falsità. È falso che il bicameralismo paritario sia causa di intollerabili ritardi. Si veda il sito www.senato.it, voce “Leggi e documenti”, sottovoce “Statistiche”. Si troveranno i dati dell’attività legislativa. Gran parte risale al governo e in specie ai decreti-legge, che entrano immediatamente in vigore, mentre il tempo medio per il voto finale sulle leggi di conversione — la parte che spetta al parlamento — non supera in questa legislatura le due settimane in ciascuna camera. Ritardi? E di chi? Per non parlare di leggi — ancorché contestatissime, ricordiamo le leggi-vergogna — passate in entrambe le camere nel giro di pochi giorni o settimane. Qualunque sistema democratico — europeo o extraeuropeo, mono o bicamerale — mostra tempi analoghi o superiori nella produzione legislativa. È falso, in ogni caso, che dal bicameralismo paritario si esca necessariamente con un senato non elettivo. Al contrario, nelle ultime legislature sono molteplici le proposte di camere differenziate nei poteri, anche per la fiducia e il bilancio, ma entrambe elettive. Proposte che investono sul senato, piuttosto che azzerarne il peso politico e istituzionale. Basterebbe leggerle.
È falso che il senato non elettivo abbatta radicalmente i costi. Sempre sul sito del senato è possibile leggere i bilanci, dai quali risulta che l’indennità è una frazione del costo totale dell’istituzione. In massima parte i costi sono dovuti agli immobili, ai servizi, al personale. Costi che rimarrebbero, con l’aggiunta delle spese di permanenza ai Roma dei senatori di nuovo conio. Qualcuno dovrà pure pagare, e non fa differenza chi.
È falso che il senato non elettivo ci allinei ad altri esempi europei. È vero il contrario. Non è un modello spagnolo, dove la composizione del senato è mista, con una parte prevalente elettiva. E già così è considerato di scarso peso politico e istituzionale. Non è un modello tedesco: nel Bundesrat siedono i rappresentanti degli esecutivi dei Lander, che votano in blocco per il Land di appartenenza. È falso, ancora, che sia un sistema simile a quello francese, che ha preso da ultimo la strada opposta, vietando il cumulo del mandato parlamentare con ogni carica esecutiva regionale e locale, per ripulire la politica e ripristinare la fiducia dei francesi nelle istituzioni.
È falso che concedere al senatore sindaco o governatore l’autorizzazione della camera di appartenenza per arresti, perquisizioni, sequestri, intercettazioni sarebbe compensato dalla attribuzione alla Corte costituzionale di una funzione di appello sul diniego di autorizzazione da parte dell’assemblea. La guarentigia costituzionale funzionerebbe in ogni caso come deterrente per l’avvio dell’indagine, e sminuirebbe l’efficacia del controllo giudiziario su quello che a buona ragione può definirsi il ventre molle del paese.
È falso che un senato non elettivo possa esercitare con maggior forza funzioni di controllo e di vigilanza sul governo e le amministrazioni pubbliche. Quand’anche i senatori plurimandatari avessero il tempo, la voglia e la competenza per farlo, è chiaro che la parte più rilevante dell’assemblea è composta di persone che con il governo discutono — altrove — di risorse, la cui disponibilità è concretamente rimessa allo stesso governo. Chi aprirebbe mai conflitti veri?
È falso che le riforme istituzionali le chieda l’Europa. Altre, forse, ma non queste. I falchi europei hanno messo bene in chiaro che s’interessano ai conti e niente altro. L’aspro confronto in atto guarda a un arco temporale limitato a un anno, o due. E qui abbiamo riforme che in principio producono effetti dal 2018. Tanto meno l’Europa si cura della prova muscolare che il governo tiene tanto a esibire. Comunque vada, sui problemi finanziari e di debito pubblico non inciderà affatto.
Infine, è solo una mezza verità che di simili soluzioni si parlava già in Assemblea Costituente. L’antico precedente non nobilita la proposta di oggi. Una lettura complessiva degli atti ci dice che per tutti — favorevoli e contrari al bicameralismo — la rappresentatività era la chiave necessaria per la costruzione di istituzioni forti e durature. Perché per tutti era nelle assemblee rappresentative la casa del popolo sovrano.
Il progetto del governo invece svilisce il parlamento, con un senato non elettivo, e una legge elettorale capestro per la camera. Senza nemmeno riequilibrare con un rafforzamento degli istituti di democrazia diretta e di partecipazione. Al contrario, se si guarda in specie a quel che passa in emendamento sulla iniziativa legislativa popolare. Domani, sarà più o meno facile per i cittadini far sentire la propria voce dove si decide? Sarà più difficile. E non saranno le e-mail mandate a una casella di posta governativa a dimostrare il contrario.
Comprendiamo le ansie del Presidente Napolitano. Ma si può mai costruire sul non detto, il non vero, il falso tout court? A voler essere spericolati, in un tempo di citazioni colte potremo dire adelante, ma con juicio. E magari ricordare che i governanti antichi tenevano buono il popolo con pane e circensi. Qui invece si promettono pane e riforme. Riforme prima, pane poi. E almeno quelli si divertivano.
Villone dal Manifesto del 10 Luglio 2014