Centralismo democratico

Sarà anche una frase fatta ma qualche volta è inevitabile ricordare che la storia tende a ripetersi trasformandosi a volte in farsa. Dure e ripetute dichiarazioni di vari esponenti del PD: Renzi ha vinto le primarie, è segretario del partito e presidente del consiglio. Lui ha il diritto dovere di decidere. Ciò che Lui decide lo decide il partito e quindi tutti devono obbedire. Ricorda qualcuno le regole delle democrazie popolari del blocco sovietico? Vigeva il meccanismo del centralismo democratico. Il partito sopra tutto. Che cos’era il centralismo democratico? Da Wikipedia: L’opera Che fare? del 1902 (di Lenin) è spesso vista come il testo fondante del centralismo democratico. A quel tempo, il centralismo democratico era generalmente visto come un insieme di principi per l’organizzazione di un partito rivoluzionario dei lavoratori. Il modello di Lenin per questo partito, che secondo lui doveva seguire i principi del centralismo democratico, era il Partito Socialdemocratico Tedesco.
La dottrina del centralismo democratico fu uno dei motivi dei contrasti fra bolscevichi e menscevichi. I menscevichi propugnavano una più lasca disciplina di partito all’interno del Partito Operaio Socialdemocratico Russo nel 1903, come fece Lev Trockij, negli scritti I nostri doveri politici, fino a quando Trockij si unì ai bolscevichi nel 1917.
Il centralismo democratico fu anche descritto nella Costituzione sovietica del 1977 come un principio per organizzare lo stato: “Lo stato sovietico è organizzato e funziona sul principio del centralismo democratico, cioè il carattere elettivo di tutti gli organi dell’autorità statale dal più basso al più alto, la loro responsabilità verso il popolo, e l’obbligo degli organi inferiori di sottostare alle decisioni degli organi superiori. Il centralismo democratico unisce l’autorità centrale con l’attività creativa e l’iniziativa locale e con la responsabilità di ogni organo e funzionario sul lavoro affidato a loro”. Ascoltando la ministra Boschi rimproverare coloro che prospettano soluzioni diverse di riforma del Senato da quelle dell’accoppiata Renzi-Berlusconi, vengono spontanei due suggerimenti. Il primo: rendere esplicita la volontà di trasformare il PD in un partito leninista. Il secondo consiglio visto che bisogna, per il bene del Paese, “riformare” in fretta la Costituzione, per non perdere ulteriore tempo, adottiamo la Costituzione sovietica del 1977. Sarebbe coerente con le ripetute affermazioni renziane attorno alla rivoluzione in atto.

 

Costituzione a Palazzo Chigi

Fun­ziona così. Il pre­si­dente del Con­si­glio con­voca (di buon mat­tino) la pre­si­dente della com­mis­sione affari costi­tu­zio­nali, che in quanto rela­trice ha in mano il pro­getto di riforma della Costi­tu­zione, e con lei il capo­gruppo del Pd che si sup­pone o si spera con­trolli le inten­zioni di voto di tutti i suoi sena­tori. La riu­nione serve a tro­vare un accordo, un com­pro­messo sulla riforma del bica­me­ra­li­smo. È una riu­nione in fami­glia. C’è anche la mini­stra Boschi, sono tutti di un solo par­tito (il Pd) ma hanno sul tavolo la legge che modi­fica 44 arti­coli, quasi un terzo, della Costi­tu­zione. Il pre­si­dente del Con­si­glio è quello che ha detto che le riforme si devono fare con tutti. L’ha detto per difen­dere il suo patto obbli­gato con Ber­lu­sconi, senza i cui voti non avrebbe potuto imporre né la nuova legge elet­to­rale né que­sta riforma nem­meno al suo partito.A palazzo Chigi ieri erano in quat­tro. Il dibat­tito in com­mis­sione affari costi­tu­zio­nali è durato dieci giorni, non dieci mesi, e l’89 per­cento degli inter­venti ha boc­ciato la riforma pro­po­sta dal governo. Ma la riforma si deve fare: Mat­teo Renzi ha minac­ciato altri­menti che lascerà non la carica ma addi­rit­tura la poli­tica. Senza la riforma ci sarebbe «il sui­ci­dio del sistema demo­cra­tico», come da bat­ta­gliero parere della teo­rica mino­ranza interna al Pd. Renzi, che ha fir­mato in prima per­sona il pro­getto di riforma costi­tu­zio­nale, tra­sfe­ri­sce al governo anche il lavoro di media­zione che dovrebbe fare il par­la­mento. Il suo dise­gno di legge ha qual­cosa di più degli ultimi due ten­ta­tivi di orga­nica revi­sione della Carta, il Titolo V del cen­tro­si­ni­stra e la Costi­tu­zione di Loren­zago del cen­tro­de­stra: entrambi por­ta­vano forte l’impronta del governo dell’epoca ed entrambi sono fal­liti. Mai era suc­cesso però che il pre­si­dente del Con­si­glio si tra­sfor­masse anche in rela­tore del testo di riforma, seguendo per­so­nal­mente anche le modi­fi­che. Accet­tando e respin­gendo emen­da­menti. Oggi lo farà davanti all’assemblea del gruppo Pd.

Dal Manifesto del 29 aprile 2014 di A.Fabozzi

Non sanno quello che fanno

Sono uno di quei “pro­fes­sori” che blocca da trent’anni le riforme costi­tu­zio­nali? — sor­ride Ste­fano Rodotà dopo avere appreso il giu­di­zio del mini­stro per le riforme costi­tu­zio­nali Maria Elena Boschi – Credo che la mini­stra mi attri­bui­sca una sen­sa­zione di onni­po­tenza che non cor­ri­sponde alla realtà dei fatti. Mi sem­bra inve­ro­si­mile il fatto che i «pro­fes­sori», da soli, siano riu­sciti a bloc­care le riforme di Craxi, Cos­siga, Ber­lu­sconi o D’Alema. Chiun­que abbia una minima nozione di sto­ria sa che le riforme della bica­me­rale furono fatte cadere da Ber­lu­sconi. E quando quest’ultimo fece la sua riforma, fu respinto da 16 milioni di ita­liani con un refe­ren­dum. Mi pia­ce­rebbe molto avere avuto la pos­si­bi­lità di eser­ci­tare un potere così radi­cale, ma que­sto non cor­ri­sponde allo stato dei fatti e dimo­stra che una poli­tica inca­pace di effet­tuare riforme oggi cerca di rifu­giarsi in que­sti argomenti».

Anche la mini­stra Boschi sostiene che lei nel 1985 ha pro­po­sto una riforma del Senato. Ha cam­biato idea?

A parte il fatto che non c’è nulla di male nel cam­biare idea, ma que­sto rife­ri­mento è del tutto inap­pro­priato per­ché Renzi e Boschi dovreb­bero sapere – e pur­troppo non lo sanno – che la pro­po­sta pre­sen­tata 29 anni fa dalla Sini­stra Indi­pen­dente, con me Gianni Fer­rara e Franco Bas­sa­nini, andava in senso oppo­sto alla loro. Allora ci oppo­ne­vamo al ten­ta­tivo di Craxi di con­cen­trare i poteri del governo, esat­ta­mente come vuole fare oggi Renzi.

In cosa con­si­steva quella riforma?

Inten­deva raf­for­zare il par­la­mento e i diritti e aveva uno spi­rito che si ritrova nella sen­tenza della Corte Costi­tu­zio­nale sul «Por­cel­lum» che non garan­ti­sce la rap­pre­sen­tanza. Avan­zammo quella pro­po­sta quando c’era una legge elet­to­rale pro­por­zio­nale, i depu­tati veni­vano scelti con il voto di pre­fe­renza, i rego­la­menti rico­no­sce­vano un potere alle mino­ranze par­la­men­tari, non c’erano ghi­gliot­tine né limiti agli emen­da­menti. L’ostruzionismo della sini­stra indi­pen­dente fece cadere il decreto Craxi sulla scala mobile, da quell’esperienza nac­que anche la com­mis­sione d’inchiesta sulla P2. In quel clima si voleva con­cen­trare il mas­simo potere in una sola camera, raf­for­zan­dolo però con la sua mas­sima rap­pre­sen­tanza. Pro­po­ne­vamo di ridurre a 500 i par­la­men­tari, ma per avere un con­tral­tare al governo. Cosa che invece Renzi non vuole con l’Italicum. Renzi e Boschi non sanno di cosa par­lano. Deno­tano igno­ranza isti­tu­zio­nale. È un fatto grave, oltre che moral­mente una cat­tiva azione.

Il governo, e non solo, sostiene che la sua pro­po­sta sul Senato per­met­terà di rispar­miare 1 miliardo di euro ai cit­ta­dini. Sem­bra una pro­po­sta allettante.

La trovo una con­ces­sione all’antipolitica. Si tratta di un argo­mento che può por­tare in qual­siasi dire­zione. Più che alla logica, risponde alla peg­giore ricerca del con­senso. Baste­rebbe la ridu­zione dei par­la­men­tari e delle retri­bu­zioni per otte­nere que­sto rispar­mio senza rovi­nare gli equi­li­bri costituzionali.

Ritiene che i ren­ziani stiano rea­gendo all’appello che lei ha fir­mato insieme a Gustavo Zagre­bel­sky e altri giu­ri­sti con­tro la «svolta auto­ri­ta­ria» del governo?

Abbiamo rite­nuto di intro­durre con deter­mi­na­zione que­ste argo­men­ta­zioni nel dibat­tito pub­blico. Ma non ci viene data rispo­sta e si attac­cano le per­sone. Ancora in tempi recenti ci sono state un’infinità di pro­po­ste da parte dei «pro­fes­sori» a dimo­stra­zione che sono del tutto alieni dal difen­dere o dal con­ser­vare. Su Il Mani­fe­sto c’è stata la pro­po­sta di Vil­lone o di Azza­riti, ad esem­pio. Vor­rei anche ricor­dare che ave­vamo indi­cato una solu­zione con la mani­fe­sta­zione della «Via Mae­stra» nell’ottobre 2013. Sull’articolo 138 e la modi­fica voluta dal governo Letta, abbiamo pro­po­sto di modi­fi­care il numero dei par­la­men­tari e rifor­mare il Senato, ma in un modo assai lon­tano dalla pro­po­sta attuale. Chie­de­vamo al governo Letta di ini­ziare subito. Se fosse stato seguito que­sto con­si­glio avremmo già una ridu­zione dei par­la­men­tari e un Senato come camera delle garan­zie che è asso­lu­ta­mente necessaria.

Cosa le rispose Letta?

Mi invitò a Palazzo Chigi, ne par­lammo. Il risul­tato di quella con­ver­sa­zione fu il refe­ren­dum con­fer­ma­tivo sulle pro­po­ste di riforma. Per quanto cri­ti­ca­bile fosse Letta, non aveva la posi­zione di chi pro­cede come un rullo com­pres­sore. Io non mi voglio fare schiac­ciare e per que­sto alzo la voce.

Da quello che dice ci tro­viamo in una situa­zione peg­giore della «legge truffa» pro­po­sta da Scelba nel 1953…

Rispetto all’Italicum, non la si dovrebbe più chia­mare in que­sto modo. Anzi, quella era un modello di garan­zia. Pensi che per con­tra­starla si usava l’argomento che non si poteva met­tere nelle mani di mag­gio­ranze costruite arti­fi­cial­mente il destino delle isti­tu­zioni. Aggiungo, a bene­fi­cio di chi ci insulta, che quella legge non passò per­chè alcuni pro­fes­sori come Cala­man­drei, Jemolo, Codi­gnola, Parri, si riu­ni­rono nel gruppo «Unità popo­lare» e insieme ad altri la bloc­ca­rono. Oggi, invece, si con­se­gna il destino della demo­cra­zia nelle mani di mag­gio­ranze costruite arti­fi­cial­mente. Quanto alla riforma del Senato non ha nulla a che vedere con le camere rap­pre­sen­ta­tive delle auto­no­mie locali come in Ger­ma­nia. È più che altro un’esercitazione da stu­denti che crea pasticci infiniti.

Che peso ha il patto del Naza­reno tra Renzi e Berlusconi?

Que­sto patto è stato una scelta infau­sta. Viola il pro­gramma elet­to­rale sul quale il Pd ha rice­vuto milioni di voti.

Ma rispetta le inten­zioni di Renzi…

C’è una bella dif­fe­renza tra un pro­gramma elet­to­rale e le pri­ma­rie di un par­tito, che sono con­sul­ta­zioni impor­tanti ma sono del tutto pri­vate. Quello di Renzi è un altro modo per dele­git­ti­mare il voto e la volontà dei cit­ta­dini. Per legit­ti­mare un’impresa così grave è stata fatta un’alleanza con Ber­lu­sconi, esclusa dal pro­gramma del Pd.

La vostra bat­ta­glia è dun­que con­tro le geo­me­trie varia­bili delle lar­ghe intese?

Non pen­savo di essere eletto a pre­si­dente della Repub­blica, ma quella can­di­da­tura era per cer­care una mag­gio­ranza diversa dalle lar­ghe intese che sareb­bero state disa­strose. Il fal­li­mento di quelle intese hanno pro­vo­cato gli esiti attuali e hanno can­cel­lato l’impegno di Renzi sul red­dito ai lavo­ra­tori o sulle unioni civili.

Dopo gli appelli orga­niz­ze­rete una mobilitazione?

Vediamo. Non cor­riamo troppo. L’appello era un passo neces­sa­rio e non saranno gli insulti a fer­marci. Le rea­zioni comin­ciano ad emer­gere: ci sono i 22 sena­tori del Pd che hanno pre­sen­tato un’eccellente pro­po­sta. Non voglio pren­dermi meriti, ma credo che espri­mano un minimo di ragionevolezza.

intervista al Manifesto del 5 aprile 2014

AUGURI A PIETRO INGRAO

Domani, 30 marzo, Pietro Ingrao compie 99 anni. Questo è il messaggio di auguri del presidente del CRS Mario Tronti.

99 anni. La quercia Ingrao sfida le intemperie del tempo. I venti della storia, o meglio della cronaca, spirano in senso contrario a tutto quanto Pietro Ingrao ha depositato nel suo pensare e nel suo agire. Pensiero e azione che si riscoprono andando a riprendere il suo passato che non passa: come documentano gli scritti e gli atti, che riemergono dall’Archivio Ingrao, gelosamente custodito dalla Fondazione Crs. I testi delle sue Carte, tematicamente raccolti dal prezioso lavoro intrapreso da Maria Luisa Boccia e da Alberto Olivetti, tornano a circolare, a interrogare, a far discutere. Tornano a ricordare che da quella postazione, e su quella strada, un’altra storia sarebbe stata possibile per questo Paese e per l’Europa.
La quercia Ingrao tuttora ci protegge. E ci rassicura che quelle solide radici niente e nessuno potrà mai sradicare. Esse affondano in una storia più grande, lunga, contrastata e gloriosa, cha va al di là di ognuno di noi, che non è finita, è forse solo interrotta. Riprendere quel filo, riannodarlo alle nuove generazioni, riadattarlo ai tempi nuovi, ai nuovi bisogni, a nuovi soggetti, questo è il compito che il pensiero vissuto di Pietro ci lascia. La sua lunga vita di combattente non domato è un evento simbolico da prendere come modello. L’idea comunista è dura a morire. Questo ci dicono questi novantanove anni. Non sappiamo come e non sappiamo quando: ma l’esistenza di Pietro afferma che, con questa idea, ci dovranno ancora fare i conti i padroni del mondo. Malgrado tutti gli smemorati che sono corsi al loro seguito.

Mario Tronti

DUE INGENUE DOMANDE

La sto­ria eco­no­mica (dopo la crisi del ’29), e la teo­ria eco­no­mica moderna (cioè la Teo­ria gene­rale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta di J.M. Key­nes, del ’36), mostrano e dimo­strano che la vec­chia teo­ria eco­no­mica (la teo­ria neo­clas­sica dei primi anni del Nove­cento, ma ancora oggi ege­mone) non for­ni­sce ricette effi­caci per i nostri pro­blemi. Il livello dell’occupazione non si deter­mina sul mer­cato del lavoro: il mer­cato del lavoro non è come il mer­cato del pesce.

Il prezzo e la quan­tità del pesce ven­duto e com­pe­rato è deter­mi­nato dall’incontro tra domanda e offerta, dove è bene che non vi siano impe­di­menti arti­fi­ciali; men­tre una mag­giore “fles­si­bi­lità” del mer­cato del lavoro, che non è una merce come le altre, si tra­duce in più bassi salari e dun­que in un aumento dei pro­fitti e delle ren­dite, ma non anche in mag­giore occupazione.

Tut­ta­via nella pre­messa al decreto sul Jobs Act (chi sa per­ché in ame­ri­cano) si dice: «Rite­nuta la straor­di­na­ria neces­sità ed urgenza di sem­pli­fi­care le moda­lità attra­verso cui viene favo­rito l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro ecc.».

Per­ché non si stu­dia un po’ di più?

Con­di­zione neces­sa­ria affin­ché cre­sca l’occupazione (con­di­zione sì neces­sa­ria ma oggi non anche suf­fi­ciente) è invece che cre­sca la pro­du­zione. Su que­sto punto c’è ormai ampio con­senso, anche se da più di dieci anni si era già avver­tito che il pro­blema dell’economia ita­liana è un pro­blema di cre­scita; però si indica sol­tanto nei vin­coli euro­pei l’impedimento a una mag­giore spesa pub­blica; e si invo­cano prov­ve­di­menti quali la bene­fi­cenza e i tagli delle pre­bende come pos­si­bile solu­zione. Bene­fi­cenza e tagli sacro­santi, ma con­diti con la dema­go­gia della soli­da­rietà e dell’equità.

Ini­qua è invece la distri­bu­zione del red­dito oggi in Ita­lia, e que­sta è una delle cause della crisi. Tut­ta­via l’aliquota mar­gi­nale mas­sima dell’Irpef è oggi pari al 43% per i red­diti oltre i 75 mila euro, men­tre è noto a tutti che molti e di molto sono i red­diti più ele­vati: il 5% dei con­tri­buenti più ric­chi con­cen­tra il 22,7% del red­dito com­ples­sivo; e tut­ta­via l’elusione e l’evasione fiscale non ven­gono com­bat­tute con gli stru­menti che in realtà sono disponibili.

Secondo il sobrio arti­colo 53 della Costi­tu­zione: «Tutti sono tenuti a con­cor­rere alle spese pub­bli­che in ragione della loro capa­cità con­tri­bu­tiva. Il sistema tri­bu­ta­rio è infor­mato a cri­teri di progressività».

Per­ché non si rispetta la Costituzione?

dal Manifesto  Giorgio LUNGHINI

L’ALTRA EUROPA CON TSIPRAS: UN’OCCASIONE DA NON PERDERE.

Le prossime elezioni europee saranno un momento importante per decidere quale tipo di Europa vogliamo. Si scontreranno infatti due concezioni entrambe inaccettabili. Da un lato quella fondata sull’austerità e sul rigore finanziario che ha dominato la politica europea in tempo di crisi, determinando una grave recessione e il drammatico impoverimento di interi Paesi e di ampi settori della società. E’ stata una politica miope, asservita alle esigenze dei mercati finanziari, quegli stessi che sono stati all’origine della crisi, che ha prodotto crescenti disuguaglianze sociali, una disoccupazione ormai insostenibile (che colpisce 27 milioni di persone), e ha assestato duri colpi al Welfare europeo e alle istituzioni democratiche della stessa Unione Europea e dei Paesi sottoposti al controllo della Troika (Banca centrale europea, Fondo monetario internazionale, Commissione europea). D’altro lato vi è la concezione antieuropeista di chi propone l’uscita dall’euro, il superamento dell’Unione, il ritorno ad un nazionalismo chiuso ed egoistico. Si tratta di una posizione conservatrice e di destra, che è stata alimentata dalla politica di austerità, ma che non è in grado di dare nessuna risposta seria per uscire dalla crisi e anzi propone soluzioni demagogiche che aggraverebbero la situazione di alcuni Paesi, compresa l’Italia.
Occorre sfuggire all’alternativa tra due posizioni entrambe inaccettabili e che convergono nel mettere in crisi l’idea stessa di un’Europa unita. Occorre tornare all’idea dei padri fondatori che immaginavano un’Europa sociale e democratica, fondata sulla garanzia dei diritti civili e sociali, la pari dignità, la protezione delle fasce più deboli, la valorizzazione di un patrimonio artistico e culturale che non ha eguali al mondo. Alle prossime elezioni questo è possibile perché fra le due concezioni distruttive dell’Europa esiste una terza via, rappresentata dalla lista “L’ALTRA EUROPA CON TSIPRAS”, nata da un appello di intellettuali europeisti, che propone come candidato alla presidenza della Commissione europea Alexis Tsipras, il giovane leader del partito Syriza che i sondaggi danno oggi come primo partito della Grecia. Il programma lanciato da Tsipras propone un’Europa più solidale, che aiuti i Paesi in maggiore difficoltà e le fasce sociali più colpite dalla crisi, l’abbandono della austerità per sostenere una politica di rilancio e di investimenti, rispettosa dell’ambiente e della dignità delle persone, una Unione più democratica che dia maggiore forza al Parlamento europeo e alla volontà politica manifestata dai cittadini europei. E’ questa una prospettiva che non accetta subalternità e compromessi al ribasso come quelli che hanno caratterizzato negli anni della crisi la politica europea di molti partiti socialdemocratici e in Italia del PD. Il successo de “L’altra Europa” rappresenta l’unica via per proporre una politica diversa e innovativa con la quale i partiti socialisti e democratico-progressisti siano costretti a misurarsi. Per questa ragione invitiamo quanti sono critici verso l’attuale politica europea di austerità e di recessione, ma non vogliono ricadere nelle spire di quel nazionalismo statalistico che ha prodotto due guerre mondiali, di votare alle prossime elezioni europee per “L’ALTRA EUROPA CON TSIPRAS”.