COMUNISTA INDISCIPLINATO

Cento conigli non fanno un cavallo. Chi lo ha conosciuto sa bene che, Ilvano Rasimelli, usava intercalare i suoi interventi politici con detti popolari per sottolineare come alla saggezza del popolo fosse utile riferirsi anche per giudicare se le scelte del partito fossero giuste. La popolarità di Rasimelli nasceva dal suo legame, mai interrotto, con coloro che dal lavoro traevano sostentamento e speranza. Con uguale rispetto e attenzione discuteva con il coltivatore diretto dell’Alta Valle del Tevere, con l’artigiano dei borghi di Perugia, con il piccolo o grande imprenditore o con l’intellettuale famoso. Il filo rosso nella vita di Ilvano è stato sempre l’interesse pubblico. Riteneva che amministrare la cosa pubblica significasse non la gestione dell’esistente, ma il cambiamento dello stato delle cose, riformare ciò che era vecchio e inutilmente costoso sempre tenendo presenti i vincoli di bilancio. Pensare come viene utilizzato adesso il termine riformismo vengono i brividi. Così infatti viene chiamato dagli opinion maker quel coacervo di provvedimenti di restaurazione neoliberista della stagione del renzismo e incentivata dal “monarca” oggi non ancora in pensione, il presidente emerito Napolitano. Lunga sarebbe la lista degli incarichi pubblici svolti da Rasimelli. Ciò che è certo è che in ogni lavoro è rimasto il segno innovativo di Ilvano. Si pensi alle condizioni dell’ospedale psichiatrico di Perugia. Rasimelli così lo descrive nel 1970: “Dal fondo ospedale segregazionista nasceva un urlo di rivolta contro i mali di questa società. Ritrovammo un filo rosso che univa e accumunava agli sfruttati, agli umiliati, agli oppressi di tutto il mondo i segregati dell’ospedale psichiatrico.” E’ storicamente accertato che la rivoluzione dell’antipsichiatria ha avuto nell’esperienza perugina guidata da Rasimelli uno dei momenti di maggior importanza. Rimango convinto che gli anni ’60 hanno avuto il grande significato di un’innovazione profonda nel senso comune del popolo anche grazie alla lotta contro la segregazione manicomiale. Le lotte giovanili e operaie di quegli anni sono state possibili perché la “rivolta” trovava, in parte delle istituzioni, delle risposte adeguate alla domanda di liberazione dei movimenti. Rasimelli è stato uno spirito libero. Figlio della cultura dell’illuminismo ignorava ogni forma di settarismo ma il suo essere comunista lo stimolava all’esercizio del dubbio e del gesto autonomo anche dagli organi di partito. Era un dirigente che riconosceva il primato della politica non quello del partito. Alle 7 del mattino del 21 agosto del 1968, Ilvano mi chiamò al telefono per chiedermi di andare in federazione. Alla richiesta del perché Rasimelli mi comunicò di aver inviato, come presidente della Provincia, un telegramma di protesta all’ambasciata sovietica contro l’invasione di Praga. Comitato federale convocato d’urgenza! Svanì per me il programmato viaggio a Londra. Il comitato federale si svolse con una grande tensione. I filosovietici (inutile fare nomi) tentarono un processo contro il trasgressore dei vincoli del centralismo democratico. Dalla loro avevano il comunicato non esattamente coraggioso della direzione del partito che pur dissociandosi dall’invasione non faceva passi in avanti nel giudizio sul socialismo reale dell’Urss. Gran parte dei dirigenti del Pci umbro erano figli delle scelte fatte dall’VIII congresso che aveva approvato la linea della via italiana al socialismo e segnato la sconfitta dei “fedeli” al leninismo nell’interpretazione di Mosca. La componente più giovane del comitato federale sostenne la legittimità del telegramma di protesta e anche ciò fu determinante: Ilvano non fu in alcun modo “punito”. Il percorso politico di Rasimelli è sempre intrecciato con la sua passione professionale e da questa ha tratto arricchimento nelle sue scelte politiche. Iscritto al partito in clandestinità, partigiano nella formazione “Francesco Innamorati” fu arrestato dall’OVRA nella primavera del ’43 durante il primo anno di università. Liberato, parte con l’Esercito di Liberazione con il Gruppo di Combattimento Cremona partecipando alle battaglie nel nord d’Italia. Tornato a Perugia diviene segretario del movimento giovanile comunista e direttore del giornale “La nostra lotta”. Un rivoluzionario di professione! Più volte mi ha raccontato che deve la sua laurea in ingegneria ad Armando Fedeli. Fedeli era una leggenda per i democratici perugini. Più volte condannato dai tribunali fascisti, in esilio a Mosca, in Francia e poi organizzatore delle brigate internazionali nella guerra di Spagna, divenne senatore di diritto nel 1948 e più volte rieletto al parlamento. Nel 1949 Fedeli chiamò in federazione Ilvano per comunicazioni urgenti. Sei un bravo dirigente politico gli disse, apprezziamo il tuo lavoro ma il movimento operaio ha bisogno anche di intellettuali. Ti devi laureare. Ilvano andò all’università di Pisa e nel 1952 si laureò con una tesi sul bacino imbrifero del Lago Trasimeno. La professione di ingegnere è stata svolta avendo come obbiettivo la modernizzazione e dell’Umbria. Quando nel 1969 fondò la RPA assieme a diversi professionisti organizzò quello che chiamava una intelligenza collettiva al servizio dell’innovazione nella progettazione urbanistica e ambientale. Intellettuali di grande rilevanza nazionale e internazionale furono protagonisti nella cultura e nelle scelte progettuali sia che si trattasse di piani regolatori dei comuni o di scelte di utilizzo delle risorse naturali dell’Umbria. Una struttura, la RPA, dove la politica si trasformava in concreti progetti che garantivano alle istituzioni pubbliche qualità e trasparenza. Rasimelli era uomo del fare e la politica non sempre riusciva a realizzare ciò che era giusto fare. Lontano da ogni formalismo quando divenne senatore della Repubblica visse con disagio quell’esperienza. Il lavoro parlamentare non gli consentiva di incidere nella realtà. Amava operare concretamente e non fregiarsi di titoli prestigiosi. Quando Firenze fu sommersa dalla piena dell’Arno, Rasimelli come presidente della provincia organizzò in una notte un convoglio di mezzi attrezzati di ruspe e di quanto si riteneva necessario per intervenire . Alla guida della sua Citroen si mise alla testa del convoglio arrivando al quartiere Santa Croce di Firenze organizzando le forze per il risanamento di quella parte della città martoriata. Con Ilvano Rasimelli è scomparso un comunista appartenente, come il nostro Maurizio Mori, a una generazione che ha vissuto la politica come la forma più liberatoria per l’umanità e l’esercitava a partire dal proprio impegno professionale. Un comunista deve essere apprezzato a partire dal suo lavoro mi dicevano quando ero un giovane militante. Quella generazione lo ha fatto con competenza, creatività e rigore. Dicono che la nostalgia non è una categoria della politica e forse è vero. Mi sia consentito esprimere però una profonda umana nostalgia e dolore per la scomparsa di uno dei miei maestri di vita e di politica.
Francesco Mandarini

Lo sterminio della fu minoranza

Alla fine, con gli emen­da­menti Finoc­chiaro alla riforma costi­tu­zio­nale, scop­piò la pace, accom­pa­gnata da vistose mani­fe­sta­zioni di giu­bilo. A dire il vero, non si capi­sce di cosa gioi­sca la fu mino­ranza Pd. Per la ele­zione popo­lare diretta dei sena­tori, che aveva assunto come ban­diera, ha perso su tutta la linea.

Il testo con­clu­si­va­mente con­cor­dato con­ferma anzi­tutto che i sena­tori sono eletti dagli «organi delle isti­tu­zioni ter­ri­to­riali». Quindi non dai cit­ta­dini. Si rin­cara poi la dose aggiun­gendo «in con­for­mità delle scelte espresse dagli elet­tori per i can­di­dati con­si­glieri in occa­sione del rin­novo dei mede­simi organi …». E qui l’ambiguità rag­giunge ver­tici ineguagliati.

Si con­si­deri il con­cetto di con­for­mità. Qua­lun­que sia il signi­fi­cato che si vuole rico­no­scere alla parola, di sicuro non può inten­dersi come «esat­ta­mente coin­ci­dente con». Se così fosse, infatti, il potere di eleg­gere i sena­tori che la norma attri­bui­sce alla assem­blea ter­ri­to­riale sarebbe una sca­tola vuota, una inu­tile super­fe­ta­zione. L’unica let­tura pos­si­bile è che l’assemblea ter­ri­to­riale possa allon­ta­narsi, in più o meno larga misura, dalla volontà degli elettori.

In ogni caso, quali sono le scelte degli elet­tori rispetto alle quali biso­gna osser­vare la con­for­mità? Dice la norma: quelle espresse per i can­di­dati con­si­glieri in occa­sione del rin­novo degli organi di cui fanno parte. Quindi, l’elettore non vota Tizio, Caio o Sem­pro­nio per il senato, deci­dendo l’esito. Vota per il con­si­gliere. Chi poi acceda al seg­gio sena­to­riale dipen­derà dalla let­tura data alla «con­for­mità». Inol­tre, come ho già scritto su que­ste pagine, basterà una rosa più ampia del numero di sena­tori da eleg­gere per azze­rare ogni neces­sa­ria cor­ri­spon­denza tra la volontà popo­lare e i sena­tori con­clu­si­va­mente eletti.

Cosa ha a che fare tutto que­sto con l’elezione popo­lare diretta dei sena­tori? Ovvia­mente, nulla. L’emendamento con­cor­dato se ne allon­tana per­sino di più di solu­zioni via via ipo­tiz­zate, come le indi­ca­zioni o desi­gna­zioni da parte degli elettori.

Infine, tutto viene affi­dato a una suc­ces­siva legge. Qui c’è l’unico effet­tivo miglio­ra­mento, per­ché non si tratta più di legge regio­nale, ma di legge sta­tale. Diver­sa­mente, ogni regione avrebbe fatto i sena­tori a pro­pria imma­gine e somi­glianza, magari dando un’aggiustatina alle regole in pros­si­mità del turno elet­to­rale, per garan­tire il seg­gio a un amico o sodale.

E se comun­que alla fine, nono­stante le maglie così lar­ghe, l’assemblea ter­ri­to­riale non si atte­nesse alla «con­for­mità», magari per motivi futili o abietti, fami­li­stici o di clan? Quali rimedi? Un mondo nuovo di inte­res­santi pos­si­bi­lità si apre per poli­tici affa­mati di clien­tele e avvocati.

L’emendamento Pd non può in alcun modo essere gabel­lato come ripri­stino dell’elettività dei sena­tori. Gli altri emen­da­menti con­cor­dati sono poca cosa, e avremo modo di occu­par­cene. La riforma era pes­sima, e tale rimane. Inte­ressa ora vedere se Grasso sarà indotto a una aper­tura anche su altri emen­da­menti. Ma intento una domanda rimane: per­ché la mino­ranza Pd ha dato disco verde? Forse per l’originalità della solu­zione, visto che non ci risul­tano altre espe­rienze in cui si trovi una sovra­nità a mez­za­dria tra il popolo e un’assemblea elet­tiva ter­ri­to­riale? Pos­si­bile che cre­dano dav­vero di avere difeso con effi­ca­cia i fon­da­menti della demo­cra­zia?
Per una let­tura dif­fusa gli ex dis­si­denti hanno barat­tato la Costi­tu­zione con qual­che mese di pol­trona sena­to­riale. Let­ture più sofi­sti­cate par­lano di par­tite gio­cate nel Pd emi­liano. Pro­ba­bil­mente c’è del vero in entrambe. Ma intanto è certo che Renzi ha saputo giun­gere allo ster­mi­nio poli­tico della mino­ranza, di cui ha dimo­strato l’irrilevanza. Forse, l’irrigidimento appa­ren­te­mente irra­gio­ne­vole e incom­pren­si­bile su riforme pale­se­mente sba­gliate è stato stru­men­tale anche a que­sto obiet­tivo.
Della mino­ranza Pd avremmo voluto con­di­vi­dere obiet­tivi e amba­sce. Pote­vano nascerne espe­rienze poli­ti­che signi­fi­ca­tive. Per come si arriva al tra­guardo, non è così. Anzi, tro­viamo si adatti bene agli ex dis­si­denti una sto­rica bat­tuta cara a molti di noi: andate senza meta, ma da un’altra parte.
Villone Il Manifesto del 24 Settembre 2015

Una talpa che ha ben scavato

Maurizio Mori apparteneva alla generazione che dopo la disfatta del nazi-fascismo ha costruito la democrazia repubblicana dell’Italia. E’ stato un privilegio e un vantaggio straordinario essere stato formato alla vita e alla politica da personalità come quella di Maurizio. Le caratteristiche essenziali della generazione che aveva iniziato a battersi per la democrazia sotto il fascismo morente erano principalmente frutto di una profonda cultura politica rigorosa e spinta da una curiosità vivacissima per tutto ciò che l’umanità aveva prodotto nei secoli. Maurizio aveva molte passioni come la medicina e la politica. La principale, oltre al viaggiare, credo, fosse il cinema. Ci incontravamo spesso in un cinema e bastava uno sguardo per capire il suo giudizio su ciò che avevamo appena visto. Figlio della “chiesa-comunità” del Pci umbro, per una fase avevo avuto perplessità per il membro della Quarta Internazionale, affermato organizzatore della salute in fabbrica. Le scorie dello stalinismo, pur marginali nei gruppi dirigenti, perduravano nel PCI e Trotskij non era nel nostro pantheon purtroppo. Come militante, educato da Ilvano Rasimelli e da Gino Galli, compresi da subito il disastro prodotto dallo stalinismo. Con Forini e Mantovani scherzavamo sul fatto che il nostro destino in URSS sarebbe stato una “vacanza” in Siberia. Bastarono pochi incontri anche casuali per apprezzare le capacità umane e politiche di Maurizio. Come amministratore ho poi potuto valutare con orgoglio come la “squadra” di medicina che realizzava progetti per la salubrità degli ambienti di lavoro era riconosciuta tra le più efficaci a livello nazionale. Esemplare tutta l’esperienza del ternano. Mori fu tra i protagonisti di questo lavoro. Nella crisi esplosa con la liquidazione del Pci scegliemmo, Maurizio ed io, strade diverse ma continuò la nostra amicizia politica. Si era rafforzata negli anni anche in ragione della crisi della stagione del nuovismo d’accatto. Come comunisti incorreggibili, assieme ad altri compagni di Segno Critico, prendemmo la decisione di “inventare” ,come inserto del Manifesto, Micropolis. A conferma della volontà condivisa di tentare ogni strada per mettere insieme idee e proposte per una sinistra umbra rinnovata. Sappiamo che il tentativo è fallito nonostante la nostra passione politica che ha consentito l’uscita di Micropolis per venti anni. La sinistra umbra come quella italiana è ridotta all’insignificanza. L’ annientamento di tutte le sigle della sinistra-sinistra, il fallimento del progetto dell’Altra Europa, lasciano in campo macerie che è difficile ricomporre. L’illusione che, nonostante tutto, il PD poteva costituire un’ipotesi in cui la sinistra aveva un senso si è sfarinato come un pupazzo di neve. Che fare? Intanto un discorso di verità è obbligatorio. Il Pd di Renzi è un agglomerato politico che interpreta passivamente la volontà reazionaria del capitale finanziario. Non una nuova democrazia cristiana ma una nuova destra magari non cialtronesca come la Lega, ma una destra politica che sta annichilendo la democrazia italiana. Di questo dobbiamo parlare con lo zoccolo duro ex PCI che si è illusa rispetto al progetto del “rottamatore”. La vera rottamazione di Renzi è stata quella dei diritti dei lavoratori e quella della spirito e delle norme costituzionali. Il PD è nella stessa situazione della socialdemocrazia europea. Sia in Francia che in tutte le formazioni socialdemocratiche del nord europeo ha vinto alla grande l’ideologia neoliberista. Esemplare ciò che sono riusciti a decidere per la crisi greca. Da vergognarsi tutti. In un editoriale Renato Covino ha sollecitato i compagni a prendere coscienza che ricostruire la sinistra avrà tempi lunghi. Non esistono scorciatoie. Renato ha ragione. E’ vero anche che a volte la storia può avere delle accelerazioni inaspettate che in ogni caso richiedono di avere idee da mettere in campo. Il giorno prima della morte, con Mantovani e Covino, ci trovammo davanti a Maurizio, sofferente ma cosciente di dover rincuorarci. Lo fece a suo modo dicendoci con voce serena: ben scavato vecchia talpa. Speriamo Maurizio di fare bene anche per onorare l’affetto e la stima che ci hai trasmesso in tanti anni di impegno comune.
Francesco Mandarini
Micropolis 27 Luglio 2015

Il voto di un premio Nobel

Il crescendo di battibecchi e astio in Europa può sembrare a un osservatore esterno l’inevitabile risultato dell’accanito finale di partita giocato tra la Grecia e i suoi creditori. Infatti, i leader europei stanno finalmente cominciando a rivelare la vera natura dell’attuale disputa sul debito, e la risposta non è piacevole: riguarda potere e democrazia molto più che denaro ed economia.
Ovviamente, le teorie economiche dietro al programma che la “troika” (la Commissione Europea, la Banca Centrale Europea e il Fondo Monetario Internazionale) impose alla Grecia cinque anni fa sono state spaventose, risultando in un declino del 25% del PIL del Paese. Non riesco a pensare a nessun’altra depressione economica, mai nella storia, che sia stata così deliberata e abbia avuto conseguenze tanto catastrofiche: il tasso di disoccupazione giovanile della Grecia, ad esempio, supera oggi il 60%.
E’ stupefacente il fatto che la troika abbia rifiutato di accettare la responsabilità di tutto ciò, o di ammettere quanto pessime siano state le previsioni e i modelli economici. Ma è ancora più sorprendente il fatto che i leader dell’Europa non abbiano neppure imparato. La troika sta ancora chiedendo che la Grecia raggiunga un’eccedenza primaria (ad esclusione del pagamento degli interessi) del 3.5% del PIL entro il 2018.
Gli economisti di tutto il mondo hanno condannato quell’obiettivo come punitivo, perché perseguirlo risulterà inevitabilmente in un declino ancora più profondo. Infatti, anche se il debito della Grecia fosse ristrutturato al di là di ogni immaginazione, il Paese rimarrebbe in depressione se gli elettori scegliessero di perseguire gli obiettivi della troika nell’inaspettato referendum che si terrà questo fine settimana.
In termini di trasformazione di un grande deficit primario in un surplus, pochi paesi hanno compiuto qualcosa di simile a ciò che i greci hanno realizzato negli ultimi cinque anni. E, anche se i costi in termini di sofferenze umane sono stati estremamente alti, le recenti proposte del governo greco erano andate molto incontro alle richieste dei suoi creditori.
Dovremmo essere chiari: quasi nulla dell’enorme quantità di denaro prestato alla Grecia è effettivamente arrivato in Grecia. È servito per pagare i creditori del settore privato – incluse le banche tedesche e francesi. La Grecia non ha ottenuto che un’inezia, ma ha pagato un alto prezzo per preservare il sistema bancario di quei paesi. Il Fondo Monetario Internazionale e gli altri creditori “ufficiali” non hanno bisogno dei soldi che sono stati chiesti. Se tutto continuasse ad andare come al solito, i soldi ricevuti verrebbero con molta probabilità solamente prestati di nuovo alla Grecia.
Ma, di nuovo, non si tratta di denaro. Si tratta di usare le “scadenze” per forzare la Grecia a inginocchiarsi, e ad accettare l’inaccettabile – non solo misure di austerità, ma altre politiche regressive e punitive. Ma perché l’Europa farebbe questo? Perché i leader dell’Unione Europea sono contrari al referendum e si rifiutano perfino di estendere di pochi giorni la scadenza del pagamento greco della prossima rata al FMI del 30 Giugno? Il punto dell’Europa non è la democrazia?
A Gennaio, i cittadini della Grecia hanno votato per un governo impegnato a terminare l’austerity. Se il governo avesse semplicemente portato a termine le sue promesse elettorali, avrebbe già rigettato la proposta. Ma ha voluto dare ai greci la possibilità di avere peso in questa faccenda, così critica per il benessere futuro del loro paese.
La preoccupazione per la legittimazione popolare è incompatibile con le politiche dell’eurozona, che non è mai stata un progetto molto democratico. I governi della maggior parte dei suoi membri non hanno mai cercato l’approvazione dei loro cittadini nel consegnare la loro sovranità monetaria alla Banca Centrale Europea. Quando il governo svedese lo fece, gli svedesi dissero no. Capirono che la disoccupazione sarebbe aumentata se le politiche monetarie del paese fossero state decise da una banca centrale concentrata unicamente sull’inflazione (e anche che ci sarebbe stata attenzione insufficiente alla stabilità finanziaria). L’economia ne avrebbe sofferto, perché il modello economico alla base dell’eurozona era basato su relazioni di potere che danneggiavano i lavoratori.
È ormai abbastanza certo che ciò a cui stiamo assistendo ora, 16 anni dopo che l’eurozona ha istituzionalizzato quelle relazioni, è l’antitesi della democrazia: molti leader europei vogliono vedere la fine del governo di sinistra del primo ministro Alexis Tsipras. Dopo tutto, è estremamente sconveniente avere in Grecia un governo che è così contrario a quelle politiche che hanno fatto tanto per aumentare la diseguaglianza in così tanti paesi avanzati, e che è così impegnato nel mettere un freno al potere sfrenato della ricchezza. Sembrano credere che alla fine riusciranno ad abbattere il governo greco costringendolo con la forza ad accettare un accordo che contravviene il suo mandato.
È difficile dare consigli ai greci su come votare il 5 Luglio. Nessuna delle alternative – l’approvazione o il rifiuto dei termini della troika – sarà facile, e entrambe portano enormi rischi. La vittoria del sì significherebbe depressione quasi senza fine. Forse un paese esaurito – che ha venduto tutti i suoi beni, e la cui gioventù brillante è emigrata – potrebbe finalmente ottenere una cancellazione del debito; forse, dopo essere avvizzita fino a diventare un’economia di reddito medio, la Grecia potrebbe finalmente ottenere assistenza dalla Banca Mondiale. Tutto ciò potrebbe accadere nella prossima decade, o forse in quella successiva.
Al contrario, una vittoria del no almeno aprirebbe la possibilità che la Grecia, con la sua forte tradizione democratica, possa prendere il proprio destino nelle sue mani. I greci potrebbero ottenere l’opportunità di plasmare un futuro che, anche se forse non così prospero come nel passato, porti più speranze dell’irragionevole tortura del presente.

Io so come voterei.”
Joseph STIGLIZ premio Nobel

discorso al Parlamento

Il refe­ren­dum di dome­nica non riguarda la per­ma­nenza o no della Gre­cia nell’eurozona. Que­sta è scon­tata e nes­suno può con­te­starla. Dome­nica dob­biamo sce­gliere se accet­tare l’accordo spe­ci­fico oppure riven­di­care subito, una volta espresso il responso del popolo, una solu­zione sostenibile.

In ogni caso voglio assi­cu­rare al popolo greco che la ferma inten­zione del governo è quella di otte­nere un accordo con i part­ners, in con­di­zioni però di soste­ni­bi­lità e di pro­spet­tiva per il futuro. Già l’indomani della nostra deci­sione di pro­cla­mare un refe­ren­dum sono state poste sul tavolo pro­po­ste riguar­danti il debito e la neces­sità di ristrut­tu­rarlo, migliori di quelle che ci erano state pre­sen­tate fino a venerdì. Non le abbiamo lasciate cadere.

Abbiamo imme­dia­ta­mente pre­sen­tato le nostre con­tro­pro­po­ste, chie­dendo una solu­zione soste­ni­bile. È per que­sta ragione che c’è stata la riu­nione straor­di­na­ria dell’eurogruppo ieri e ci sarà una nuova riu­nione oggi pome­rig­gio. Se ci sarà una con­clu­sione posi­tiva, noi rispon­de­remo imme­dia­ta­mente. In ogni caso, il governo greco rimane al tavolo del nego­ziato e con­ti­nuerà a rima­nerci fino alla fine. Ma ci rimarrà su que­sto tavolo anche lunedì, subito dopo il refe­ren­dum, in con­di­zioni più favo­re­voli per la parte greca. Il ver­detto popo­lare, infatti, è sem­pre più potente rispetto alla volontà di un governo. Vor­rei anche riba­dire che il ricorso alla volontà popo­lare è uno dei fon­da­menti delle tra­di­zioni europee.

In momenti cru­ciali della sto­ria euro­pea, i popoli hanno preso deci­sioni impor­tanti attra­verso lo stru­mento del refe­ren­dum. E’ suc­cesso in Fran­cia e in tanti altri paesi, dove si sono svolti refe­ren­dum sulla Costi­tu­zione euro­pea. E’ suc­cesso in Irlanda, dove un refe­ren­dum ha tem­po­ra­nea­mente sospeso il Trat­tato di Lisbona e ha con­dotto a un nuovo nego­ziato, dal quale l’Irlanda ha otte­nuto con­di­zioni migliori. Nel caso della Gre­cia, pur­troppo, si usano due metri e due misure.

Per­so­nal­mente, non mi sarei mai aspet­tato che l’Europa demo­cra­tica non rie­sca a com­pren­dere la neces­sità di lasciare a un popolo sovrano lo spa­zio e il tempo neces­sa­rio per­ché fac­cia le sue scelte riguardo al pro­prio futuro. Sono pre­valsi ambienti estre­mi­sti con­ser­va­tori e di con­se­guenza le ban­che del nostro paese sono state por­tate all’asfissia. L’obiettivo è evi­dente: eser­ci­tare un ricatto che parte dal governo e arriva fino a ogni sin­golo cit­ta­dino greco.

E’ infatti inac­cet­ta­bile in un’Europa della soli­da­rietà e del rispetto reci­proco, vedere que­ste scene ver­go­gnose: far chiu­dere le ban­che pro­prio per­ché il governo ha deciso di far par­lare il popolo, creare disagi a migliaia di anziani, per i quali, mal­grado l’asfissia finan­zia­ria, il governo si è pre­oc­cu­pato e ha fatto in modo che la loro pen­sione fosse rego­lar­mente ver­sata nei loro conti. A que­ste per­sone dob­biamo delle spie­ga­zioni. E’ per pro­teg­gere le vostre pen­sioni che stiamo dando bat­ta­glia tutti que­sti mesi. Per pro­teg­gere il vostro diritto a una pen­sione digni­tosa e non a una man­cia. Le pro­po­ste che, in maniera ricat­ta­to­ria, ci hanno chie­sto di sot­to­scri­vere pre­ve­de­vano un taglio con­si­stente delle pen­sioni. Per que­sto motivo ci siamo rifiu­tati, per que­sto oggi si vendicano.

E’ stato dato al governo greco un ulti­ma­tum che com­pren­deva esat­ta­mente la stessa ricetta, com­pren­dente tutte le misure ancora non appli­cate del vec­chio Memo­ran­dum di auste­rità. Come se non bastasse, non hanno pre­vi­sto alcuna forma di alleg­ge­ri­mento del debito né di finan­zia­mento dello svi­luppo. L’ultimatum non è stato accet­tato. Poi­ché in regime di demo­cra­zia non ci sono strade senza uscita, l’ovvia via d’uscita era quella di rivol­gerci al popolo, ed è stato esat­ta­mente quello che abbiamo fatto.

Sono pie­na­mente con­sa­pe­vole che in que­ste ore c’è un’orgia di cata­stro­fi­smo. Vi ricat­tano e vi invi­tano a votare sì a tutte le misure chie­ste dai cre­di­tori, senza alcuna visi­bile via d’uscita dalla crisi. Vogliono fare dire anche a voi, come suc­ce­deva nei quei giorni bui della nostra vita par­la­men­tare che abbiamo lasciato die­tro di noi, sì a tutto. Farvi diven­tare simili a loro, com­plici nel piano di farci rima­nere per sem­pre sotto l’austerità.

Dall’altra parte, il no non è una sem­plice parola d’ordine. Il no rap­pre­senta un passo deci­sivo verso un accordo migliore che pun­tiamo a sot­to­scri­vere subito dopo la pro­cla­ma­zione dei risul­tati di dome­nica. Sarà l’inequivocabile scelta del popolo riguardo le sue con­di­zioni di vita nei giorni a venire. No non signi­fica rot­tura con l’Europa, ma ritorno all’Europa dei valori. No signi­fica pres­sione potente per un accordo eco­no­mi­ca­mente soste­ni­bile che trovi una solu­zione al pro­blema del debito, non lo farà schiz­zare a livelli inso­ste­ni­bili, non costi­tuirà un eterno osta­colo verso i nostri sforzi per far ripren­dere l’economia greca e dare sol­lievo alla società. No signi­fica pres­sione forte per un accordo social­mente equo che distri­buirà il peso ai pos­si­denti e non ai lavo­ra­tori dipen­denti e ai pensionati.

Un accordo cioè che por­terà in tempi brevi il paese a essere di nuovo pre­sente nei mer­cati finan­ziari inter­na­zio­nali, in modo che si ponga ter­mine alla sor­ve­glianza stra­niera e al com­mis­sa­ria­mento. Un accordo che com­prenda quelle riforme che puni­ranno una volta per sem­pre gli intrecci insani tra poli­tica, mezzi d’informazione e potere eco­no­mico che hanno con­trad­di­stinto in tutti que­sti anni il vec­chio sistema poli­tico. Nel con­tempo potrà affron­tare la crisi uma­ni­ta­ria: sten­derà, in altre parole, una rete di sicu­rezza per tutti quelli che oggi sono stati spinti all’emarginazione gra­zie alle poli­ti­che seguite in tutti que­sti anni nel nostro paese.

Gre­che e greci, sono pie­na­mente con­sa­pe­vole delle dif­fi­coltà che state affron­tando. Mi impe­gno per­so­nal­mente a fare qua­lun­que cosa per­ché siano prov­vi­so­rie. Alcuni fanno dipen­dere la per­ma­nenza della Gre­cia all’eurozona dal risul­tato del refe­ren­dum. Mi accu­sano di avere un’agenda segreta: nel caso di vit­to­ria del no, far uscire il paese dall’Unione Euro­pea. Men­tono sapendo di men­tire. Sono quelli stessi che dice­vano le stesse cose nel pas­sato e ren­dono un pes­simo ser­vi­zio sia al nostro popolo che all’Europa. D’altronde, sapete bene che un anno fa io stesso ero can­di­dato per la pre­si­denza della Com­mis­sione alle ele­zioni per il Par­la­mento europeo.

Anche allora ho detto agli euro­pei che le poli­ti­che di auste­rità devono finire, che non è que­sta la strada per uscire dalla crisi, che il pro­gramma appli­cato alla Gre­cia è stato un fal­li­mento. E che l’Europa deve smet­tere di com­por­tarsi in maniera non democratica.

Pochi mesi più tardi, nel gen­naio del 2015, il nostro popolo ha sigil­lato que­sta scelta. Sfor­tu­na­ta­mente, alcuni in Europa si rifiu­tano di com­pren­dere que­sta verità, non la vogliono ammet­tere. Quelli che pre­fe­ri­scono un’Europa anco­rata in logi­che auto­ri­ta­rie, di disprezzo verso le regole demo­cra­ti­che, che vogliono un’Europa unita solo in maniera epi­der­mica e tenuta insieme dal Fmi, non hanno una visione degna dell’Europa. Sono poli­tici senza corag­gio che non rie­scono a pen­sare come europei.

A loro fianco sta il nostro sistema poli­tico che ha por­tato il paese alla ban­ca­rotta e ora si pro­pone di get­tare la colpa a noi, a chi cerca di far finire que­sta mar­cia verso il disa­stro. Sognano il loro ritorno: lo hanno pro­get­tato nel caso che noi aves­simo accet­tato l’ultimatum – hanno pub­bli­ca­mente chie­sto la nomina di un altro pre­mier per appli­carlo– ma con­ti­nuano anche adesso, che abbiamo dato la parola al popolo. Par­lano di colpo di stato. Ma la demo­cra­zia non è un colpo di stato, i governi nomi­nati da fuori sono un colpo di stato.

Gre­che e greci, voglio rin­gra­ziarvi con tutto il cuore per la calma e il san­gue freddo chGRECOe state mostrando in ogni momento di que­sta set­ti­mana dif­fi­cile. Voglio assi­cu­rarvi che que­sta situa­zione non durerà a lungo. Sarà prov­vi­so­ria. Gli sti­pendi e le pen­sioni non andranno persi. I conti dei cit­ta­dini che hanno scelto di non por­tare i loro soldi all’estero non saranno sacri­fi­cati sull’altare dei ricatti e delle oscure mano­vre poli­ti­che. Assumo io per­so­nal­mente la respon­sa­bi­lità di tro­vare una solu­zione al più pre­sto, subito dopo la con­clu­sione del refe­ren­dum. Allo stesso tempo rivolgo l’appello di soste­nere que­sto pro­cesso nego­ziale, vi chiedo di dire no alle ricette di auste­rità che stanno distrug­gendo l’Europa.

Vi chiedo di accet­tare la strada di una solu­zione soste­ni­bile, di aprire una bril­lante pagina di demo­cra­zia, nella spe­ranza certa di un accordo migliore. Siamo respon­sa­bili verso i nostri geni­tori, i nostri figli e verso noi stessi. E’ il nostro debito verso la storia.

INGRAO, LA SINISTRA E LA DEMOCRAZIA

I
Nel suo scritto per i 100 anni di Pietro Ingrao, Luciana Castellina ricorda come per il cinquantesimo compleanno regalò assieme a Sandro Curzi, un paio di mocassini invitando Pietro ad essere meno prudente e “A camminare con i tempi. Cammina con noi”.
Era il 1965 l’anno di preparazione dell’XI congresso del PCI. Nell’autunno si svolsero i congressi provinciali sulla base di tesi elaborate dal comitato centrale. Il primo dopo la morte di Togliatti. Ingrao era il parlamentare dell’Umbria e per l’occasione congressuale, il partito umbro decise di regalare un abito da “cerimonia” come incoraggiamento per un evento che sarebbe stato di tensione estrema per Pietro. Sapevamo che il congresso sarebbe stato di rilievo per la vita del partito. Quello della federazione di Perugia aveva già sperimentato chiaramente la divisione tra la piattaforma del comitato centrale e le posizioni di Ingrao. Le conclusioni del dibattito, infatti, furono svolte da Rinaldo Scheda, uno dei leader della CGIL più amati e popolari. Non piacquero le sue conclusioni tanto che parte del congresso, guidata da Ilvano Rasimelli, pretese la riapertura del dibattito che ci fu ma non cambiò il dato: Ingrao e le sue idee erano in netta minoranza anche a Perugia.
Il congresso nazionale si aprì a Roma il 25 di gennaio. Non essendoci formali correnti, i delegati furono eletti sulla base di rappresentatività sociale e politica. A me spettava il ruolo del delegato “giovane operaio”. Sono passati 50 anni e rileggere gli atti del congresso è stato certo di grande utilità per la qualità politica di molti interventi. Utile è stato per rammentare il clima che respirai in quell’enorme salone del Palazzo dei Congressi dell’EUR. Nitida è l’immagine dei delegati in piedi ad applaudire Ingrao mentre la presidenza, gelidamente seduta, cercava di interrompere l’ovazione dei delegati. Pochi della presidenza si unirono all’applauso, tra questi Gino Galli in piedi e commosso. La indignazione mia e di Vinci Grossi, altro delegato umbro, fu tale che al momento della votazione per alzata di mano dei membri del comitato centrale votammo contro Cossutta e Paglietta. Gli altri delegati umbri rimasero di sasso. Ma io ero il giovane operaio “arrabbiato” e Vinci l’intellettuale fuori dal coro. Nessuna reprimenda quindi. Subito dopo il congresso, andò molto peggio a Ingrao e agli ingraiani doc.. Ingrao aveva, tra le altre cose, messo in dubbio la sacralità dei vincoli del centralismo democratico. Ciò non era tollerabile né per la destra amendoliana né per i filosovietici di Cossutta. E Cossutta era il responsabile rigoroso dell’organizzazione!! Prestigiosi dirigenti dovettero cambiare ruolo e lavoro, Ingrao fu di fatto spostato all’impegno in parlamento come Capo Gruppo. In quel clima iniziò l’incubazione del processo che sfocio nella straordinaria avventura del “Manifesto”. Il PCI si apprestava dopo pochi anni a radiare la parte più innovativa del suo gruppo dirigente.
Ingrao è stato parlamentare dell’Umbria fino al 1989 e non ha mancato occasione per aiutare a rinnovare il partito umbro malgrado che, le sue posizioni politiche, fossero sempre in netta minoranza nei gruppi dirigenti e nei congressi, il suo contributo di idee è stato decisivo per rendere il PCI meno provinciale. La assillante raccomandazione di Pietro volta ad allargare a nuove idee e riferimenti le nostre biblioteche personali, ha funzionato in una certa fase di formazione dei gruppi dirigenti. Soltanto al XVIII congresso le posizioni programmatiche approvate furono quelle di Ingrao e in minoranza si ritrovò la squadra dei miglioristi di Napolitano. Purtroppo Occhetto decise di fare una cosa giusta, rinnovare il PCI. Lo fece in modo sbagliato. Le conseguenze sono note. Una delle assurdità della svolta fu che coloro che per anni avevano impedito le innovazioni programmatiche e organizzative dell’ala sinistra del partito, adesso diventavano gli alfieri di un rinnovamento che, come si è visto, rientra nella categoria della dissoluzione verso il nulla.
Il PCI umbro ha dovuto molto a Ingrao e certamente negli anni ha dimostrato un approccio verso il dissenso molto diverso da altre parti del Paese. Coltivare il dubbio è un esercizio molto utile in politica. Nell’esplodere negli anni ’60 delle lotte studentesche e operaie, in occasione del XII congresso della Federazione di Perugia, arrivò una lettera al segretario Settimio Gambuli in cui venivano presentate le dimissioni dal partito della quasi totalità dei dirigenti della mia generazione. Una lacerazione umana e politica che cambiava profondamente la struttura del gruppo dirigente. Compagni di grande intelligenza e passione politica sceglievano un’altra strada. Per me fu un trauma sapere che Enzo Forini o Enrico Mantovani non erano più dei dirigenti del partito. I congressisti ebbero reazioni diverse. Aspra fu quella dell’area filosovietica, dialogante quella di quasi tutto il vertice della Federazione. Gambuli scrisse a Forini una lettera di grande affetto politico e umano. Lettera che non evitò la rottura. Comunque il dialogo iniziò e proseguì sempre nei tumultuosi anni della contestazione studentesca senza settarismi eccessivi da parte di nessuno. L’invenzione del “Circolo Carlo Marx” fu un tentativo fallito nel tempo di continuare un rapporto tra PCI e giovani dei movimenti. Che c’entra Ingrao in tutto questo? Molto. La categoria dell’ingraismo (definizione che non amo) ha nel suo DNA l’ascolto delle idee degli altri e il confronto continuo con chi la pensa diversamente. Infatti, l’assillo di Ingrao è stato sempre quello di come costruire una democrazia di massa capace di riformare lo Stato anche attraverso una partecipazione organizzata dai partiti e dalle forze vive della società. Il filo rosso dei suoi scritti e discorsi è proprio questo: di fronte a un capitalismo che può e vuole fare a meno della democrazia, come innovare la struttura pubblica rendendola più democratica e trasparente? Nel suo lavoro prima di presidente della Camera e poi come in quello del CRS (centro riforma dello stato) il suo impegno si è incentrato su come valorizzare le assemblee elettive nella gestione del potere. Alla luce di quello che è successo, si può definire Ingrao come un profeta disarmato che ha fallito il suo obbiettivo? Forse sì, ma rimane il fatto che la questione democratica è ancor più oggi la questione non detta e quindi non affrontata da molti anni dalla sinistra. Non sarà uno dei motivi di crisi della sinistra in Italia e nel mondo?
La crisi della democrazia è negata dal PD che anzi lavora alacremente da anni per lo smantellamento della repubblica parlamentare e della Costituzione. Lo sta facendo con la complicità di tanti e nell’indifferenza di intellettuali e forze sociali come se la questione riguardasse il ceto politico e non la qualità della cittadinanza. Il progetto della loggia P2 di Gelli finalmente viene passo a passo realizzato.
L’Umbria in molte circostanze è stata protagonista di valenza nazionale nell’esercizio del potere democratico. Lo è stata negli anni ’60 con la ricerca e elaborazione della programmazione economico-sociale; con la chiusura dell’ospedale psichiatrico; con l’elaborazione e la pratica della medicina del lavoro. Negli anni ’70 nella difficile fondazione degli istituti regionale la nostra regione (la chiamammo “regione aperta”) seppe essere esempio con una legislazione sulla partecipazione democratica; sulla gestione del territorio e su altre ancora che la resero protagonista del processo di fondazione dello Stato decentrato. Viene da sorridere osservare con freddezza la faida e la violenza verbale di cui sono protagonisti i candidati al seggio di consigliere. Forese non sanno di essere candidati al nulla. I consigli regionali sono gusci vuoti senza potere in cui le funzioni principali sono diventate quella dell’interpellanza e degli ordini del giorno. L’elezione diretta del presidente ha reso superfluo sia il consigliere che l’assessore. Anche per questa centralizzazione dei poteri che l’ente regione sia tra i meno apprezzati dai cittadini in tutto il Paese. Un solo uomo al comando è stato affascinante con Fausto Coppi, adesso è un disastro della democrazia.
Francesco Mandarini
Micropolis 28 Aprile 2015