da Francesco Mandarini | Set 27, 2015
Cento conigli non fanno un cavallo. Chi lo ha conosciuto sa bene che, Ilvano Rasimelli, usava intercalare i suoi interventi politici con detti popolari per sottolineare come alla saggezza del popolo fosse utile riferirsi anche per giudicare se le scelte del partito fossero giuste. La popolarità di Rasimelli nasceva dal suo legame, mai interrotto, con coloro che dal lavoro traevano sostentamento e speranza. Con uguale rispetto e attenzione discuteva con il coltivatore diretto dell’Alta Valle del Tevere, con l’artigiano dei borghi di Perugia, con il piccolo o grande imprenditore o con l’intellettuale famoso. Il filo rosso nella vita di Ilvano è stato sempre l’interesse pubblico. Riteneva che amministrare la cosa pubblica significasse non la gestione dell’esistente, ma il cambiamento dello stato delle cose, riformare ciò che era vecchio e inutilmente costoso sempre tenendo presenti i vincoli di bilancio. Pensare come viene utilizzato adesso il termine riformismo vengono i brividi. Così infatti viene chiamato dagli opinion maker quel coacervo di provvedimenti di restaurazione neoliberista della stagione del renzismo e incentivata dal “monarca” oggi non ancora in pensione, il presidente emerito Napolitano. Lunga sarebbe la lista degli incarichi pubblici svolti da Rasimelli. Ciò che è certo è che in ogni lavoro è rimasto il segno innovativo di Ilvano. Si pensi alle condizioni dell’ospedale psichiatrico di Perugia. Rasimelli così lo descrive nel 1970: “Dal fondo ospedale segregazionista nasceva un urlo di rivolta contro i mali di questa società. Ritrovammo un filo rosso che univa e accumunava agli sfruttati, agli umiliati, agli oppressi di tutto il mondo i segregati dell’ospedale psichiatrico.” E’ storicamente accertato che la rivoluzione dell’antipsichiatria ha avuto nell’esperienza perugina guidata da Rasimelli uno dei momenti di maggior importanza. Rimango convinto che gli anni ’60 hanno avuto il grande significato di un’innovazione profonda nel senso comune del popolo anche grazie alla lotta contro la segregazione manicomiale. Le lotte giovanili e operaie di quegli anni sono state possibili perché la “rivolta” trovava, in parte delle istituzioni, delle risposte adeguate alla domanda di liberazione dei movimenti. Rasimelli è stato uno spirito libero. Figlio della cultura dell’illuminismo ignorava ogni forma di settarismo ma il suo essere comunista lo stimolava all’esercizio del dubbio e del gesto autonomo anche dagli organi di partito. Era un dirigente che riconosceva il primato della politica non quello del partito. Alle 7 del mattino del 21 agosto del 1968, Ilvano mi chiamò al telefono per chiedermi di andare in federazione. Alla richiesta del perché Rasimelli mi comunicò di aver inviato, come presidente della Provincia, un telegramma di protesta all’ambasciata sovietica contro l’invasione di Praga. Comitato federale convocato d’urgenza! Svanì per me il programmato viaggio a Londra. Il comitato federale si svolse con una grande tensione. I filosovietici (inutile fare nomi) tentarono un processo contro il trasgressore dei vincoli del centralismo democratico. Dalla loro avevano il comunicato non esattamente coraggioso della direzione del partito che pur dissociandosi dall’invasione non faceva passi in avanti nel giudizio sul socialismo reale dell’Urss. Gran parte dei dirigenti del Pci umbro erano figli delle scelte fatte dall’VIII congresso che aveva approvato la linea della via italiana al socialismo e segnato la sconfitta dei “fedeli” al leninismo nell’interpretazione di Mosca. La componente più giovane del comitato federale sostenne la legittimità del telegramma di protesta e anche ciò fu determinante: Ilvano non fu in alcun modo “punito”. Il percorso politico di Rasimelli è sempre intrecciato con la sua passione professionale e da questa ha tratto arricchimento nelle sue scelte politiche. Iscritto al partito in clandestinità, partigiano nella formazione “Francesco Innamorati” fu arrestato dall’OVRA nella primavera del ’43 durante il primo anno di università. Liberato, parte con l’Esercito di Liberazione con il Gruppo di Combattimento Cremona partecipando alle battaglie nel nord d’Italia. Tornato a Perugia diviene segretario del movimento giovanile comunista e direttore del giornale “La nostra lotta”. Un rivoluzionario di professione! Più volte mi ha raccontato che deve la sua laurea in ingegneria ad Armando Fedeli. Fedeli era una leggenda per i democratici perugini. Più volte condannato dai tribunali fascisti, in esilio a Mosca, in Francia e poi organizzatore delle brigate internazionali nella guerra di Spagna, divenne senatore di diritto nel 1948 e più volte rieletto al parlamento. Nel 1949 Fedeli chiamò in federazione Ilvano per comunicazioni urgenti. Sei un bravo dirigente politico gli disse, apprezziamo il tuo lavoro ma il movimento operaio ha bisogno anche di intellettuali. Ti devi laureare. Ilvano andò all’università di Pisa e nel 1952 si laureò con una tesi sul bacino imbrifero del Lago Trasimeno. La professione di ingegnere è stata svolta avendo come obbiettivo la modernizzazione e dell’Umbria. Quando nel 1969 fondò la RPA assieme a diversi professionisti organizzò quello che chiamava una intelligenza collettiva al servizio dell’innovazione nella progettazione urbanistica e ambientale. Intellettuali di grande rilevanza nazionale e internazionale furono protagonisti nella cultura e nelle scelte progettuali sia che si trattasse di piani regolatori dei comuni o di scelte di utilizzo delle risorse naturali dell’Umbria. Una struttura, la RPA, dove la politica si trasformava in concreti progetti che garantivano alle istituzioni pubbliche qualità e trasparenza. Rasimelli era uomo del fare e la politica non sempre riusciva a realizzare ciò che era giusto fare. Lontano da ogni formalismo quando divenne senatore della Repubblica visse con disagio quell’esperienza. Il lavoro parlamentare non gli consentiva di incidere nella realtà. Amava operare concretamente e non fregiarsi di titoli prestigiosi. Quando Firenze fu sommersa dalla piena dell’Arno, Rasimelli come presidente della provincia organizzò in una notte un convoglio di mezzi attrezzati di ruspe e di quanto si riteneva necessario per intervenire . Alla guida della sua Citroen si mise alla testa del convoglio arrivando al quartiere Santa Croce di Firenze organizzando le forze per il risanamento di quella parte della città martoriata. Con Ilvano Rasimelli è scomparso un comunista appartenente, come il nostro Maurizio Mori, a una generazione che ha vissuto la politica come la forma più liberatoria per l’umanità e l’esercitava a partire dal proprio impegno professionale. Un comunista deve essere apprezzato a partire dal suo lavoro mi dicevano quando ero un giovane militante. Quella generazione lo ha fatto con competenza, creatività e rigore. Dicono che la nostalgia non è una categoria della politica e forse è vero. Mi sia consentito esprimere però una profonda umana nostalgia e dolore per la scomparsa di uno dei miei maestri di vita e di politica.
Francesco Mandarini
da Francesco Mandarini | Set 24, 2015
Alla fine, con gli emendamenti Finocchiaro alla riforma costituzionale, scoppiò la pace, accompagnata da vistose manifestazioni di giubilo. A dire il vero, non si capisce di cosa gioisca la fu minoranza Pd. Per la elezione popolare diretta dei senatori, che aveva assunto come bandiera, ha perso su tutta la linea.
Il testo conclusivamente concordato conferma anzitutto che i senatori sono eletti dagli «organi delle istituzioni territoriali». Quindi non dai cittadini. Si rincara poi la dose aggiungendo «in conformità delle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi …». E qui l’ambiguità raggiunge vertici ineguagliati.
Si consideri il concetto di conformità. Qualunque sia il significato che si vuole riconoscere alla parola, di sicuro non può intendersi come «esattamente coincidente con». Se così fosse, infatti, il potere di eleggere i senatori che la norma attribuisce alla assemblea territoriale sarebbe una scatola vuota, una inutile superfetazione. L’unica lettura possibile è che l’assemblea territoriale possa allontanarsi, in più o meno larga misura, dalla volontà degli elettori.
In ogni caso, quali sono le scelte degli elettori rispetto alle quali bisogna osservare la conformità? Dice la norma: quelle espresse per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo degli organi di cui fanno parte. Quindi, l’elettore non vota Tizio, Caio o Sempronio per il senato, decidendo l’esito. Vota per il consigliere. Chi poi acceda al seggio senatoriale dipenderà dalla lettura data alla «conformità». Inoltre, come ho già scritto su queste pagine, basterà una rosa più ampia del numero di senatori da eleggere per azzerare ogni necessaria corrispondenza tra la volontà popolare e i senatori conclusivamente eletti.
Cosa ha a che fare tutto questo con l’elezione popolare diretta dei senatori? Ovviamente, nulla. L’emendamento concordato se ne allontana persino di più di soluzioni via via ipotizzate, come le indicazioni o designazioni da parte degli elettori.
Infine, tutto viene affidato a una successiva legge. Qui c’è l’unico effettivo miglioramento, perché non si tratta più di legge regionale, ma di legge statale. Diversamente, ogni regione avrebbe fatto i senatori a propria immagine e somiglianza, magari dando un’aggiustatina alle regole in prossimità del turno elettorale, per garantire il seggio a un amico o sodale.
E se comunque alla fine, nonostante le maglie così larghe, l’assemblea territoriale non si attenesse alla «conformità», magari per motivi futili o abietti, familistici o di clan? Quali rimedi? Un mondo nuovo di interessanti possibilità si apre per politici affamati di clientele e avvocati.
L’emendamento Pd non può in alcun modo essere gabellato come ripristino dell’elettività dei senatori. Gli altri emendamenti concordati sono poca cosa, e avremo modo di occuparcene. La riforma era pessima, e tale rimane. Interessa ora vedere se Grasso sarà indotto a una apertura anche su altri emendamenti. Ma intento una domanda rimane: perché la minoranza Pd ha dato disco verde? Forse per l’originalità della soluzione, visto che non ci risultano altre esperienze in cui si trovi una sovranità a mezzadria tra il popolo e un’assemblea elettiva territoriale? Possibile che credano davvero di avere difeso con efficacia i fondamenti della democrazia?
Per una lettura diffusa gli ex dissidenti hanno barattato la Costituzione con qualche mese di poltrona senatoriale. Letture più sofisticate parlano di partite giocate nel Pd emiliano. Probabilmente c’è del vero in entrambe. Ma intanto è certo che Renzi ha saputo giungere allo sterminio politico della minoranza, di cui ha dimostrato l’irrilevanza. Forse, l’irrigidimento apparentemente irragionevole e incomprensibile su riforme palesemente sbagliate è stato strumentale anche a questo obiettivo.
Della minoranza Pd avremmo voluto condividere obiettivi e ambasce. Potevano nascerne esperienze politiche significative. Per come si arriva al traguardo, non è così. Anzi, troviamo si adatti bene agli ex dissidenti una storica battuta cara a molti di noi: andate senza meta, ma da un’altra parte.
Villone Il Manifesto del 24 Settembre 2015
da Francesco Mandarini | Lug 28, 2015
Maurizio Mori apparteneva alla generazione che dopo la disfatta del nazi-fascismo ha costruito la democrazia repubblicana dell’Italia. E’ stato un privilegio e un vantaggio straordinario essere stato formato alla vita e alla politica da personalità come quella di Maurizio. Le caratteristiche essenziali della generazione che aveva iniziato a battersi per la democrazia sotto il fascismo morente erano principalmente frutto di una profonda cultura politica rigorosa e spinta da una curiosità vivacissima per tutto ciò che l’umanità aveva prodotto nei secoli. Maurizio aveva molte passioni come la medicina e la politica. La principale, oltre al viaggiare, credo, fosse il cinema. Ci incontravamo spesso in un cinema e bastava uno sguardo per capire il suo giudizio su ciò che avevamo appena visto. Figlio della “chiesa-comunità” del Pci umbro, per una fase avevo avuto perplessità per il membro della Quarta Internazionale, affermato organizzatore della salute in fabbrica. Le scorie dello stalinismo, pur marginali nei gruppi dirigenti, perduravano nel PCI e Trotskij non era nel nostro pantheon purtroppo. Come militante, educato da Ilvano Rasimelli e da Gino Galli, compresi da subito il disastro prodotto dallo stalinismo. Con Forini e Mantovani scherzavamo sul fatto che il nostro destino in URSS sarebbe stato una “vacanza” in Siberia. Bastarono pochi incontri anche casuali per apprezzare le capacità umane e politiche di Maurizio. Come amministratore ho poi potuto valutare con orgoglio come la “squadra” di medicina che realizzava progetti per la salubrità degli ambienti di lavoro era riconosciuta tra le più efficaci a livello nazionale. Esemplare tutta l’esperienza del ternano. Mori fu tra i protagonisti di questo lavoro. Nella crisi esplosa con la liquidazione del Pci scegliemmo, Maurizio ed io, strade diverse ma continuò la nostra amicizia politica. Si era rafforzata negli anni anche in ragione della crisi della stagione del nuovismo d’accatto. Come comunisti incorreggibili, assieme ad altri compagni di Segno Critico, prendemmo la decisione di “inventare” ,come inserto del Manifesto, Micropolis. A conferma della volontà condivisa di tentare ogni strada per mettere insieme idee e proposte per una sinistra umbra rinnovata. Sappiamo che il tentativo è fallito nonostante la nostra passione politica che ha consentito l’uscita di Micropolis per venti anni. La sinistra umbra come quella italiana è ridotta all’insignificanza. L’ annientamento di tutte le sigle della sinistra-sinistra, il fallimento del progetto dell’Altra Europa, lasciano in campo macerie che è difficile ricomporre. L’illusione che, nonostante tutto, il PD poteva costituire un’ipotesi in cui la sinistra aveva un senso si è sfarinato come un pupazzo di neve. Che fare? Intanto un discorso di verità è obbligatorio. Il Pd di Renzi è un agglomerato politico che interpreta passivamente la volontà reazionaria del capitale finanziario. Non una nuova democrazia cristiana ma una nuova destra magari non cialtronesca come la Lega, ma una destra politica che sta annichilendo la democrazia italiana. Di questo dobbiamo parlare con lo zoccolo duro ex PCI che si è illusa rispetto al progetto del “rottamatore”. La vera rottamazione di Renzi è stata quella dei diritti dei lavoratori e quella della spirito e delle norme costituzionali. Il PD è nella stessa situazione della socialdemocrazia europea. Sia in Francia che in tutte le formazioni socialdemocratiche del nord europeo ha vinto alla grande l’ideologia neoliberista. Esemplare ciò che sono riusciti a decidere per la crisi greca. Da vergognarsi tutti. In un editoriale Renato Covino ha sollecitato i compagni a prendere coscienza che ricostruire la sinistra avrà tempi lunghi. Non esistono scorciatoie. Renato ha ragione. E’ vero anche che a volte la storia può avere delle accelerazioni inaspettate che in ogni caso richiedono di avere idee da mettere in campo. Il giorno prima della morte, con Mantovani e Covino, ci trovammo davanti a Maurizio, sofferente ma cosciente di dover rincuorarci. Lo fece a suo modo dicendoci con voce serena: ben scavato vecchia talpa. Speriamo Maurizio di fare bene anche per onorare l’affetto e la stima che ci hai trasmesso in tanti anni di impegno comune.
Francesco Mandarini
Micropolis 27 Luglio 2015
da Francesco Mandarini | Lug 4, 2015
Il crescendo di battibecchi e astio in Europa può sembrare a un osservatore esterno l’inevitabile risultato dell’accanito finale di partita giocato tra la Grecia e i suoi creditori. Infatti, i leader europei stanno finalmente cominciando a rivelare la vera natura dell’attuale disputa sul debito, e la risposta non è piacevole: riguarda potere e democrazia molto più che denaro ed economia.
Ovviamente, le teorie economiche dietro al programma che la “troika” (la Commissione Europea, la Banca Centrale Europea e il Fondo Monetario Internazionale) impose alla Grecia cinque anni fa sono state spaventose, risultando in un declino del 25% del PIL del Paese. Non riesco a pensare a nessun’altra depressione economica, mai nella storia, che sia stata così deliberata e abbia avuto conseguenze tanto catastrofiche: il tasso di disoccupazione giovanile della Grecia, ad esempio, supera oggi il 60%.
E’ stupefacente il fatto che la troika abbia rifiutato di accettare la responsabilità di tutto ciò, o di ammettere quanto pessime siano state le previsioni e i modelli economici. Ma è ancora più sorprendente il fatto che i leader dell’Europa non abbiano neppure imparato. La troika sta ancora chiedendo che la Grecia raggiunga un’eccedenza primaria (ad esclusione del pagamento degli interessi) del 3.5% del PIL entro il 2018.
Gli economisti di tutto il mondo hanno condannato quell’obiettivo come punitivo, perché perseguirlo risulterà inevitabilmente in un declino ancora più profondo. Infatti, anche se il debito della Grecia fosse ristrutturato al di là di ogni immaginazione, il Paese rimarrebbe in depressione se gli elettori scegliessero di perseguire gli obiettivi della troika nell’inaspettato referendum che si terrà questo fine settimana.
In termini di trasformazione di un grande deficit primario in un surplus, pochi paesi hanno compiuto qualcosa di simile a ciò che i greci hanno realizzato negli ultimi cinque anni. E, anche se i costi in termini di sofferenze umane sono stati estremamente alti, le recenti proposte del governo greco erano andate molto incontro alle richieste dei suoi creditori.
Dovremmo essere chiari: quasi nulla dell’enorme quantità di denaro prestato alla Grecia è effettivamente arrivato in Grecia. È servito per pagare i creditori del settore privato – incluse le banche tedesche e francesi. La Grecia non ha ottenuto che un’inezia, ma ha pagato un alto prezzo per preservare il sistema bancario di quei paesi. Il Fondo Monetario Internazionale e gli altri creditori “ufficiali” non hanno bisogno dei soldi che sono stati chiesti. Se tutto continuasse ad andare come al solito, i soldi ricevuti verrebbero con molta probabilità solamente prestati di nuovo alla Grecia.
Ma, di nuovo, non si tratta di denaro. Si tratta di usare le “scadenze” per forzare la Grecia a inginocchiarsi, e ad accettare l’inaccettabile – non solo misure di austerità, ma altre politiche regressive e punitive. Ma perché l’Europa farebbe questo? Perché i leader dell’Unione Europea sono contrari al referendum e si rifiutano perfino di estendere di pochi giorni la scadenza del pagamento greco della prossima rata al FMI del 30 Giugno? Il punto dell’Europa non è la democrazia?
A Gennaio, i cittadini della Grecia hanno votato per un governo impegnato a terminare l’austerity. Se il governo avesse semplicemente portato a termine le sue promesse elettorali, avrebbe già rigettato la proposta. Ma ha voluto dare ai greci la possibilità di avere peso in questa faccenda, così critica per il benessere futuro del loro paese.
La preoccupazione per la legittimazione popolare è incompatibile con le politiche dell’eurozona, che non è mai stata un progetto molto democratico. I governi della maggior parte dei suoi membri non hanno mai cercato l’approvazione dei loro cittadini nel consegnare la loro sovranità monetaria alla Banca Centrale Europea. Quando il governo svedese lo fece, gli svedesi dissero no. Capirono che la disoccupazione sarebbe aumentata se le politiche monetarie del paese fossero state decise da una banca centrale concentrata unicamente sull’inflazione (e anche che ci sarebbe stata attenzione insufficiente alla stabilità finanziaria). L’economia ne avrebbe sofferto, perché il modello economico alla base dell’eurozona era basato su relazioni di potere che danneggiavano i lavoratori.
È ormai abbastanza certo che ciò a cui stiamo assistendo ora, 16 anni dopo che l’eurozona ha istituzionalizzato quelle relazioni, è l’antitesi della democrazia: molti leader europei vogliono vedere la fine del governo di sinistra del primo ministro Alexis Tsipras. Dopo tutto, è estremamente sconveniente avere in Grecia un governo che è così contrario a quelle politiche che hanno fatto tanto per aumentare la diseguaglianza in così tanti paesi avanzati, e che è così impegnato nel mettere un freno al potere sfrenato della ricchezza. Sembrano credere che alla fine riusciranno ad abbattere il governo greco costringendolo con la forza ad accettare un accordo che contravviene il suo mandato.
È difficile dare consigli ai greci su come votare il 5 Luglio. Nessuna delle alternative – l’approvazione o il rifiuto dei termini della troika – sarà facile, e entrambe portano enormi rischi. La vittoria del sì significherebbe depressione quasi senza fine. Forse un paese esaurito – che ha venduto tutti i suoi beni, e la cui gioventù brillante è emigrata – potrebbe finalmente ottenere una cancellazione del debito; forse, dopo essere avvizzita fino a diventare un’economia di reddito medio, la Grecia potrebbe finalmente ottenere assistenza dalla Banca Mondiale. Tutto ciò potrebbe accadere nella prossima decade, o forse in quella successiva.
Al contrario, una vittoria del no almeno aprirebbe la possibilità che la Grecia, con la sua forte tradizione democratica, possa prendere il proprio destino nelle sue mani. I greci potrebbero ottenere l’opportunità di plasmare un futuro che, anche se forse non così prospero come nel passato, porti più speranze dell’irragionevole tortura del presente.
Io so come voterei.”
Joseph STIGLIZ premio Nobel
da Francesco Mandarini | Lug 2, 2015
Il referendum di domenica non riguarda la permanenza o no della Grecia nell’eurozona. Questa è scontata e nessuno può contestarla. Domenica dobbiamo scegliere se accettare l’accordo specifico oppure rivendicare subito, una volta espresso il responso del popolo, una soluzione sostenibile.
In ogni caso voglio assicurare al popolo greco che la ferma intenzione del governo è quella di ottenere un accordo con i partners, in condizioni però di sostenibilità e di prospettiva per il futuro. Già l’indomani della nostra decisione di proclamare un referendum sono state poste sul tavolo proposte riguardanti il debito e la necessità di ristrutturarlo, migliori di quelle che ci erano state presentate fino a venerdì. Non le abbiamo lasciate cadere.
Abbiamo immediatamente presentato le nostre controproposte, chiedendo una soluzione sostenibile. È per questa ragione che c’è stata la riunione straordinaria dell’eurogruppo ieri e ci sarà una nuova riunione oggi pomeriggio. Se ci sarà una conclusione positiva, noi risponderemo immediatamente. In ogni caso, il governo greco rimane al tavolo del negoziato e continuerà a rimanerci fino alla fine. Ma ci rimarrà su questo tavolo anche lunedì, subito dopo il referendum, in condizioni più favorevoli per la parte greca. Il verdetto popolare, infatti, è sempre più potente rispetto alla volontà di un governo. Vorrei anche ribadire che il ricorso alla volontà popolare è uno dei fondamenti delle tradizioni europee.
In momenti cruciali della storia europea, i popoli hanno preso decisioni importanti attraverso lo strumento del referendum. E’ successo in Francia e in tanti altri paesi, dove si sono svolti referendum sulla Costituzione europea. E’ successo in Irlanda, dove un referendum ha temporaneamente sospeso il Trattato di Lisbona e ha condotto a un nuovo negoziato, dal quale l’Irlanda ha ottenuto condizioni migliori. Nel caso della Grecia, purtroppo, si usano due metri e due misure.
Personalmente, non mi sarei mai aspettato che l’Europa democratica non riesca a comprendere la necessità di lasciare a un popolo sovrano lo spazio e il tempo necessario perché faccia le sue scelte riguardo al proprio futuro. Sono prevalsi ambienti estremisti conservatori e di conseguenza le banche del nostro paese sono state portate all’asfissia. L’obiettivo è evidente: esercitare un ricatto che parte dal governo e arriva fino a ogni singolo cittadino greco.
E’ infatti inaccettabile in un’Europa della solidarietà e del rispetto reciproco, vedere queste scene vergognose: far chiudere le banche proprio perché il governo ha deciso di far parlare il popolo, creare disagi a migliaia di anziani, per i quali, malgrado l’asfissia finanziaria, il governo si è preoccupato e ha fatto in modo che la loro pensione fosse regolarmente versata nei loro conti. A queste persone dobbiamo delle spiegazioni. E’ per proteggere le vostre pensioni che stiamo dando battaglia tutti questi mesi. Per proteggere il vostro diritto a una pensione dignitosa e non a una mancia. Le proposte che, in maniera ricattatoria, ci hanno chiesto di sottoscrivere prevedevano un taglio consistente delle pensioni. Per questo motivo ci siamo rifiutati, per questo oggi si vendicano.
E’ stato dato al governo greco un ultimatum che comprendeva esattamente la stessa ricetta, comprendente tutte le misure ancora non applicate del vecchio Memorandum di austerità. Come se non bastasse, non hanno previsto alcuna forma di alleggerimento del debito né di finanziamento dello sviluppo. L’ultimatum non è stato accettato. Poiché in regime di democrazia non ci sono strade senza uscita, l’ovvia via d’uscita era quella di rivolgerci al popolo, ed è stato esattamente quello che abbiamo fatto.
Sono pienamente consapevole che in queste ore c’è un’orgia di catastrofismo. Vi ricattano e vi invitano a votare sì a tutte le misure chieste dai creditori, senza alcuna visibile via d’uscita dalla crisi. Vogliono fare dire anche a voi, come succedeva nei quei giorni bui della nostra vita parlamentare che abbiamo lasciato dietro di noi, sì a tutto. Farvi diventare simili a loro, complici nel piano di farci rimanere per sempre sotto l’austerità.
Dall’altra parte, il no non è una semplice parola d’ordine. Il no rappresenta un passo decisivo verso un accordo migliore che puntiamo a sottoscrivere subito dopo la proclamazione dei risultati di domenica. Sarà l’inequivocabile scelta del popolo riguardo le sue condizioni di vita nei giorni a venire. No non significa rottura con l’Europa, ma ritorno all’Europa dei valori. No significa pressione potente per un accordo economicamente sostenibile che trovi una soluzione al problema del debito, non lo farà schizzare a livelli insostenibili, non costituirà un eterno ostacolo verso i nostri sforzi per far riprendere l’economia greca e dare sollievo alla società. No significa pressione forte per un accordo socialmente equo che distribuirà il peso ai possidenti e non ai lavoratori dipendenti e ai pensionati.
Un accordo cioè che porterà in tempi brevi il paese a essere di nuovo presente nei mercati finanziari internazionali, in modo che si ponga termine alla sorveglianza straniera e al commissariamento. Un accordo che comprenda quelle riforme che puniranno una volta per sempre gli intrecci insani tra politica, mezzi d’informazione e potere economico che hanno contraddistinto in tutti questi anni il vecchio sistema politico. Nel contempo potrà affrontare la crisi umanitaria: stenderà, in altre parole, una rete di sicurezza per tutti quelli che oggi sono stati spinti all’emarginazione grazie alle politiche seguite in tutti questi anni nel nostro paese.
Greche e greci, sono pienamente consapevole delle difficoltà che state affrontando. Mi impegno personalmente a fare qualunque cosa perché siano provvisorie. Alcuni fanno dipendere la permanenza della Grecia all’eurozona dal risultato del referendum. Mi accusano di avere un’agenda segreta: nel caso di vittoria del no, far uscire il paese dall’Unione Europea. Mentono sapendo di mentire. Sono quelli stessi che dicevano le stesse cose nel passato e rendono un pessimo servizio sia al nostro popolo che all’Europa. D’altronde, sapete bene che un anno fa io stesso ero candidato per la presidenza della Commissione alle elezioni per il Parlamento europeo.
Anche allora ho detto agli europei che le politiche di austerità devono finire, che non è questa la strada per uscire dalla crisi, che il programma applicato alla Grecia è stato un fallimento. E che l’Europa deve smettere di comportarsi in maniera non democratica.
Pochi mesi più tardi, nel gennaio del 2015, il nostro popolo ha sigillato questa scelta. Sfortunatamente, alcuni in Europa si rifiutano di comprendere questa verità, non la vogliono ammettere. Quelli che preferiscono un’Europa ancorata in logiche autoritarie, di disprezzo verso le regole democratiche, che vogliono un’Europa unita solo in maniera epidermica e tenuta insieme dal Fmi, non hanno una visione degna dell’Europa. Sono politici senza coraggio che non riescono a pensare come europei.
A loro fianco sta il nostro sistema politico che ha portato il paese alla bancarotta e ora si propone di gettare la colpa a noi, a chi cerca di far finire questa marcia verso il disastro. Sognano il loro ritorno: lo hanno progettato nel caso che noi avessimo accettato l’ultimatum – hanno pubblicamente chiesto la nomina di un altro premier per applicarlo– ma continuano anche adesso, che abbiamo dato la parola al popolo. Parlano di colpo di stato. Ma la democrazia non è un colpo di stato, i governi nominati da fuori sono un colpo di stato.
Greche e greci, voglio ringraziarvi con tutto il cuore per la calma e il sangue freddo chGRECOe state mostrando in ogni momento di questa settimana difficile. Voglio assicurarvi che questa situazione non durerà a lungo. Sarà provvisoria. Gli stipendi e le pensioni non andranno persi. I conti dei cittadini che hanno scelto di non portare i loro soldi all’estero non saranno sacrificati sull’altare dei ricatti e delle oscure manovre politiche. Assumo io personalmente la responsabilità di trovare una soluzione al più presto, subito dopo la conclusione del referendum. Allo stesso tempo rivolgo l’appello di sostenere questo processo negoziale, vi chiedo di dire no alle ricette di austerità che stanno distruggendo l’Europa.
Vi chiedo di accettare la strada di una soluzione sostenibile, di aprire una brillante pagina di democrazia, nella speranza certa di un accordo migliore. Siamo responsabili verso i nostri genitori, i nostri figli e verso noi stessi. E’ il nostro debito verso la storia.
da Francesco Mandarini | Apr 29, 2015
I
Nel suo scritto per i 100 anni di Pietro Ingrao, Luciana Castellina ricorda come per il cinquantesimo compleanno regalò assieme a Sandro Curzi, un paio di mocassini invitando Pietro ad essere meno prudente e “A camminare con i tempi. Cammina con noi”.
Era il 1965 l’anno di preparazione dell’XI congresso del PCI. Nell’autunno si svolsero i congressi provinciali sulla base di tesi elaborate dal comitato centrale. Il primo dopo la morte di Togliatti. Ingrao era il parlamentare dell’Umbria e per l’occasione congressuale, il partito umbro decise di regalare un abito da “cerimonia” come incoraggiamento per un evento che sarebbe stato di tensione estrema per Pietro. Sapevamo che il congresso sarebbe stato di rilievo per la vita del partito. Quello della federazione di Perugia aveva già sperimentato chiaramente la divisione tra la piattaforma del comitato centrale e le posizioni di Ingrao. Le conclusioni del dibattito, infatti, furono svolte da Rinaldo Scheda, uno dei leader della CGIL più amati e popolari. Non piacquero le sue conclusioni tanto che parte del congresso, guidata da Ilvano Rasimelli, pretese la riapertura del dibattito che ci fu ma non cambiò il dato: Ingrao e le sue idee erano in netta minoranza anche a Perugia.
Il congresso nazionale si aprì a Roma il 25 di gennaio. Non essendoci formali correnti, i delegati furono eletti sulla base di rappresentatività sociale e politica. A me spettava il ruolo del delegato “giovane operaio”. Sono passati 50 anni e rileggere gli atti del congresso è stato certo di grande utilità per la qualità politica di molti interventi. Utile è stato per rammentare il clima che respirai in quell’enorme salone del Palazzo dei Congressi dell’EUR. Nitida è l’immagine dei delegati in piedi ad applaudire Ingrao mentre la presidenza, gelidamente seduta, cercava di interrompere l’ovazione dei delegati. Pochi della presidenza si unirono all’applauso, tra questi Gino Galli in piedi e commosso. La indignazione mia e di Vinci Grossi, altro delegato umbro, fu tale che al momento della votazione per alzata di mano dei membri del comitato centrale votammo contro Cossutta e Paglietta. Gli altri delegati umbri rimasero di sasso. Ma io ero il giovane operaio “arrabbiato” e Vinci l’intellettuale fuori dal coro. Nessuna reprimenda quindi. Subito dopo il congresso, andò molto peggio a Ingrao e agli ingraiani doc.. Ingrao aveva, tra le altre cose, messo in dubbio la sacralità dei vincoli del centralismo democratico. Ciò non era tollerabile né per la destra amendoliana né per i filosovietici di Cossutta. E Cossutta era il responsabile rigoroso dell’organizzazione!! Prestigiosi dirigenti dovettero cambiare ruolo e lavoro, Ingrao fu di fatto spostato all’impegno in parlamento come Capo Gruppo. In quel clima iniziò l’incubazione del processo che sfocio nella straordinaria avventura del “Manifesto”. Il PCI si apprestava dopo pochi anni a radiare la parte più innovativa del suo gruppo dirigente.
Ingrao è stato parlamentare dell’Umbria fino al 1989 e non ha mancato occasione per aiutare a rinnovare il partito umbro malgrado che, le sue posizioni politiche, fossero sempre in netta minoranza nei gruppi dirigenti e nei congressi, il suo contributo di idee è stato decisivo per rendere il PCI meno provinciale. La assillante raccomandazione di Pietro volta ad allargare a nuove idee e riferimenti le nostre biblioteche personali, ha funzionato in una certa fase di formazione dei gruppi dirigenti. Soltanto al XVIII congresso le posizioni programmatiche approvate furono quelle di Ingrao e in minoranza si ritrovò la squadra dei miglioristi di Napolitano. Purtroppo Occhetto decise di fare una cosa giusta, rinnovare il PCI. Lo fece in modo sbagliato. Le conseguenze sono note. Una delle assurdità della svolta fu che coloro che per anni avevano impedito le innovazioni programmatiche e organizzative dell’ala sinistra del partito, adesso diventavano gli alfieri di un rinnovamento che, come si è visto, rientra nella categoria della dissoluzione verso il nulla.
Il PCI umbro ha dovuto molto a Ingrao e certamente negli anni ha dimostrato un approccio verso il dissenso molto diverso da altre parti del Paese. Coltivare il dubbio è un esercizio molto utile in politica. Nell’esplodere negli anni ’60 delle lotte studentesche e operaie, in occasione del XII congresso della Federazione di Perugia, arrivò una lettera al segretario Settimio Gambuli in cui venivano presentate le dimissioni dal partito della quasi totalità dei dirigenti della mia generazione. Una lacerazione umana e politica che cambiava profondamente la struttura del gruppo dirigente. Compagni di grande intelligenza e passione politica sceglievano un’altra strada. Per me fu un trauma sapere che Enzo Forini o Enrico Mantovani non erano più dei dirigenti del partito. I congressisti ebbero reazioni diverse. Aspra fu quella dell’area filosovietica, dialogante quella di quasi tutto il vertice della Federazione. Gambuli scrisse a Forini una lettera di grande affetto politico e umano. Lettera che non evitò la rottura. Comunque il dialogo iniziò e proseguì sempre nei tumultuosi anni della contestazione studentesca senza settarismi eccessivi da parte di nessuno. L’invenzione del “Circolo Carlo Marx” fu un tentativo fallito nel tempo di continuare un rapporto tra PCI e giovani dei movimenti. Che c’entra Ingrao in tutto questo? Molto. La categoria dell’ingraismo (definizione che non amo) ha nel suo DNA l’ascolto delle idee degli altri e il confronto continuo con chi la pensa diversamente. Infatti, l’assillo di Ingrao è stato sempre quello di come costruire una democrazia di massa capace di riformare lo Stato anche attraverso una partecipazione organizzata dai partiti e dalle forze vive della società. Il filo rosso dei suoi scritti e discorsi è proprio questo: di fronte a un capitalismo che può e vuole fare a meno della democrazia, come innovare la struttura pubblica rendendola più democratica e trasparente? Nel suo lavoro prima di presidente della Camera e poi come in quello del CRS (centro riforma dello stato) il suo impegno si è incentrato su come valorizzare le assemblee elettive nella gestione del potere. Alla luce di quello che è successo, si può definire Ingrao come un profeta disarmato che ha fallito il suo obbiettivo? Forse sì, ma rimane il fatto che la questione democratica è ancor più oggi la questione non detta e quindi non affrontata da molti anni dalla sinistra. Non sarà uno dei motivi di crisi della sinistra in Italia e nel mondo?
La crisi della democrazia è negata dal PD che anzi lavora alacremente da anni per lo smantellamento della repubblica parlamentare e della Costituzione. Lo sta facendo con la complicità di tanti e nell’indifferenza di intellettuali e forze sociali come se la questione riguardasse il ceto politico e non la qualità della cittadinanza. Il progetto della loggia P2 di Gelli finalmente viene passo a passo realizzato.
L’Umbria in molte circostanze è stata protagonista di valenza nazionale nell’esercizio del potere democratico. Lo è stata negli anni ’60 con la ricerca e elaborazione della programmazione economico-sociale; con la chiusura dell’ospedale psichiatrico; con l’elaborazione e la pratica della medicina del lavoro. Negli anni ’70 nella difficile fondazione degli istituti regionale la nostra regione (la chiamammo “regione aperta”) seppe essere esempio con una legislazione sulla partecipazione democratica; sulla gestione del territorio e su altre ancora che la resero protagonista del processo di fondazione dello Stato decentrato. Viene da sorridere osservare con freddezza la faida e la violenza verbale di cui sono protagonisti i candidati al seggio di consigliere. Forese non sanno di essere candidati al nulla. I consigli regionali sono gusci vuoti senza potere in cui le funzioni principali sono diventate quella dell’interpellanza e degli ordini del giorno. L’elezione diretta del presidente ha reso superfluo sia il consigliere che l’assessore. Anche per questa centralizzazione dei poteri che l’ente regione sia tra i meno apprezzati dai cittadini in tutto il Paese. Un solo uomo al comando è stato affascinante con Fausto Coppi, adesso è un disastro della democrazia.
Francesco Mandarini
Micropolis 28 Aprile 2015