La classe dirigente politica non ha più alcuna capacità di intendere ciò che la gente comune pensa rispetto alle esigenze del Paese.
Anche il voto referendario di domenica scorsa è stato una sorpresa per tutti, commentatori politici compresi. Dopo undici anni ha votato per un referendum oltre il 50% degli aventi diritto. Eppure essendo un referendum confermativo non c’era bisogno di alcun quorum.
Una campagna elettorale inesistente in cui solo il sindacato aveva raccolto l’appello dei comitati per il No guidati dal presidente emerito Oscar Luigi Scalfaro. I ciarlieri leader dell’Ulivo si erano tenuti al coperto e le poche manifestazioni dei partiti erano state, a Roma come a Bologna o Milano, un flop. Non trattandosi del solito concorso elettorale per la conquista di un qualche seggio, le periferie, anche quelle che più rosse non si può, non avevano visto la scesa in campo dell’esercito dei professionisti della politica e dell’amministrazione. Forse è proprio per questo che il No ha ottenuto il 62% dei consensi? I pochi interventi fatti dai leader dell’Unione o da qualche gigante del pensiero del riformismo italiano, stimolavano ad un voto per il Ni: si voti No perché la riforma della Costituzione, che bisogna fare, è meglio che la facciamo noi che siamo i veri riformisti. Incapaci di ogni analisi, testardamente dopo il voto, i “soliti noti” hanno la faccia di riproporre un tavolo di trattativa per cambiare la Costituzione. Trattare cosa e con chi? Questo è il dilemma. Non se ne può più. In questo caso ha ragione Bertinotti. Una pausa di riflessione farebbe bene a tutti. La vittoria del No è certamente una sconfitta per Bossi, Fini e Berlusconi, ma è anche una sberla per coloro che nel centrosinistra hanno in testa le stesse idee sul primariato forte, sullo svuotamento del parlamento a vantaggio del Capo.
Il voto dice chiaramente che il popolo italiano preferisce l’attuale Costituzione e non ci può essere né bicamerale né assemblea costituente legittimata a modificare l’essenza di una repubblica che è e deve rimanere una repubblica parlamentare. Così ha deciso il popolo con il suo No alla riforma della destra. Dopo il voto qualche dubbio sarà venuto ai fautori del presidenzialismo regionale? Non credo, il dubbio a certe latitudini non è merce alla moda.
La Costituzione è emendabile figuriamoci, ma la storia della “grande riforma” di craxiana memoria è da considerarsi chiusa con il voto di domenica. Prodi ha detto che l’Ulivo diminuirà i parlamentari? Bene, predisponga il disegno di legge.
Forse è anche il caso di affrontare in generale il problema dei costi della politica. L’esercito, ben pagato, degli addetti ai lavori è abnorme per un Paese che vuol dirsi moderno. Tra consulenti, staff, addetti vari si contribuisce certamente all’occupazione intellettuale. Purtroppo qualche problema per la spesa corrente degli enti si crea. Le spese per il funzionamento tendono ad aumentare in maniera preoccupante.
Tutte le regioni italiane hanno aumentato il numero dei consiglieri e attraverso le più diverse leggi elettorali la casta politica perpetua il suo dominio sulla società italiana. Non è tempo di andare ad una sola legge elettorale per le elezioni amministrative e per quelle regionali?
Anche nei sistemi federali più avanzati esiste un solo sistema elettorale, non uno per regione come in Italia. Dove il popolo elegge direttamente il presidente, l’assemblea è eletta con voto disgiunto. Governo e assemblea sono poteri separati. Chiedere conferma ai tanti consulenti giuridici.
Grazie alla creatività del centrosinistra, in accordo in questo con il centrodestra, ogni oligarchia locale si è scelto il miglior sistema per durare nel tempo e le carriere divengono così eterne. Uno sguardo alla nostra piccola Umbria basta per trovare la conferma di quanto detto. Il rinnovamento per il rinnovamento non è cosa saggia di per se. Ma ascoltare da dirigenti autorevoli, organigrammi proiettati al 2020 che riguardano persone già in campo da una trentina d’anni una certa impressione la fa. Non sarà una delle ragioni che porta tanti giovani ad impegnarsi nel volontariato piuttosto che all’interno di un partito? A venti anni ci si può impegnare per un progetto politico al servizio della gente. Fare il galoppino per questo o per quel politico manca di attrattiva specialmente per un giovane democratico.
Sconvolge a molti il fatto che non si valuta più un dirigente per il risultato del suo lavoro. Chi li ha conosciuti sa che i processi autocritici sono certo da evitare, ma almeno avevano il merito della trasparenza. Non si pensa che una valutazione oggettiva del bilancio di un’attività, sia essa politica che amministrativa, deve essere fatta prima di scegliere per un incarico qualsiasi? Altrimenti in base a quali criteri si premia o si rimuove un dirigente? Molti ritengono scandaloso che l’appartenenza ad un partito sia uno dei criteri per la scelta. Al riguardo c’è da discutere e approfondire. Ma forse siamo ad una fase ancora diversa. I partiti non sono più centri di democrazia organizzata. Sono sempre più agglomerati di interessi locali e personali. Il rischio è quello che non si scelga con il criterio di appartenenza politica, ma piuttosto con un metro ancor meno trasparente: quello della amicizie o inimicizia personali. Non si può che essere preoccupati. Le difficoltà derivanti dallo stato della finanza pubblica si mescolano a disillusioni e aspettative le più diverse. Sarebbe grave se, partiti che hanno responsabilità pluriennale del governo della cosa pubblica, procedessero nelle scelte sulla base delle volontà di consorterie, di salotti, di simpatie personali o di interesse del territorio rappresentato da questo o da quello.
Corriere dell’Umbria 2 luglio 2006

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