da Francesco Mandarini | Mag 8, 2014
Sarà anche una frase fatta ma qualche volta è inevitabile ricordare che la storia tende a ripetersi trasformandosi a volte in farsa. Dure e ripetute dichiarazioni di vari esponenti del PD: Renzi ha vinto le primarie, è segretario del partito e presidente del consiglio. Lui ha il diritto dovere di decidere. Ciò che Lui decide lo decide il partito e quindi tutti devono obbedire. Ricorda qualcuno le regole delle democrazie popolari del blocco sovietico? Vigeva il meccanismo del centralismo democratico. Il partito sopra tutto. Che cos’era il centralismo democratico? Da Wikipedia: L’opera Che fare? del 1902 (di Lenin) è spesso vista come il testo fondante del centralismo democratico. A quel tempo, il centralismo democratico era generalmente visto come un insieme di principi per l’organizzazione di un partito rivoluzionario dei lavoratori. Il modello di Lenin per questo partito, che secondo lui doveva seguire i principi del centralismo democratico, era il Partito Socialdemocratico Tedesco.
La dottrina del centralismo democratico fu uno dei motivi dei contrasti fra bolscevichi e menscevichi. I menscevichi propugnavano una più lasca disciplina di partito all’interno del Partito Operaio Socialdemocratico Russo nel 1903, come fece Lev Trockij, negli scritti I nostri doveri politici, fino a quando Trockij si unì ai bolscevichi nel 1917.
Il centralismo democratico fu anche descritto nella Costituzione sovietica del 1977 come un principio per organizzare lo stato: “Lo stato sovietico è organizzato e funziona sul principio del centralismo democratico, cioè il carattere elettivo di tutti gli organi dell’autorità statale dal più basso al più alto, la loro responsabilità verso il popolo, e l’obbligo degli organi inferiori di sottostare alle decisioni degli organi superiori. Il centralismo democratico unisce l’autorità centrale con l’attività creativa e l’iniziativa locale e con la responsabilità di ogni organo e funzionario sul lavoro affidato a loro”. Ascoltando la ministra Boschi rimproverare coloro che prospettano soluzioni diverse di riforma del Senato da quelle dell’accoppiata Renzi-Berlusconi, vengono spontanei due suggerimenti. Il primo: rendere esplicita la volontà di trasformare il PD in un partito leninista. Il secondo consiglio visto che bisogna, per il bene del Paese, “riformare” in fretta la Costituzione, per non perdere ulteriore tempo, adottiamo la Costituzione sovietica del 1977. Sarebbe coerente con le ripetute affermazioni renziane attorno alla rivoluzione in atto.
da Francesco Mandarini | Apr 29, 2014
Funziona così. Il presidente del Consiglio convoca (di buon mattino) la presidente della commissione affari costituzionali, che in quanto relatrice ha in mano il progetto di riforma della Costituzione, e con lei il capogruppo del Pd che si suppone o si spera controlli le intenzioni di voto di tutti i suoi senatori. La riunione serve a trovare un accordo, un compromesso sulla riforma del bicameralismo. È una riunione in famiglia. C’è anche la ministra Boschi, sono tutti di un solo partito (il Pd) ma hanno sul tavolo la legge che modifica 44 articoli, quasi un terzo, della Costituzione. Il presidente del Consiglio è quello che ha detto che le riforme si devono fare con tutti. L’ha detto per difendere il suo patto obbligato con Berlusconi, senza i cui voti non avrebbe potuto imporre né la nuova legge elettorale né questa riforma nemmeno al suo partito.A palazzo Chigi ieri erano in quattro. Il dibattito in commissione affari costituzionali è durato dieci giorni, non dieci mesi, e l’89 percento degli interventi ha bocciato la riforma proposta dal governo. Ma la riforma si deve fare: Matteo Renzi ha minacciato altrimenti che lascerà non la carica ma addirittura la politica. Senza la riforma ci sarebbe «il suicidio del sistema democratico», come da battagliero parere della teorica minoranza interna al Pd. Renzi, che ha firmato in prima persona il progetto di riforma costituzionale, trasferisce al governo anche il lavoro di mediazione che dovrebbe fare il parlamento. Il suo disegno di legge ha qualcosa di più degli ultimi due tentativi di organica revisione della Carta, il Titolo V del centrosinistra e la Costituzione di Lorenzago del centrodestra: entrambi portavano forte l’impronta del governo dell’epoca ed entrambi sono falliti. Mai era successo però che il presidente del Consiglio si trasformasse anche in relatore del testo di riforma, seguendo personalmente anche le modifiche. Accettando e respingendo emendamenti. Oggi lo farà davanti all’assemblea del gruppo Pd.
Dal Manifesto del 29 aprile 2014 di A.Fabozzi
da Francesco Mandarini | Apr 5, 2014
Sono uno di quei “professori” che blocca da trent’anni le riforme costituzionali? — sorride Stefano Rodotà dopo avere appreso il giudizio del ministro per le riforme costituzionali Maria Elena Boschi – Credo che la ministra mi attribuisca una sensazione di onnipotenza che non corrisponde alla realtà dei fatti. Mi sembra inverosimile il fatto che i «professori», da soli, siano riusciti a bloccare le riforme di Craxi, Cossiga, Berlusconi o D’Alema. Chiunque abbia una minima nozione di storia sa che le riforme della bicamerale furono fatte cadere da Berlusconi. E quando quest’ultimo fece la sua riforma, fu respinto da 16 milioni di italiani con un referendum. Mi piacerebbe molto avere avuto la possibilità di esercitare un potere così radicale, ma questo non corrisponde allo stato dei fatti e dimostra che una politica incapace di effettuare riforme oggi cerca di rifugiarsi in questi argomenti».
Anche la ministra Boschi sostiene che lei nel 1985 ha proposto una riforma del Senato. Ha cambiato idea?
A parte il fatto che non c’è nulla di male nel cambiare idea, ma questo riferimento è del tutto inappropriato perché Renzi e Boschi dovrebbero sapere – e purtroppo non lo sanno – che la proposta presentata 29 anni fa dalla Sinistra Indipendente, con me Gianni Ferrara e Franco Bassanini, andava in senso opposto alla loro. Allora ci opponevamo al tentativo di Craxi di concentrare i poteri del governo, esattamente come vuole fare oggi Renzi.
In cosa consisteva quella riforma?
Intendeva rafforzare il parlamento e i diritti e aveva uno spirito che si ritrova nella sentenza della Corte Costituzionale sul «Porcellum» che non garantisce la rappresentanza. Avanzammo quella proposta quando c’era una legge elettorale proporzionale, i deputati venivano scelti con il voto di preferenza, i regolamenti riconoscevano un potere alle minoranze parlamentari, non c’erano ghigliottine né limiti agli emendamenti. L’ostruzionismo della sinistra indipendente fece cadere il decreto Craxi sulla scala mobile, da quell’esperienza nacque anche la commissione d’inchiesta sulla P2. In quel clima si voleva concentrare il massimo potere in una sola camera, rafforzandolo però con la sua massima rappresentanza. Proponevamo di ridurre a 500 i parlamentari, ma per avere un contraltare al governo. Cosa che invece Renzi non vuole con l’Italicum. Renzi e Boschi non sanno di cosa parlano. Denotano ignoranza istituzionale. È un fatto grave, oltre che moralmente una cattiva azione.
Il governo, e non solo, sostiene che la sua proposta sul Senato permetterà di risparmiare 1 miliardo di euro ai cittadini. Sembra una proposta allettante.
La trovo una concessione all’antipolitica. Si tratta di un argomento che può portare in qualsiasi direzione. Più che alla logica, risponde alla peggiore ricerca del consenso. Basterebbe la riduzione dei parlamentari e delle retribuzioni per ottenere questo risparmio senza rovinare gli equilibri costituzionali.
Ritiene che i renziani stiano reagendo all’appello che lei ha firmato insieme a Gustavo Zagrebelsky e altri giuristi contro la «svolta autoritaria» del governo?
Abbiamo ritenuto di introdurre con determinazione queste argomentazioni nel dibattito pubblico. Ma non ci viene data risposta e si attaccano le persone. Ancora in tempi recenti ci sono state un’infinità di proposte da parte dei «professori» a dimostrazione che sono del tutto alieni dal difendere o dal conservare. Su Il Manifesto c’è stata la proposta di Villone o di Azzariti, ad esempio. Vorrei anche ricordare che avevamo indicato una soluzione con la manifestazione della «Via Maestra» nell’ottobre 2013. Sull’articolo 138 e la modifica voluta dal governo Letta, abbiamo proposto di modificare il numero dei parlamentari e riformare il Senato, ma in un modo assai lontano dalla proposta attuale. Chiedevamo al governo Letta di iniziare subito. Se fosse stato seguito questo consiglio avremmo già una riduzione dei parlamentari e un Senato come camera delle garanzie che è assolutamente necessaria.
Cosa le rispose Letta?
Mi invitò a Palazzo Chigi, ne parlammo. Il risultato di quella conversazione fu il referendum confermativo sulle proposte di riforma. Per quanto criticabile fosse Letta, non aveva la posizione di chi procede come un rullo compressore. Io non mi voglio fare schiacciare e per questo alzo la voce.
Da quello che dice ci troviamo in una situazione peggiore della «legge truffa» proposta da Scelba nel 1953…
Rispetto all’Italicum, non la si dovrebbe più chiamare in questo modo. Anzi, quella era un modello di garanzia. Pensi che per contrastarla si usava l’argomento che non si poteva mettere nelle mani di maggioranze costruite artificialmente il destino delle istituzioni. Aggiungo, a beneficio di chi ci insulta, che quella legge non passò perchè alcuni professori come Calamandrei, Jemolo, Codignola, Parri, si riunirono nel gruppo «Unità popolare» e insieme ad altri la bloccarono. Oggi, invece, si consegna il destino della democrazia nelle mani di maggioranze costruite artificialmente. Quanto alla riforma del Senato non ha nulla a che vedere con le camere rappresentative delle autonomie locali come in Germania. È più che altro un’esercitazione da studenti che crea pasticci infiniti.
Che peso ha il patto del Nazareno tra Renzi e Berlusconi?
Questo patto è stato una scelta infausta. Viola il programma elettorale sul quale il Pd ha ricevuto milioni di voti.
Ma rispetta le intenzioni di Renzi…
C’è una bella differenza tra un programma elettorale e le primarie di un partito, che sono consultazioni importanti ma sono del tutto private. Quello di Renzi è un altro modo per delegittimare il voto e la volontà dei cittadini. Per legittimare un’impresa così grave è stata fatta un’alleanza con Berlusconi, esclusa dal programma del Pd.
La vostra battaglia è dunque contro le geometrie variabili delle larghe intese?
Non pensavo di essere eletto a presidente della Repubblica, ma quella candidatura era per cercare una maggioranza diversa dalle larghe intese che sarebbero state disastrose. Il fallimento di quelle intese hanno provocato gli esiti attuali e hanno cancellato l’impegno di Renzi sul reddito ai lavoratori o sulle unioni civili.
Dopo gli appelli organizzerete una mobilitazione?
Vediamo. Non corriamo troppo. L’appello era un passo necessario e non saranno gli insulti a fermarci. Le reazioni cominciano ad emergere: ci sono i 22 senatori del Pd che hanno presentato un’eccellente proposta. Non voglio prendermi meriti, ma credo che esprimano un minimo di ragionevolezza.
intervista al Manifesto del 5 aprile 2014
da Francesco Mandarini | Mar 29, 2014
Domani, 30 marzo, Pietro Ingrao compie 99 anni. Questo è il messaggio di auguri del presidente del CRS Mario Tronti.
99 anni. La quercia Ingrao sfida le intemperie del tempo. I venti della storia, o meglio della cronaca, spirano in senso contrario a tutto quanto Pietro Ingrao ha depositato nel suo pensare e nel suo agire. Pensiero e azione che si riscoprono andando a riprendere il suo passato che non passa: come documentano gli scritti e gli atti, che riemergono dall’Archivio Ingrao, gelosamente custodito dalla Fondazione Crs. I testi delle sue Carte, tematicamente raccolti dal prezioso lavoro intrapreso da Maria Luisa Boccia e da Alberto Olivetti, tornano a circolare, a interrogare, a far discutere. Tornano a ricordare che da quella postazione, e su quella strada, un’altra storia sarebbe stata possibile per questo Paese e per l’Europa.
La quercia Ingrao tuttora ci protegge. E ci rassicura che quelle solide radici niente e nessuno potrà mai sradicare. Esse affondano in una storia più grande, lunga, contrastata e gloriosa, cha va al di là di ognuno di noi, che non è finita, è forse solo interrotta. Riprendere quel filo, riannodarlo alle nuove generazioni, riadattarlo ai tempi nuovi, ai nuovi bisogni, a nuovi soggetti, questo è il compito che il pensiero vissuto di Pietro ci lascia. La sua lunga vita di combattente non domato è un evento simbolico da prendere come modello. L’idea comunista è dura a morire. Questo ci dicono questi novantanove anni. Non sappiamo come e non sappiamo quando: ma l’esistenza di Pietro afferma che, con questa idea, ci dovranno ancora fare i conti i padroni del mondo. Malgrado tutti gli smemorati che sono corsi al loro seguito.
Mario Tronti
da Francesco Mandarini | Mar 29, 2014
La storia economica (dopo la crisi del ’29), e la teoria economica moderna (cioè la Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta di J.M. Keynes, del ’36), mostrano e dimostrano che la vecchia teoria economica (la teoria neoclassica dei primi anni del Novecento, ma ancora oggi egemone) non fornisce ricette efficaci per i nostri problemi. Il livello dell’occupazione non si determina sul mercato del lavoro: il mercato del lavoro non è come il mercato del pesce.
Il prezzo e la quantità del pesce venduto e comperato è determinato dall’incontro tra domanda e offerta, dove è bene che non vi siano impedimenti artificiali; mentre una maggiore “flessibilità” del mercato del lavoro, che non è una merce come le altre, si traduce in più bassi salari e dunque in un aumento dei profitti e delle rendite, ma non anche in maggiore occupazione.
Tuttavia nella premessa al decreto sul Jobs Act (chi sa perché in americano) si dice: «Ritenuta la straordinaria necessità ed urgenza di semplificare le modalità attraverso cui viene favorito l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro ecc.».
Perché non si studia un po’ di più?
Condizione necessaria affinché cresca l’occupazione (condizione sì necessaria ma oggi non anche sufficiente) è invece che cresca la produzione. Su questo punto c’è ormai ampio consenso, anche se da più di dieci anni si era già avvertito che il problema dell’economia italiana è un problema di crescita; però si indica soltanto nei vincoli europei l’impedimento a una maggiore spesa pubblica; e si invocano provvedimenti quali la beneficenza e i tagli delle prebende come possibile soluzione. Beneficenza e tagli sacrosanti, ma conditi con la demagogia della solidarietà e dell’equità.
Iniqua è invece la distribuzione del reddito oggi in Italia, e questa è una delle cause della crisi. Tuttavia l’aliquota marginale massima dell’Irpef è oggi pari al 43% per i redditi oltre i 75 mila euro, mentre è noto a tutti che molti e di molto sono i redditi più elevati: il 5% dei contribuenti più ricchi concentra il 22,7% del reddito complessivo; e tuttavia l’elusione e l’evasione fiscale non vengono combattute con gli strumenti che in realtà sono disponibili.
Secondo il sobrio articolo 53 della Costituzione: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività».
Perché non si rispetta la Costituzione?
dal Manifesto Giorgio LUNGHINI
da Francesco Mandarini | Mar 26, 2014
Le prossime elezioni europee saranno un momento importante per decidere quale tipo di Europa vogliamo. Si scontreranno infatti due concezioni entrambe inaccettabili. Da un lato quella fondata sull’austerità e sul rigore finanziario che ha dominato la politica europea in tempo di crisi, determinando una grave recessione e il drammatico impoverimento di interi Paesi e di ampi settori della società. E’ stata una politica miope, asservita alle esigenze dei mercati finanziari, quegli stessi che sono stati all’origine della crisi, che ha prodotto crescenti disuguaglianze sociali, una disoccupazione ormai insostenibile (che colpisce 27 milioni di persone), e ha assestato duri colpi al Welfare europeo e alle istituzioni democratiche della stessa Unione Europea e dei Paesi sottoposti al controllo della Troika (Banca centrale europea, Fondo monetario internazionale, Commissione europea). D’altro lato vi è la concezione antieuropeista di chi propone l’uscita dall’euro, il superamento dell’Unione, il ritorno ad un nazionalismo chiuso ed egoistico. Si tratta di una posizione conservatrice e di destra, che è stata alimentata dalla politica di austerità, ma che non è in grado di dare nessuna risposta seria per uscire dalla crisi e anzi propone soluzioni demagogiche che aggraverebbero la situazione di alcuni Paesi, compresa l’Italia.
Occorre sfuggire all’alternativa tra due posizioni entrambe inaccettabili e che convergono nel mettere in crisi l’idea stessa di un’Europa unita. Occorre tornare all’idea dei padri fondatori che immaginavano un’Europa sociale e democratica, fondata sulla garanzia dei diritti civili e sociali, la pari dignità, la protezione delle fasce più deboli, la valorizzazione di un patrimonio artistico e culturale che non ha eguali al mondo. Alle prossime elezioni questo è possibile perché fra le due concezioni distruttive dell’Europa esiste una terza via, rappresentata dalla lista “L’ALTRA EUROPA CON TSIPRAS”, nata da un appello di intellettuali europeisti, che propone come candidato alla presidenza della Commissione europea Alexis Tsipras, il giovane leader del partito Syriza che i sondaggi danno oggi come primo partito della Grecia. Il programma lanciato da Tsipras propone un’Europa più solidale, che aiuti i Paesi in maggiore difficoltà e le fasce sociali più colpite dalla crisi, l’abbandono della austerità per sostenere una politica di rilancio e di investimenti, rispettosa dell’ambiente e della dignità delle persone, una Unione più democratica che dia maggiore forza al Parlamento europeo e alla volontà politica manifestata dai cittadini europei. E’ questa una prospettiva che non accetta subalternità e compromessi al ribasso come quelli che hanno caratterizzato negli anni della crisi la politica europea di molti partiti socialdemocratici e in Italia del PD. Il successo de “L’altra Europa” rappresenta l’unica via per proporre una politica diversa e innovativa con la quale i partiti socialisti e democratico-progressisti siano costretti a misurarsi. Per questa ragione invitiamo quanti sono critici verso l’attuale politica europea di austerità e di recessione, ma non vogliono ricadere nelle spire di quel nazionalismo statalistico che ha prodotto due guerre mondiali, di votare alle prossime elezioni europee per “L’ALTRA EUROPA CON TSIPRAS”.