Quella che hanno votato i partiti della Casa delle Libertà  non è
una riforma della Costituzione, ma la demolizione della Carta
fondativa che ha garantito al Paese, dopo la dittatura fascista,
oltre cinquanta anni di sviluppo della democrazia. Non è che
quella votata dalla destra sia una Costituzione antidemocratica.
Il punto non è questo. Ma la democrazia ha bisogno di aggettivi
per essere definita. Quella che esce dal voto del Parlamento a
maggioranza berlusconiana è una democrazia costruita confusamente,
senza pesi e contrappesi dove la divisione dei poteri è tutta a
vantaggio del leader contro l’assemblea parlamentare.
Gli altri poteri costituiti, a cominciare da quello del presidente
della repubblica, perdono competenze e ruolo. La questione è grave
perchè si vuole destrutturare un impianto istituzionale che poteva
essere anche da correggere, ma che aveva una sua coerenza nella
divisione dei poteri e delle competenze. Diviene gravissima
quando, a regime, la nuova carta consentirà , ad ogni statarello
federale, di avere la propria sanità . Non più Servizio Sanitario
Nazionale ma sanità  regionale nonostante tutto che ne consegue in
termini di parità  del diritto di cittadinanza e di uguaglianza di
trattamento dei cittadini.
A conferma che non sempre il nuovo che avanza è meglio del
vecchio, la devolution voluta da Bossi e Berlusconi è un
accrocchio istituzionale che non funzionerà . Lo dicono tutti i
costituzionalisti e gli esperti del ramo denunciano i rischi della
paralisi istituzionale.
Qualche perplessità  è venuta, dopo aver votato a favore, allo
stupefacente onorevole Casini. La stessa Conferenza Episcopale
Italiana ha qualche dubbio rispetto alla devolution. Ed è tutto
dire del disastro prodotto dalla mistura tra il bossismo e il
berlusconismo.
Ma dovrà  essere il popolo a dire l’ultima parola. Il referendum
confermativo è già  in costruzione e dovrà  svolgersi entro sei mesi
dall’approvazione della “riforma”. Dipenderà  dalla capacità  delle
forze politiche della sinistra e del centro democratico se
attraverso il voto si riuscirà  a mantenere la civiltà  della
Costituzione uscita dall’Assemblea costituente votata il 27
dicembre del 1947.
Il referendum confermativo non sarà  facile e il risultato non è
scontato. La materia è ostica ai comuni mortali.
Chi è senza peccato scagli la prima pietra si potrebbe dire. E il
centrosinistra di peccati istituzionali ne ha parecchi da farsi
perdonare. Qualche esemplificazione. La modifica del Titolo Quinto
della Carta che introduce il federalismo, è stato votato dal
centro sinistra (con esclusione di Rifondazione) con una
maggioranza risibile. Quell’errore ha aperto una prateria alle
incursioni dei leghisti e dei berluscones che hanno così avuto
modo di travolgere completamente il dettato costituzionale. Il
fatto che in Italia vi siano ventisei sistemi elettorali diversi
non è responsabilità  di Berlusconi. E’ piuttosto frutto di una
scelta di politica istituzionale che, importando, deformandoli,
modelli anglosassoni di forme della democrazia, ha privatizzato la
vita politica italiana costruendo un ceto politico
autoreferenziale ed intangibile.
Il presidenzialismo è figlio legittimo della leaderite acuta,
malattia infantile del riformismo nostrano. Ulteriore tappa di
svuotamento del ruolo delle assemblee rappresentative. E’ questo
un processo ormai decennale che se ha risolto il problema della
governabilità , ha impoverito ogni processo di partecipazione e di
rappresentatività  delle forze politiche, sociali e culturali. Il
“palazzo” si è ulteriormente allontanato dal popolo.
Non è successo anche nella nostra collettività ? Siamo una piccola
regione in cui è facile per i cittadini conoscere chi li
amministra. E’ diventato però più complesso poter parlare con loro
se non si rappresenta qualcosa o qualcuno.
Bisogna capirlo. Gli impegni sono tanti e i pur cospicui uffici di
gabinetto non riescono a soddisfare le richieste di incontro dei
comuni cittadini. E poi le strutture pubbliche endoregionali sono
così numerose da scoraggiare chiunque a richiedere
all’amministratore un chiarimento, un suggerimento. Come fare a
districarsi nelle frantumate competenze di enti, società  pubbliche
e via elencando?
Che qualcosa non vada se ne sono accorti anche i nostri leader. E
anche per questo si è aperta in Umbria un’aspra discussione su
come riformare la struttura istituzionale locale. Non è facile
scegliere una strada. Da dove partire? Gli interessi in campo sono
molti. Vi sono quelli legittimi e quelli “consolidati”. L’Umbria,
anche nel passato, ha avuto molti enti sovracomunali che spesso si
sono rivelati non efficaci e alcuni inutili. La differenza
essenziale con l’oggi è che gli addetti ai lavori del tempo
passato non avevano prebende significative, spesso le loro
indennità  erano risibili. Le cose sono al momento diverse. Da qui
la difficoltà .
Si è consolidato negli anni un ceto politico amministrativo che
ruota nei diversi incarichi e gli addetti non hanno compensi
irrilevanti. Per impedire un processo di innovazione e riforma si
alzeranno le bandiere dell’interesse di questo o quel territorio.
Scenderanno in campo forze sociali e politiche per salvaguardare
l’ente e con esso il ruolo di Tizio e di Caio. Niente di nuovo
sotto il sole se non il fatto che le risorse pubbliche sono in
netto calo, qualcosa bisogna fare. Si può essere creativi quanto
si vuole con i bilanci pubblici, Tremonti insegna. Non esistono
ricerche al riguardo, ma l’impressione da profano è di un netto
incremento negli anni di tutte quelle spese che nei bilanci
vengono iscritte “per il funzionamento” dell’ente.
E’ arrivato il tempo di riconsiderare le scelte di risolvere i
problemi creando enti? Che sia al termine, per mancanza di
risorse, la stagione dei manager?
Corriere dell’Umbria 20 novembre 2005

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