da Francesco Mandarini | Ago 7, 2014
Che cosa penserebbero Orwell e Koyré se capitasse loro in sorte di vivere oggi qui tra noi? Entrambi furono colpiti dalla pervasività della menzogna politica, dalla sua capacità di reinventare la realtà a uso dei potenti. Ma ritenevano che la faccenda riguardasse soltanto i regimi totalitari. Un breve soggiorno nell’«Italia di Renzi» li convincerebbe di aver peccato di ottimismo. Sulla menzogna politica si fonda anche la post-democrazia populista, nella quale – come nei totalitarismi storici –l’indottrinamento delle masse passa per i due versanti del mentire: promettere disattendendo e raccontare mistificando.
Promettere a vanvera è lo sport prediletto dal nuovo padroncino del paese. Alberto Asor Rosa ne ha fornito su queste pagine una puntuale documentazione in tema di politica industriale e di tutela dell’ambiente, del territorio e dei beni culturali, considerati un valore solo se capaci di fruttare denaro. Di qui la previsione di «rottamare» le Soprintendenze e di affamare settori non spendibili nel turismo di massa come gli archivi e le biblioteche. Possiamo facilmente aggiungere altri esempi rilevanti.
Nessuna delle pur caute previsioni di crescita economica formulate dal governo regge alla prova dei fatti. Il pil ristagna (nonostante i pingui proventi delle mafie) e il debito di conseguenza corre. A settembre serviranno almeno 20 miliardi, ma Renzi giura che non ci sarà alcuna manovra aggiuntiva. Mente sapendo di mentire. Dapprima, per differirla, aveva pensato a elezioni anticipate. Ora preannuncia altri tagli alla spesa. Cioè una manovra nascosta. Nuovi taglieggiamenti a danno dei soliti noti che da sempre pagano
per tutti. Così si spiegano anche i continui balletti di quest’altra indecente «riforma» della Pubblica amministrazione, propagandata nel nome del ricambio generazionale ma dettata come sempre da ragioni di bilancio. Si era promesso di cancellare una delle più macroscopiche porcherie della controriforma Fornero permettendo ai «quota 96» della scuola (circa quattromila insegnanti) di andare finalmente in pensione. E invece tutto si è puntualmente risolto in una bolla di sapone, con la conseguenza di perpetuare un’ingiustizia paragonabile a quella già inflitta agli esodati. Ma è certamente nell’arte del racconto mistificatorio che la nuova classe dirigente politico-mediatica dà il meglio di sé. Il processo di revisione costituzionale è costellato da un’orgia di menzogne. Sul merito della «riforma». Su suoi presupposti e sulle sue conseguenze. Su quanto sta accadendo in
Senato. Né i media né tanto meno il governo spiegano che, nonostante tutti i maquillages, il combinato tra l’Italicum e la trasformazione della Camera Alta sarà l’accentramento di tutti i poteri costituzionali nelle mani della leadership del partito di maggioranza relativa. La formale subordinazione del Parlamento, già screditato dalle martellanti campagne anti-casta e dalla corruttela dilagante tra i suoi membri. La fine del delicato equilibrio poliarchico che ci ha sin qui bene o male protetti da sempre incombenti regressioni autoritarie. Altro che la mera ripetizione dell’esistente come argomenta da
ultimo Ilvo Diamanti. Il presidente del Consiglio si appropria, non smentito, del risultato delle Europee per millantare un presunto consenso plebiscitario alle proprie iniziative e arrogarsi il diritto di calpestare ogni norma vigente, a cominciare da quella Costituzione che ha fermamente deciso di stravolgere. Intanto ogni giorno veste indisturbato i panni della vittima che subisce paziente insulti e ricatti. Proprio lui che prima ha squadristicamente dipinto i dissenzienti come miserabili mossi da interessi personali, poi
annunciato la fine di ogni accordo con chi a sinistra osasse contrastarlo. Salvo prontamente ricredersi, una volta verificato che il saldo tra benefici (l’espulsione degli infedeli dalle istituzioni) e costi (la crisi a macchia d’olio nelle amministrazioni di città e regioni) sarebbe al momento sfavorevole.Bugiardi e violenti. Ma anche usurpatori. Non ha torto Manlio Padovan quando, commentando il mio articolo sulle forzature del presidente della Repubblica, afferma in una lettera al manifesto che c’è una questione più rilevante di quelle che io ricordavo, costituita dal sopravvenuto deficit di legittimità di questo Parlamento (quindi dei suoi atti, compresa la rielezione di Napolitano) dopo la sentenza
della Consulta sul Porcellum pubblicata all’inizio di quest’anno. Anche su questo si è mistificato. Si è invocato il principio di continuità dello Stato per sostenere che la legislatura deve durare sino alla scadenza naturale. È stata un’ennesima forzatura, forse la più grave, poiché dalla sentenza della Corte derivava per il presidente della Repubblica l’incombente dovere politico e morale (se non strettamente giuridico) di prescrivere alle Camere l’immediata riscrittura della legge elettorale quale premessa del ritorno anticipato alle urne. Si è fatto finta di nulla pur di tenere in vita un Parlamento ormai privo di legittimità. Al quale, in forza di un patto segreto sottoscritto da due capibastone, si riserva oggi il compito di riscrivere la Costituzione e domani di eleggere il nuovo capo dello Stato.
E così torniamo alla «riforma» renziana della Costituzione, stipulata con l’incappucciato di Arcore. Benedetta dal Colle e imposta al Parlamento mercé l’uso manganellare dei regolamenti e la zelante complicità del presidente Grasso. Ci rivolgiamo finalmente a quella parte del Pd che ha alle spalle una storia di lotte democratiche. Che si pensa erede del movimento operaio e della Costituente antifascista. Che dovrebbe a rigore rifiutarsi di funzionare come l’intendenza del «Partito di Renzi». Come può questa parte politica non avvertire il peso della responsabilità che il suo partito si sta assumendo per volontà del proprio capo facinoroso e prepotente, sprezzante di ogni principio di rispetto per le posizioni altrui e di ogni limite che l’ordinamento ancora vigente pone? Come può non
sentire come un’onta la connivenza con questo ennesimo scempio, il più grave fra tutti quelli pur gravi subiti in questi anni dalla Carta del ’48, a conferma della trista regola che vuole talvolta proprio i partiti democratici disposti a compiere le scelte più nefande che le destre non potrebbero da sole imporre? Come può illudersi che presto sarà dimenticato quanto accade in questa grigia estate in cui persino il tempo pare volersi rivoltare, e che non prevarrà invece la vergogna per avere nonostante tutto consentito e cooperato?
Leggiamo che molti dissidenti del Pd sono stati in queste ore febbrili insultati, intimiditi, minacciati. Non sottovalutiamo l’impatto di simili pressioni. Ma non vorremmo che per questo essi scambiassero cedimenti per doveri, e la tranquillità di un momento per un onore duraturo.
A.Burgio
Dal Manifesto del 6 Agosto 2014
da Francesco Mandarini | Lug 10, 2014
Dopo le aporie del riformando senato, tocca ad alcune falsità. È falso che il bicameralismo paritario sia causa di intollerabili ritardi. Si veda il sito www.senato.it, voce “Leggi e documenti”, sottovoce “Statistiche”. Si troveranno i dati dell’attività legislativa. Gran parte risale al governo e in specie ai decreti-legge, che entrano immediatamente in vigore, mentre il tempo medio per il voto finale sulle leggi di conversione — la parte che spetta al parlamento — non supera in questa legislatura le due settimane in ciascuna camera. Ritardi? E di chi? Per non parlare di leggi — ancorché contestatissime, ricordiamo le leggi-vergogna — passate in entrambe le camere nel giro di pochi giorni o settimane. Qualunque sistema democratico — europeo o extraeuropeo, mono o bicamerale — mostra tempi analoghi o superiori nella produzione legislativa. È falso, in ogni caso, che dal bicameralismo paritario si esca necessariamente con un senato non elettivo. Al contrario, nelle ultime legislature sono molteplici le proposte di camere differenziate nei poteri, anche per la fiducia e il bilancio, ma entrambe elettive. Proposte che investono sul senato, piuttosto che azzerarne il peso politico e istituzionale. Basterebbe leggerle.
È falso che il senato non elettivo abbatta radicalmente i costi. Sempre sul sito del senato è possibile leggere i bilanci, dai quali risulta che l’indennità è una frazione del costo totale dell’istituzione. In massima parte i costi sono dovuti agli immobili, ai servizi, al personale. Costi che rimarrebbero, con l’aggiunta delle spese di permanenza ai Roma dei senatori di nuovo conio. Qualcuno dovrà pure pagare, e non fa differenza chi.
È falso che il senato non elettivo ci allinei ad altri esempi europei. È vero il contrario. Non è un modello spagnolo, dove la composizione del senato è mista, con una parte prevalente elettiva. E già così è considerato di scarso peso politico e istituzionale. Non è un modello tedesco: nel Bundesrat siedono i rappresentanti degli esecutivi dei Lander, che votano in blocco per il Land di appartenenza. È falso, ancora, che sia un sistema simile a quello francese, che ha preso da ultimo la strada opposta, vietando il cumulo del mandato parlamentare con ogni carica esecutiva regionale e locale, per ripulire la politica e ripristinare la fiducia dei francesi nelle istituzioni.
È falso che concedere al senatore sindaco o governatore l’autorizzazione della camera di appartenenza per arresti, perquisizioni, sequestri, intercettazioni sarebbe compensato dalla attribuzione alla Corte costituzionale di una funzione di appello sul diniego di autorizzazione da parte dell’assemblea. La guarentigia costituzionale funzionerebbe in ogni caso come deterrente per l’avvio dell’indagine, e sminuirebbe l’efficacia del controllo giudiziario su quello che a buona ragione può definirsi il ventre molle del paese.
È falso che un senato non elettivo possa esercitare con maggior forza funzioni di controllo e di vigilanza sul governo e le amministrazioni pubbliche. Quand’anche i senatori plurimandatari avessero il tempo, la voglia e la competenza per farlo, è chiaro che la parte più rilevante dell’assemblea è composta di persone che con il governo discutono — altrove — di risorse, la cui disponibilità è concretamente rimessa allo stesso governo. Chi aprirebbe mai conflitti veri?
È falso che le riforme istituzionali le chieda l’Europa. Altre, forse, ma non queste. I falchi europei hanno messo bene in chiaro che s’interessano ai conti e niente altro. L’aspro confronto in atto guarda a un arco temporale limitato a un anno, o due. E qui abbiamo riforme che in principio producono effetti dal 2018. Tanto meno l’Europa si cura della prova muscolare che il governo tiene tanto a esibire. Comunque vada, sui problemi finanziari e di debito pubblico non inciderà affatto.
Infine, è solo una mezza verità che di simili soluzioni si parlava già in Assemblea Costituente. L’antico precedente non nobilita la proposta di oggi. Una lettura complessiva degli atti ci dice che per tutti — favorevoli e contrari al bicameralismo — la rappresentatività era la chiave necessaria per la costruzione di istituzioni forti e durature. Perché per tutti era nelle assemblee rappresentative la casa del popolo sovrano.
Il progetto del governo invece svilisce il parlamento, con un senato non elettivo, e una legge elettorale capestro per la camera. Senza nemmeno riequilibrare con un rafforzamento degli istituti di democrazia diretta e di partecipazione. Al contrario, se si guarda in specie a quel che passa in emendamento sulla iniziativa legislativa popolare. Domani, sarà più o meno facile per i cittadini far sentire la propria voce dove si decide? Sarà più difficile. E non saranno le e-mail mandate a una casella di posta governativa a dimostrare il contrario.
Comprendiamo le ansie del Presidente Napolitano. Ma si può mai costruire sul non detto, il non vero, il falso tout court? A voler essere spericolati, in un tempo di citazioni colte potremo dire adelante, ma con juicio. E magari ricordare che i governanti antichi tenevano buono il popolo con pane e circensi. Qui invece si promettono pane e riforme. Riforme prima, pane poi. E almeno quelli si divertivano.
Villone dal Manifesto del 10 Luglio 2014
da Francesco Mandarini | Giu 14, 2014
La sconfitta di una politica senza idee
Il presidente Matteo Renzi ha perfettamente ragione: per il centrosinistra non ci sono più rendite di posizione. Anche considerando lo stato comatoso del centrodestra, perdere Perugia e Livorno non è cosa da poco. Sarebbe comunque utile al nuovo PD una ricerca su come si siano formate le rendite che hanno potuto gestire gli eredi dei vecchi partiti della sinistra e dell’area democristiana non berlusconizzata. Una rendita in politica si può costruire in modi diversi. Attraverso il clientelismo e di esempi ne abbiamo a iosa o cercando di far svolgere alla politica il ruolo per cui ha un senso, l’agire politico: lavorare per cambiare lo stato di cose esistente nell’interesse delle collettività che si governano. L’Umbria uscita dalla guerra nazi-fascista era una regione meridionale con tassi di emigrazione altissimi, con povertà diffuse, città svuotate dalle sue forze migliori. Per capirci, soltanto nel 1972 l’Umbria tornò ad avere la stessa popolazione del 1953. Nel disinteresse dei governi centristi di quegli anni soltanto le forze della sinistra, comunisti e socialisti, riuscirono a costruire lotte di massa e progetti di sviluppo in un percorso di emancipazione che riguardò l’intero territorio regionale. E non è stata soltanto emancipazione economica. I grandi eventi culturali nascono negli anni cinquanta, sessanta e settanta. Le città iniziano a rinascere anche attraverso la cultura. Un esempio? Spoleto che ospita da decenni uno dei festival più importanti al mondo. Certo, genialità di Giancarlo Menotti ma merito anche degli amministratori della città e dei politici di quel tempo che lo sostennero in un’impresa difficilissima. Con il Jazz c’entravamo poco ma ciò non impedì alla Regione di partecipare all’invenzione di Umbria Jazz nelle piazze dei nostri borghi gremite di giovani di tutto il Paese. In quegli anni, l’Umbria è al centro del dibattito nazionale sulla nuova psichiatria. Merito dei medici dell’ospedale psichiatrico, ma è anche grazie al coraggio dell’amministrazione provinciale diretta da comunisti e socialisti che assieme ai colleghi di Trieste ebbero la forza di chiudere il manicomio senza la copertura di una legge. Il primo piano di sviluppo d’Italia è stato quello elaborato in Umbria. Lo venne a presentare Ugo La Malfa usando espressioni di grande apprezzamento per la capacità delle classi dirigenti politiche di prefigurare, con il Piano, la crescita di una comunità. Il punto è questo: si possono avere anche idee sbagliate nell’amministrare un comune o una regione. Ma idee bisogna averne. Senza si può galleggiare nell’esistente, salvare il proprio incarico e null’altro. Questo è successo negli ultimi decenni. Quando il mare diventa mosso anche il galleggiare diviene complicato. La scomparsa dei partiti di massa ha ragioni molto profonde e sciocco sarebbe proporre la formazione dell’intellettuale collettivo se non in modo radicalmente diverso dal passato. Il problema è che i partiti personali o i partiti “seggio elettorale” d’idee ne propongono poche e scarsamente partecipate. Perché si è perso a Perugia? L’ultimo intervento di qualche significato positivo nella mia città sono state le scale mobili della Rocca Paolina. Era il 1984. Interventi ve ne sono stati moltissimi. Anche troppi ma spesso sbagliati. Il Piano regolatore ha consentito la cementificazione di vaste aree e……lo svuotamento del centro storico di abitanti e funzioni. L’autoreferenzialità del ceto politico e amministrativo hanno impedito la messa a leva delle energie migliori della società civile e dell’intellettualità perugina. Da città dei convegni Perugia si va trasformando in una piccola Rimini senza il mare. Perugia non è la capitale della droga come la descrivono autorevoli e spesso cialtroneschi giornalisti. Sciocchezze. Perugia è una città colpita da una crisi economica durissima e da una crisi d’identità dovuta a classi dirigenti innamorate del proprio ombelico.
Francesco Mandarini
dal Manifesto del 14 giugno 2014
da Francesco Mandarini | Mag 25, 2014
Una campagna elettorale in cui «è stato fatto il possibile per trasformare il voto europeo in un voto sui partiti. I veri temi in questione? Assenti». Al professore Luciano Gallino, sociologo del lavoro e tra i promotori della lista l’Altra Europa con Tsipras, il modo in cui i grandi partiti e i media hanno affrontato il voto europeo è sbagliato: «Potrebbe essere un’elezione che si svolge in Australia o in Guatemala: i tre principali partiti sgomitano solo in vista del dopo».
Una ragione può essere che per le due grandi famiglie, Pse e Ppe, le larghe intese sono un esito scontato?
Comunque non giustifica l’omissione. Faccio un esempio: la Commissione Europea da un anno conduce trattative segrete con gli Stati Uniti per stabilire un partenariato sugli investimenti nel commercio, il Ttip (il Transatlantic trade and investment partnership, ndr). È un dispositivo che presenta rischi colossali per i diritti dei lavoratori, per la sicurezza alimentare, per la proprietà intellettuale. E i commissari lo sanno bene, tant’è che si chiudono in segrete stanze per discuterne. Da noi non se ne parla, in altri paesi sì. O anche: eleggere un presidente o un altro può fare la differenza, dopo i cinque anni di presidenza ottusamente liberale di Barroso.
Il socialdemocratico Schulz però sarebbe eletto con i voti del partito di Barroso.
Su alcuni temi Schulz potrebbe fare la differenza. Certo è un esponente della Spd tedesca post-Schroeder, dimissionaria da ogni tipo di sinistra. Il Pse si accorderà con il Ppe, in fondo la pensano allo stesso modo sul trattato di Maastricht, che è uno statuto di una corporation, non un documento politico.
L’Italia rispetterà le regole del six pack e del fiscal compact, o non potrà farlo, come ormai ammette anche il Pd?
I dati dicono che il nostro debito pubblico ormai è impagabile. Il Pil è sceso intorno ai 1550 miliardi, il debito è balzato oltre i 2mila. Per fare fronte ai requisiti del fiscal compact servirebbe destinare 40–50 miliardi l’anno dell’avanzo primario. Ma è insensato. Già oggi lo stato incassa circa 500 miliardi di imposte e tasse e ne spende intorno a 420–430. Toglierne altri 40–50 sarebbe un disastro per lo stato sociale e per l’amministrazione pubblica. Le strade sono due: o, appunto, il disastro, ovvero che l’Italia non si adegua e vengono erogate ulteriori misure punitive; oppure che i principali paesi con debito rilevante si accordano per diluire o abolire il fiscal compact; o comunque per procedere a una ristrutturazione pacifica del debito. Molto dipende dal risultato di questo voto.
È la proposta di Tsipras, che lei sostiene. Una conferenza per cancellare parte del debito, sul modello di quella di Londra del ’53 che permise di risolvere il debito della Germania. È fattibile, a suo parere?
Sarebbe un primo passo concreto. L’idea di battere i pugni sul tavolo, quella di Renzi, è ridicola: ci vuole un certo numero di paesi, Francia Spagna e altri, per ottenere una la conferenza. Documentando che il debito non si può pagare. Parlarne ad alto livello sarebbe già un passo avanti rispetto alla litania del ’ce lo chiede l’Europa’. La Germania non va demonizzata: ma va ricordato che ha tratto vantaggio dal fatto di non aver mai pagato i suoi debiti. Ha pagato in misura minima le riparazioni della guerra del ’15-’18. E quanto all’enorme debito lasciato dai nazisti, è stato cancellato dagli americani che hanno stampato miliardi di marchi deutsche mark, non più di reichsmark, nel giugno del ’48 li hanno portati in Germania, e il giorno dopo hanno distribuito la nuova moneta. Così si è abbattuto il debito pubblico tedesco. Sono argomenti delicati, ma qualcuno ben preparato che li affronti avrebbe più possibilità di successo che non uno che si faccia male battendo i pugni sul tavolo.
Le politiche di Renzi rispondono a criteri europei?
Agli aspetti peggiori, però. La Troika e il Consiglio europeo da vent’anni lavorano per comprimere le condizioni di lavoro i diritti e i salari, in linea con le misure regressive che hanno visto alla testa i partiti di sinistra, socialdemocratici tedeschi, socialisti francesi e laburisti britannici. C’è un documento del ’99, un proclama di Blair e Schroeder, che sembra scritto da Confindustria. E dice chiaro che bisogna tagliare lo stato sociale.
Renzi segue ancora quelle vecchie linee di direzione, per esempio sul lavoro?
La generalizzazione del lavoro precario è già una realtà. Nessun governo era arrivato a imporre spinte alla precarizzazione del lavoro come è stato fatto oggi.
Ora dovrebbe arrivare il vero cuore del job act, il contratto unico e la costosa riforma degli ammortizzatori sociali.
Prima che costosa è rischiosa. La cassa integrazione ha un vantaggio fondamentale: mantiene il posto di lavoro, quindi mantiene una qualche titolarità di diritti per il lavoratore. Quello che si prospetta, a quanto si capisce, cancellerebbe questa minima difesa di un lavoratore. Le ricette di Renzi sono figlie di quelle di Blair, a loro volta nipoti di quelle di Thatcher, e cugine di quelle di Schroeder, per il quale la socialdemocrazia doveva smettere di pensare che i lavoratori hanno diritto a un posto fisso. Appuntandosi il badge di partiti di sinistra hanno ridotto i salari e moltiplicato la precarietà. Così è l’Italia oggi. La precarietà è elevatissima, lo dice l’Ocse (l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, ndr). E porta a un impoverimento di tutta la struttura economica. Lavoratori malpagati consumano meno, la domanda aggregata — ricordava Keynes — soffre. E un’azienda che deve retribuire in modo decente e continuativo i lavoratori è incentivata a fare ricerca e sviluppo, gli altri fronti che fanno il successo di un’impresa. Invece poter usare i lavoratori con il criterio on-off, cioè quando mi servi ti uso e quando no ti butto, spinge le imprese a puntare solo sul costo del lavoro e trascurare il resto. I nostri impianti sono i più vecchi d’ Europa, le spese in ricerca sono miserande, sul 34 paesi Ocse siamo intorno al 30esimo.
Renzi dice: ce la faremo, no ai gufi.
È uno spot pubblicitario, ma se non si affrontano i nodi prima o poi, anzi presto, il conto lo pagheranno i lavoratori.
Su questo Grillo pesca voti a piene mani.
La proposta di Grillo sul lavoro è un insieme di cose differenti, alcune generiche e condivisibili, altre no. E tra i lavoratori c’è il malcontento, che ovviamente si sfoga contro i sindacati. È già successo con la Lega, oggi succede con il M5S.
Anche Renzi prova a intercettare il malcontento contro i sindacati, attaccando apertamente la Cgil.
I lavoratori sono insofferenti per quello che i sindacati non hanno fatto. Ma va detto che ai sindacati è stata fatta una guerra senza quartiere, dagli anni 80 in poi. La precarietà, appunto: come si fa a organizzare i lavoratori in presenza di venti contratti differenti piccole aziende sparse sul territorio? La globalizzazione ha significato una radicale trasformazione nel modo di produrre: i mille lavoratori che stavano sotto lo stesso padrone con lo stesso contratto sono diventati dipendenti di 15 aziende differenti con contratti differenti. E con un padrone che non si sa più chi sia. Di lì bisogna partire per ricostruire una qualche forma solida di sindacato.
dal Manifesto del 24 maggio 2014
da Francesco Mandarini | Mag 8, 2014
Sarà anche una frase fatta ma qualche volta è inevitabile ricordare che la storia tende a ripetersi trasformandosi a volte in farsa. Dure e ripetute dichiarazioni di vari esponenti del PD: Renzi ha vinto le primarie, è segretario del partito e presidente del consiglio. Lui ha il diritto dovere di decidere. Ciò che Lui decide lo decide il partito e quindi tutti devono obbedire. Ricorda qualcuno le regole delle democrazie popolari del blocco sovietico? Vigeva il meccanismo del centralismo democratico. Il partito sopra tutto. Che cos’era il centralismo democratico? Da Wikipedia: L’opera Che fare? del 1902 (di Lenin) è spesso vista come il testo fondante del centralismo democratico. A quel tempo, il centralismo democratico era generalmente visto come un insieme di principi per l’organizzazione di un partito rivoluzionario dei lavoratori. Il modello di Lenin per questo partito, che secondo lui doveva seguire i principi del centralismo democratico, era il Partito Socialdemocratico Tedesco.
La dottrina del centralismo democratico fu uno dei motivi dei contrasti fra bolscevichi e menscevichi. I menscevichi propugnavano una più lasca disciplina di partito all’interno del Partito Operaio Socialdemocratico Russo nel 1903, come fece Lev Trockij, negli scritti I nostri doveri politici, fino a quando Trockij si unì ai bolscevichi nel 1917.
Il centralismo democratico fu anche descritto nella Costituzione sovietica del 1977 come un principio per organizzare lo stato: “Lo stato sovietico è organizzato e funziona sul principio del centralismo democratico, cioè il carattere elettivo di tutti gli organi dell’autorità statale dal più basso al più alto, la loro responsabilità verso il popolo, e l’obbligo degli organi inferiori di sottostare alle decisioni degli organi superiori. Il centralismo democratico unisce l’autorità centrale con l’attività creativa e l’iniziativa locale e con la responsabilità di ogni organo e funzionario sul lavoro affidato a loro”. Ascoltando la ministra Boschi rimproverare coloro che prospettano soluzioni diverse di riforma del Senato da quelle dell’accoppiata Renzi-Berlusconi, vengono spontanei due suggerimenti. Il primo: rendere esplicita la volontà di trasformare il PD in un partito leninista. Il secondo consiglio visto che bisogna, per il bene del Paese, “riformare” in fretta la Costituzione, per non perdere ulteriore tempo, adottiamo la Costituzione sovietica del 1977. Sarebbe coerente con le ripetute affermazioni renziane attorno alla rivoluzione in atto.
da Francesco Mandarini | Apr 29, 2014
Funziona così. Il presidente del Consiglio convoca (di buon mattino) la presidente della commissione affari costituzionali, che in quanto relatrice ha in mano il progetto di riforma della Costituzione, e con lei il capogruppo del Pd che si suppone o si spera controlli le intenzioni di voto di tutti i suoi senatori. La riunione serve a trovare un accordo, un compromesso sulla riforma del bicameralismo. È una riunione in famiglia. C’è anche la ministra Boschi, sono tutti di un solo partito (il Pd) ma hanno sul tavolo la legge che modifica 44 articoli, quasi un terzo, della Costituzione. Il presidente del Consiglio è quello che ha detto che le riforme si devono fare con tutti. L’ha detto per difendere il suo patto obbligato con Berlusconi, senza i cui voti non avrebbe potuto imporre né la nuova legge elettorale né questa riforma nemmeno al suo partito.A palazzo Chigi ieri erano in quattro. Il dibattito in commissione affari costituzionali è durato dieci giorni, non dieci mesi, e l’89 percento degli interventi ha bocciato la riforma proposta dal governo. Ma la riforma si deve fare: Matteo Renzi ha minacciato altrimenti che lascerà non la carica ma addirittura la politica. Senza la riforma ci sarebbe «il suicidio del sistema democratico», come da battagliero parere della teorica minoranza interna al Pd. Renzi, che ha firmato in prima persona il progetto di riforma costituzionale, trasferisce al governo anche il lavoro di mediazione che dovrebbe fare il parlamento. Il suo disegno di legge ha qualcosa di più degli ultimi due tentativi di organica revisione della Carta, il Titolo V del centrosinistra e la Costituzione di Lorenzago del centrodestra: entrambi portavano forte l’impronta del governo dell’epoca ed entrambi sono falliti. Mai era successo però che il presidente del Consiglio si trasformasse anche in relatore del testo di riforma, seguendo personalmente anche le modifiche. Accettando e respingendo emendamenti. Oggi lo farà davanti all’assemblea del gruppo Pd.
Dal Manifesto del 29 aprile 2014 di A.Fabozzi