da Francesco Mandarini | Giu 14, 2014
La sconfitta di una politica senza idee
Il presidente Matteo Renzi ha perfettamente ragione: per il centrosinistra non ci sono più rendite di posizione. Anche considerando lo stato comatoso del centrodestra, perdere Perugia e Livorno non è cosa da poco. Sarebbe comunque utile al nuovo PD una ricerca su come si siano formate le rendite che hanno potuto gestire gli eredi dei vecchi partiti della sinistra e dell’area democristiana non berlusconizzata. Una rendita in politica si può costruire in modi diversi. Attraverso il clientelismo e di esempi ne abbiamo a iosa o cercando di far svolgere alla politica il ruolo per cui ha un senso, l’agire politico: lavorare per cambiare lo stato di cose esistente nell’interesse delle collettività che si governano. L’Umbria uscita dalla guerra nazi-fascista era una regione meridionale con tassi di emigrazione altissimi, con povertà diffuse, città svuotate dalle sue forze migliori. Per capirci, soltanto nel 1972 l’Umbria tornò ad avere la stessa popolazione del 1953. Nel disinteresse dei governi centristi di quegli anni soltanto le forze della sinistra, comunisti e socialisti, riuscirono a costruire lotte di massa e progetti di sviluppo in un percorso di emancipazione che riguardò l’intero territorio regionale. E non è stata soltanto emancipazione economica. I grandi eventi culturali nascono negli anni cinquanta, sessanta e settanta. Le città iniziano a rinascere anche attraverso la cultura. Un esempio? Spoleto che ospita da decenni uno dei festival più importanti al mondo. Certo, genialità di Giancarlo Menotti ma merito anche degli amministratori della città e dei politici di quel tempo che lo sostennero in un’impresa difficilissima. Con il Jazz c’entravamo poco ma ciò non impedì alla Regione di partecipare all’invenzione di Umbria Jazz nelle piazze dei nostri borghi gremite di giovani di tutto il Paese. In quegli anni, l’Umbria è al centro del dibattito nazionale sulla nuova psichiatria. Merito dei medici dell’ospedale psichiatrico, ma è anche grazie al coraggio dell’amministrazione provinciale diretta da comunisti e socialisti che assieme ai colleghi di Trieste ebbero la forza di chiudere il manicomio senza la copertura di una legge. Il primo piano di sviluppo d’Italia è stato quello elaborato in Umbria. Lo venne a presentare Ugo La Malfa usando espressioni di grande apprezzamento per la capacità delle classi dirigenti politiche di prefigurare, con il Piano, la crescita di una comunità. Il punto è questo: si possono avere anche idee sbagliate nell’amministrare un comune o una regione. Ma idee bisogna averne. Senza si può galleggiare nell’esistente, salvare il proprio incarico e null’altro. Questo è successo negli ultimi decenni. Quando il mare diventa mosso anche il galleggiare diviene complicato. La scomparsa dei partiti di massa ha ragioni molto profonde e sciocco sarebbe proporre la formazione dell’intellettuale collettivo se non in modo radicalmente diverso dal passato. Il problema è che i partiti personali o i partiti “seggio elettorale” d’idee ne propongono poche e scarsamente partecipate. Perché si è perso a Perugia? L’ultimo intervento di qualche significato positivo nella mia città sono state le scale mobili della Rocca Paolina. Era il 1984. Interventi ve ne sono stati moltissimi. Anche troppi ma spesso sbagliati. Il Piano regolatore ha consentito la cementificazione di vaste aree e……lo svuotamento del centro storico di abitanti e funzioni. L’autoreferenzialità del ceto politico e amministrativo hanno impedito la messa a leva delle energie migliori della società civile e dell’intellettualità perugina. Da città dei convegni Perugia si va trasformando in una piccola Rimini senza il mare. Perugia non è la capitale della droga come la descrivono autorevoli e spesso cialtroneschi giornalisti. Sciocchezze. Perugia è una città colpita da una crisi economica durissima e da una crisi d’identità dovuta a classi dirigenti innamorate del proprio ombelico.
Francesco Mandarini
dal Manifesto del 14 giugno 2014
da Francesco Mandarini | Mag 25, 2014
Una campagna elettorale in cui «è stato fatto il possibile per trasformare il voto europeo in un voto sui partiti. I veri temi in questione? Assenti». Al professore Luciano Gallino, sociologo del lavoro e tra i promotori della lista l’Altra Europa con Tsipras, il modo in cui i grandi partiti e i media hanno affrontato il voto europeo è sbagliato: «Potrebbe essere un’elezione che si svolge in Australia o in Guatemala: i tre principali partiti sgomitano solo in vista del dopo».
Una ragione può essere che per le due grandi famiglie, Pse e Ppe, le larghe intese sono un esito scontato?
Comunque non giustifica l’omissione. Faccio un esempio: la Commissione Europea da un anno conduce trattative segrete con gli Stati Uniti per stabilire un partenariato sugli investimenti nel commercio, il Ttip (il Transatlantic trade and investment partnership, ndr). È un dispositivo che presenta rischi colossali per i diritti dei lavoratori, per la sicurezza alimentare, per la proprietà intellettuale. E i commissari lo sanno bene, tant’è che si chiudono in segrete stanze per discuterne. Da noi non se ne parla, in altri paesi sì. O anche: eleggere un presidente o un altro può fare la differenza, dopo i cinque anni di presidenza ottusamente liberale di Barroso.
Il socialdemocratico Schulz però sarebbe eletto con i voti del partito di Barroso.
Su alcuni temi Schulz potrebbe fare la differenza. Certo è un esponente della Spd tedesca post-Schroeder, dimissionaria da ogni tipo di sinistra. Il Pse si accorderà con il Ppe, in fondo la pensano allo stesso modo sul trattato di Maastricht, che è uno statuto di una corporation, non un documento politico.
L’Italia rispetterà le regole del six pack e del fiscal compact, o non potrà farlo, come ormai ammette anche il Pd?
I dati dicono che il nostro debito pubblico ormai è impagabile. Il Pil è sceso intorno ai 1550 miliardi, il debito è balzato oltre i 2mila. Per fare fronte ai requisiti del fiscal compact servirebbe destinare 40–50 miliardi l’anno dell’avanzo primario. Ma è insensato. Già oggi lo stato incassa circa 500 miliardi di imposte e tasse e ne spende intorno a 420–430. Toglierne altri 40–50 sarebbe un disastro per lo stato sociale e per l’amministrazione pubblica. Le strade sono due: o, appunto, il disastro, ovvero che l’Italia non si adegua e vengono erogate ulteriori misure punitive; oppure che i principali paesi con debito rilevante si accordano per diluire o abolire il fiscal compact; o comunque per procedere a una ristrutturazione pacifica del debito. Molto dipende dal risultato di questo voto.
È la proposta di Tsipras, che lei sostiene. Una conferenza per cancellare parte del debito, sul modello di quella di Londra del ’53 che permise di risolvere il debito della Germania. È fattibile, a suo parere?
Sarebbe un primo passo concreto. L’idea di battere i pugni sul tavolo, quella di Renzi, è ridicola: ci vuole un certo numero di paesi, Francia Spagna e altri, per ottenere una la conferenza. Documentando che il debito non si può pagare. Parlarne ad alto livello sarebbe già un passo avanti rispetto alla litania del ’ce lo chiede l’Europa’. La Germania non va demonizzata: ma va ricordato che ha tratto vantaggio dal fatto di non aver mai pagato i suoi debiti. Ha pagato in misura minima le riparazioni della guerra del ’15-’18. E quanto all’enorme debito lasciato dai nazisti, è stato cancellato dagli americani che hanno stampato miliardi di marchi deutsche mark, non più di reichsmark, nel giugno del ’48 li hanno portati in Germania, e il giorno dopo hanno distribuito la nuova moneta. Così si è abbattuto il debito pubblico tedesco. Sono argomenti delicati, ma qualcuno ben preparato che li affronti avrebbe più possibilità di successo che non uno che si faccia male battendo i pugni sul tavolo.
Le politiche di Renzi rispondono a criteri europei?
Agli aspetti peggiori, però. La Troika e il Consiglio europeo da vent’anni lavorano per comprimere le condizioni di lavoro i diritti e i salari, in linea con le misure regressive che hanno visto alla testa i partiti di sinistra, socialdemocratici tedeschi, socialisti francesi e laburisti britannici. C’è un documento del ’99, un proclama di Blair e Schroeder, che sembra scritto da Confindustria. E dice chiaro che bisogna tagliare lo stato sociale.
Renzi segue ancora quelle vecchie linee di direzione, per esempio sul lavoro?
La generalizzazione del lavoro precario è già una realtà. Nessun governo era arrivato a imporre spinte alla precarizzazione del lavoro come è stato fatto oggi.
Ora dovrebbe arrivare il vero cuore del job act, il contratto unico e la costosa riforma degli ammortizzatori sociali.
Prima che costosa è rischiosa. La cassa integrazione ha un vantaggio fondamentale: mantiene il posto di lavoro, quindi mantiene una qualche titolarità di diritti per il lavoratore. Quello che si prospetta, a quanto si capisce, cancellerebbe questa minima difesa di un lavoratore. Le ricette di Renzi sono figlie di quelle di Blair, a loro volta nipoti di quelle di Thatcher, e cugine di quelle di Schroeder, per il quale la socialdemocrazia doveva smettere di pensare che i lavoratori hanno diritto a un posto fisso. Appuntandosi il badge di partiti di sinistra hanno ridotto i salari e moltiplicato la precarietà. Così è l’Italia oggi. La precarietà è elevatissima, lo dice l’Ocse (l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, ndr). E porta a un impoverimento di tutta la struttura economica. Lavoratori malpagati consumano meno, la domanda aggregata — ricordava Keynes — soffre. E un’azienda che deve retribuire in modo decente e continuativo i lavoratori è incentivata a fare ricerca e sviluppo, gli altri fronti che fanno il successo di un’impresa. Invece poter usare i lavoratori con il criterio on-off, cioè quando mi servi ti uso e quando no ti butto, spinge le imprese a puntare solo sul costo del lavoro e trascurare il resto. I nostri impianti sono i più vecchi d’ Europa, le spese in ricerca sono miserande, sul 34 paesi Ocse siamo intorno al 30esimo.
Renzi dice: ce la faremo, no ai gufi.
È uno spot pubblicitario, ma se non si affrontano i nodi prima o poi, anzi presto, il conto lo pagheranno i lavoratori.
Su questo Grillo pesca voti a piene mani.
La proposta di Grillo sul lavoro è un insieme di cose differenti, alcune generiche e condivisibili, altre no. E tra i lavoratori c’è il malcontento, che ovviamente si sfoga contro i sindacati. È già successo con la Lega, oggi succede con il M5S.
Anche Renzi prova a intercettare il malcontento contro i sindacati, attaccando apertamente la Cgil.
I lavoratori sono insofferenti per quello che i sindacati non hanno fatto. Ma va detto che ai sindacati è stata fatta una guerra senza quartiere, dagli anni 80 in poi. La precarietà, appunto: come si fa a organizzare i lavoratori in presenza di venti contratti differenti piccole aziende sparse sul territorio? La globalizzazione ha significato una radicale trasformazione nel modo di produrre: i mille lavoratori che stavano sotto lo stesso padrone con lo stesso contratto sono diventati dipendenti di 15 aziende differenti con contratti differenti. E con un padrone che non si sa più chi sia. Di lì bisogna partire per ricostruire una qualche forma solida di sindacato.
dal Manifesto del 24 maggio 2014
da Francesco Mandarini | Mag 8, 2014
Sarà anche una frase fatta ma qualche volta è inevitabile ricordare che la storia tende a ripetersi trasformandosi a volte in farsa. Dure e ripetute dichiarazioni di vari esponenti del PD: Renzi ha vinto le primarie, è segretario del partito e presidente del consiglio. Lui ha il diritto dovere di decidere. Ciò che Lui decide lo decide il partito e quindi tutti devono obbedire. Ricorda qualcuno le regole delle democrazie popolari del blocco sovietico? Vigeva il meccanismo del centralismo democratico. Il partito sopra tutto. Che cos’era il centralismo democratico? Da Wikipedia: L’opera Che fare? del 1902 (di Lenin) è spesso vista come il testo fondante del centralismo democratico. A quel tempo, il centralismo democratico era generalmente visto come un insieme di principi per l’organizzazione di un partito rivoluzionario dei lavoratori. Il modello di Lenin per questo partito, che secondo lui doveva seguire i principi del centralismo democratico, era il Partito Socialdemocratico Tedesco.
La dottrina del centralismo democratico fu uno dei motivi dei contrasti fra bolscevichi e menscevichi. I menscevichi propugnavano una più lasca disciplina di partito all’interno del Partito Operaio Socialdemocratico Russo nel 1903, come fece Lev Trockij, negli scritti I nostri doveri politici, fino a quando Trockij si unì ai bolscevichi nel 1917.
Il centralismo democratico fu anche descritto nella Costituzione sovietica del 1977 come un principio per organizzare lo stato: “Lo stato sovietico è organizzato e funziona sul principio del centralismo democratico, cioè il carattere elettivo di tutti gli organi dell’autorità statale dal più basso al più alto, la loro responsabilità verso il popolo, e l’obbligo degli organi inferiori di sottostare alle decisioni degli organi superiori. Il centralismo democratico unisce l’autorità centrale con l’attività creativa e l’iniziativa locale e con la responsabilità di ogni organo e funzionario sul lavoro affidato a loro”. Ascoltando la ministra Boschi rimproverare coloro che prospettano soluzioni diverse di riforma del Senato da quelle dell’accoppiata Renzi-Berlusconi, vengono spontanei due suggerimenti. Il primo: rendere esplicita la volontà di trasformare il PD in un partito leninista. Il secondo consiglio visto che bisogna, per il bene del Paese, “riformare” in fretta la Costituzione, per non perdere ulteriore tempo, adottiamo la Costituzione sovietica del 1977. Sarebbe coerente con le ripetute affermazioni renziane attorno alla rivoluzione in atto.
da Francesco Mandarini | Apr 29, 2014
Funziona così. Il presidente del Consiglio convoca (di buon mattino) la presidente della commissione affari costituzionali, che in quanto relatrice ha in mano il progetto di riforma della Costituzione, e con lei il capogruppo del Pd che si suppone o si spera controlli le intenzioni di voto di tutti i suoi senatori. La riunione serve a trovare un accordo, un compromesso sulla riforma del bicameralismo. È una riunione in famiglia. C’è anche la ministra Boschi, sono tutti di un solo partito (il Pd) ma hanno sul tavolo la legge che modifica 44 articoli, quasi un terzo, della Costituzione. Il presidente del Consiglio è quello che ha detto che le riforme si devono fare con tutti. L’ha detto per difendere il suo patto obbligato con Berlusconi, senza i cui voti non avrebbe potuto imporre né la nuova legge elettorale né questa riforma nemmeno al suo partito.A palazzo Chigi ieri erano in quattro. Il dibattito in commissione affari costituzionali è durato dieci giorni, non dieci mesi, e l’89 percento degli interventi ha bocciato la riforma proposta dal governo. Ma la riforma si deve fare: Matteo Renzi ha minacciato altrimenti che lascerà non la carica ma addirittura la politica. Senza la riforma ci sarebbe «il suicidio del sistema democratico», come da battagliero parere della teorica minoranza interna al Pd. Renzi, che ha firmato in prima persona il progetto di riforma costituzionale, trasferisce al governo anche il lavoro di mediazione che dovrebbe fare il parlamento. Il suo disegno di legge ha qualcosa di più degli ultimi due tentativi di organica revisione della Carta, il Titolo V del centrosinistra e la Costituzione di Lorenzago del centrodestra: entrambi portavano forte l’impronta del governo dell’epoca ed entrambi sono falliti. Mai era successo però che il presidente del Consiglio si trasformasse anche in relatore del testo di riforma, seguendo personalmente anche le modifiche. Accettando e respingendo emendamenti. Oggi lo farà davanti all’assemblea del gruppo Pd.
Dal Manifesto del 29 aprile 2014 di A.Fabozzi
da Francesco Mandarini | Apr 5, 2014
Sono uno di quei “professori” che blocca da trent’anni le riforme costituzionali? — sorride Stefano Rodotà dopo avere appreso il giudizio del ministro per le riforme costituzionali Maria Elena Boschi – Credo che la ministra mi attribuisca una sensazione di onnipotenza che non corrisponde alla realtà dei fatti. Mi sembra inverosimile il fatto che i «professori», da soli, siano riusciti a bloccare le riforme di Craxi, Cossiga, Berlusconi o D’Alema. Chiunque abbia una minima nozione di storia sa che le riforme della bicamerale furono fatte cadere da Berlusconi. E quando quest’ultimo fece la sua riforma, fu respinto da 16 milioni di italiani con un referendum. Mi piacerebbe molto avere avuto la possibilità di esercitare un potere così radicale, ma questo non corrisponde allo stato dei fatti e dimostra che una politica incapace di effettuare riforme oggi cerca di rifugiarsi in questi argomenti».
Anche la ministra Boschi sostiene che lei nel 1985 ha proposto una riforma del Senato. Ha cambiato idea?
A parte il fatto che non c’è nulla di male nel cambiare idea, ma questo riferimento è del tutto inappropriato perché Renzi e Boschi dovrebbero sapere – e purtroppo non lo sanno – che la proposta presentata 29 anni fa dalla Sinistra Indipendente, con me Gianni Ferrara e Franco Bassanini, andava in senso opposto alla loro. Allora ci opponevamo al tentativo di Craxi di concentrare i poteri del governo, esattamente come vuole fare oggi Renzi.
In cosa consisteva quella riforma?
Intendeva rafforzare il parlamento e i diritti e aveva uno spirito che si ritrova nella sentenza della Corte Costituzionale sul «Porcellum» che non garantisce la rappresentanza. Avanzammo quella proposta quando c’era una legge elettorale proporzionale, i deputati venivano scelti con il voto di preferenza, i regolamenti riconoscevano un potere alle minoranze parlamentari, non c’erano ghigliottine né limiti agli emendamenti. L’ostruzionismo della sinistra indipendente fece cadere il decreto Craxi sulla scala mobile, da quell’esperienza nacque anche la commissione d’inchiesta sulla P2. In quel clima si voleva concentrare il massimo potere in una sola camera, rafforzandolo però con la sua massima rappresentanza. Proponevamo di ridurre a 500 i parlamentari, ma per avere un contraltare al governo. Cosa che invece Renzi non vuole con l’Italicum. Renzi e Boschi non sanno di cosa parlano. Denotano ignoranza istituzionale. È un fatto grave, oltre che moralmente una cattiva azione.
Il governo, e non solo, sostiene che la sua proposta sul Senato permetterà di risparmiare 1 miliardo di euro ai cittadini. Sembra una proposta allettante.
La trovo una concessione all’antipolitica. Si tratta di un argomento che può portare in qualsiasi direzione. Più che alla logica, risponde alla peggiore ricerca del consenso. Basterebbe la riduzione dei parlamentari e delle retribuzioni per ottenere questo risparmio senza rovinare gli equilibri costituzionali.
Ritiene che i renziani stiano reagendo all’appello che lei ha firmato insieme a Gustavo Zagrebelsky e altri giuristi contro la «svolta autoritaria» del governo?
Abbiamo ritenuto di introdurre con determinazione queste argomentazioni nel dibattito pubblico. Ma non ci viene data risposta e si attaccano le persone. Ancora in tempi recenti ci sono state un’infinità di proposte da parte dei «professori» a dimostrazione che sono del tutto alieni dal difendere o dal conservare. Su Il Manifesto c’è stata la proposta di Villone o di Azzariti, ad esempio. Vorrei anche ricordare che avevamo indicato una soluzione con la manifestazione della «Via Maestra» nell’ottobre 2013. Sull’articolo 138 e la modifica voluta dal governo Letta, abbiamo proposto di modificare il numero dei parlamentari e riformare il Senato, ma in un modo assai lontano dalla proposta attuale. Chiedevamo al governo Letta di iniziare subito. Se fosse stato seguito questo consiglio avremmo già una riduzione dei parlamentari e un Senato come camera delle garanzie che è assolutamente necessaria.
Cosa le rispose Letta?
Mi invitò a Palazzo Chigi, ne parlammo. Il risultato di quella conversazione fu il referendum confermativo sulle proposte di riforma. Per quanto criticabile fosse Letta, non aveva la posizione di chi procede come un rullo compressore. Io non mi voglio fare schiacciare e per questo alzo la voce.
Da quello che dice ci troviamo in una situazione peggiore della «legge truffa» proposta da Scelba nel 1953…
Rispetto all’Italicum, non la si dovrebbe più chiamare in questo modo. Anzi, quella era un modello di garanzia. Pensi che per contrastarla si usava l’argomento che non si poteva mettere nelle mani di maggioranze costruite artificialmente il destino delle istituzioni. Aggiungo, a beneficio di chi ci insulta, che quella legge non passò perchè alcuni professori come Calamandrei, Jemolo, Codignola, Parri, si riunirono nel gruppo «Unità popolare» e insieme ad altri la bloccarono. Oggi, invece, si consegna il destino della democrazia nelle mani di maggioranze costruite artificialmente. Quanto alla riforma del Senato non ha nulla a che vedere con le camere rappresentative delle autonomie locali come in Germania. È più che altro un’esercitazione da studenti che crea pasticci infiniti.
Che peso ha il patto del Nazareno tra Renzi e Berlusconi?
Questo patto è stato una scelta infausta. Viola il programma elettorale sul quale il Pd ha ricevuto milioni di voti.
Ma rispetta le intenzioni di Renzi…
C’è una bella differenza tra un programma elettorale e le primarie di un partito, che sono consultazioni importanti ma sono del tutto private. Quello di Renzi è un altro modo per delegittimare il voto e la volontà dei cittadini. Per legittimare un’impresa così grave è stata fatta un’alleanza con Berlusconi, esclusa dal programma del Pd.
La vostra battaglia è dunque contro le geometrie variabili delle larghe intese?
Non pensavo di essere eletto a presidente della Repubblica, ma quella candidatura era per cercare una maggioranza diversa dalle larghe intese che sarebbero state disastrose. Il fallimento di quelle intese hanno provocato gli esiti attuali e hanno cancellato l’impegno di Renzi sul reddito ai lavoratori o sulle unioni civili.
Dopo gli appelli organizzerete una mobilitazione?
Vediamo. Non corriamo troppo. L’appello era un passo necessario e non saranno gli insulti a fermarci. Le reazioni cominciano ad emergere: ci sono i 22 senatori del Pd che hanno presentato un’eccellente proposta. Non voglio prendermi meriti, ma credo che esprimano un minimo di ragionevolezza.
intervista al Manifesto del 5 aprile 2014