La mia è stata una generazione politicamente fortunata. Non solo perchè nel mondo dei nostri venti anni la caratteristica essenziale che accompagnava le aspettative del popolo era la speranza di una vita migliore, ma anche perchè chi iniziava a militare nel sindacato o nella variegata struttura del movimento operaio, si poteva confrontare e formare politicamente, attraverso un rapporto intenso con una generazione non comune di dirigenti.
La loro singolarità non era frutto soltanto della storia che avevano vissuto nella loro giovinezza: l’opposizione al fascismo, la Resistenza, che per molti di loro, ha rappresentato il viatico all’impegno politico, a guida delle aspre lotte del primo dopoguerra per la realizzazione di una democrazia di massa, come occasione di formazione politica ed umana. Nonostante l’egemonia democristiana, la sinistra italiana, comunista e socialista, riuscì a costruire un movimento politico che, pur condizionato dalla guerra fredda, seppe interpretare al meglio le esigenze di un popolo travolto dalla guerra nazi-fascista.
Quello che fu chiamato il partito nuovo fu frutto dell’intelligenza di Togliatti e dei dirigenti usciti dalla clandestinità e tornati dall’emigrazione politica. Questo gruppo dirigente, il cui prestigio era leggendario, riuscì ad aprirsi alla generazione di uomini e donne, cresciuta nella lotta di liberazione, nel conflitto elettorale per la Repubblica, che, dopo la bruciante sconfitta delle elezioni politiche del 1948, rimase in campo con enormi sacrifici personali e familiari.
Il rinnovamento del partito non fu un processo facile, lineare. Lo stalinismo era il brodo culturale di una parte rilevante del gruppo dirigente, ma anche gran parte del popolo comunista si riconosceva nel legame internazionalista inteso, di fatto, come rapporto di subalternità all’URSS vittoriosa sul nazi-fascismo.
I vincoli formali e sostanziali, le liturgie che regolavano la vita interna del partito, rendevano il processo di rinnovamento dei gruppi dirigenti difficile e contraddittorio.
La discussione interna ai partiti del movimento operaio non fu un pranzo di gala. Rispetto alla trasformazione del partito da avanguardia della rivoluzione a partito della democrazia progressiva, lo scontro interno fu aspro, lacerante. Soltanto con l’ottavo congresso del Pci prevalsero le forze del rinnovamento e si accelerò la costruzione di un movimento politico di massa capace di radicarsi nella realtà che voleva trasformare.
Su questi temi esiste una letteratura imponente, i vari passaggi vissuti dal partito sono stati ampiamente analizzati e descritti. Per quanto mi riguarda, tuttavia, i processi di conoscenza e di comprensione sono stati frutto non solo di letture, ma soprattutto dell’intenso rapporto che ho avuto da giovanissimo con alcuni dei protagonisti di quelle discussioni, di quei drammatici congressi di partito. Intendiamoci, vincoli e liturgie rimasero, furono una costante anche nel partito post XX congresso del PCUS.
Nell’ottobre del 1956 Raffaele Rossi, in un bilancio sul dibattito della federazione ternana dopo il Rapporto Krusciov, scrive: “No, questo modo di discutere non è una cosa positiva e io non credo che servirà a qualcosa. La discussione nella sezione di una città della nostra provincia aveva avuto questa caratteristica. Quando qualche giorno dopo un dirigente della federazione invitò i segretari delle sezioni di quel comune a riunirsi per discutere del XX Congresso, costoro unanimemente risposero: no, lasciateci in pace con le critiche a Stalin. Abbiamo la lotta dei mezzadri cui pensare.”. E’ un esempio di come fu difficile trasformare l’utopia del socialismo in un discorso di dolorosa verità che consentisse di avanzare nella costruzione di un partito di massa che avesse come obbiettivo primario una repubblica democratica, come terreno più avanzato per la costruzione di una società socialista diversa da quelle conosciute.
Insomma, una sensibilità , diciamo così, di staliniana memoria non ha mai cessato di esistere sia ai vertici sia alla base del PCI, ma la mia è stata una formazione politica che ha avuto maestri diversi.
I miei tutori erano tutti espressione di una generazione che aveva fatto i conti con le tragedie dell’URSS e del movimento internazionalista. Leader fortemente legati alla società ed espressione di quel tessuto democratico rifiorito dopo la caduta del fascismo. Molti di loro, compreso Raffaele Rossi, abbandonarono la professione, il posto fisso, per divenire funzionari di partito stipendi, quando c’erano, che definire miseri è un complimento. Per la cronaca. Fino a tutti gli anni 80, il trattamento di un funzionario del PCI non poteva superare quello di un operaio metalmeccanico al massimo della carriera. La sobrietà come vincolo del lavoro politico era un valore che oggi sembra smarrito.
Operaio in una grande fabbrica, con la timidezza e l’incoscienza dei miei diciotto anni, mi apprestai alla militanza politica con lo spirito dell’allievo.
A stimolare la passione per la politica, furono, infatti, il fascino e la curiosità per la storia raccontata, in una riunione di sezione o magari in un caffè del centro di Perugia, dai compagni più anziani. Le riunioni non finivano mai, continuavano, deambulando per Corso Vannucci, in un bar, in un ristorante e coloro che consideravo i miei insegnanti avevano quasi tutti la pazienza di continuare la lezione. Assieme alle lotte sociali, a cui si cominciava a partecipare, il prestigio e il fascino del gruppo dirigente nazionale e locale del PCI nei primi anni 60 attrassero alla militanza politica moltissimi giovani di ogni ceto sociale.
La generazione con le magliette a strisce fu la protagonista della ribellione contro il governo Tambroni nel luglio 1960. Molti di loro aderirono al movimento comunista italiano, anch’io fui tra questi. Iscriversi al movimento giovanile comunista fu per il sottoscritto come entrare in una scuola superiore, un’accademia in cui professori di diverse materie insegnavano l’arte della politica. Una “materia” che, se affrontata con passione, ti cambia la vita per sempre. Non solo apprendevi come leggere le contraddizioni del tempo o i meccanismi della critica e dell’autocritica, ma venivi stimolato da questo o quel dirigente alle letture più varie, all’amore per la cultura umanistica, per l’evoluzione delle scienze, per la ricerca sociale.
Non si trattava di un indottrinamento con testi di Marx o Lenin. Venivi educato alla cittadinanza, alla democrazia e al rispetto della cosa pubblica. Ti sentivi parte di una comunità che aveva come obbiettivo la trasformazione del mondo. Per fortuna, a vent’anni, le ambizioni possono essere anche esagerate e in noi c’era la convinzione che l’orizzonte del socialismo non fosse un’utopia ottocentesca.
Come succede anche in altri luoghi di formazione i professori non avevano tutti le stesse qualità e la stessa pazienza. Certamente Raffaele Rossi fu un dirigente che per qualità politica e per pazienza è stato maestro indiscusso. In tanti anni di conoscenza non l’ho mai sentito alzare la voce. Anche quando le tensioni interne o le situazioni sembravano sollecitare asprezze e durezze, Lello trovava il modo per cercare una ragione e un’apertura agli argomenti dell’altro. Utilizzando la grande capacità di legare il quotidiano ai processi della storia, era sempre capace di trarre dai conflitti una sintesi unitaria. L’affetto universale che ha avuto nella sua vita Lello, era dovuto anche alla sua capacità di ricercare sempre il dibattito con culture diverse dalla sua. Le culture storiche a radice socialista, cattolica e liberale, nella visione di Rossi, erano tutte necessarie, indispensabili, nella costruzione della Repubblica democratica. Convinto che soltanto attraverso la discussione tra diversi potesse crescere una società democratica come terreno più avanzato di emancipazione dei ceti popolari, Rossi ricercò sempre il confronto. Meno disponibile fu nei confronti delle spinte radicali che esplosero negli anni 60 e 70. Come gran parte dei dirigenti, Rossi era conforme alla teoria del nessun nemico a sinistra, della lotta su due fronti. Renato Covino, in un suo scritto, ha ricordato come Lello Rossi, dopo le elezioni politiche del 1972, trattò i compagni del Manifesto. Covino scrive: “Parlando del risultato elettorale della lista del Manifesto, mescolò accenti di disprezzo ad elementi di irrisione e di scherno. In questo Raffaele Rossi aveva quel tipo di coerenza di buona parte del gruppo dirigente del Pci, per il quale la fedeltà al partito non era da intendersi tanto ad un corpo di teorie e di idee quanto alla forma organizzativa in cui queste idee si esprimevano, al partito, da difendere contro tutto e contro tutti.”.
Schivo alla demagogia o della battuta ad effetto, in un intervento di Rossi sapevi che avresti trovato uno stimolo alla riflessione e alla voglia di saperne di più.
Ricordo un congresso di federazione dei primi anni ottanta. Si svolgeva nella Casa del Popolo di Umbertide. Un congresso difficile perchè affrontava la tesi di Berlinguer sulla fine della spinta propulsiva del campo socialista guidato dall’URSS. Si trattava di un passaggio decisivo nella riaffermazione dell’autonomia del PCI. Il compagno della direzione che avrebbe concluso il congresso era Paolo Bufalini. Figura carismatica, apprezzato per il suo grande equilibrio, ma anche conosciuto per la sua collocazione decisamente nel centro-destra del partito, Bufalini aveva, ovviamente, la responsabilità di confermare la linea nazionale voluta dal comitato centrale. In una regione in cui il deputato di riferimento era stato per tanti anni Pietro Ingrao, in una fase del dibattito interno in cui si sentiva la presenza degli orfani del legame di ferro con l’URSS che, sbagliando, ritenevano che difendere questo rapporto fosse una posizione di sinistra, il compito di Bufalini non appariva affatto semplice. Molti gli interventi a sostegno della linea berlingueriana, molti coloro che, con passione segnata da settarismo, difendevano l’antico legame con l’URSS. Lo scontro ci fu e raggiunse accenti molto aspri nell’assemblea plenaria e nella commissione politica. Senza mai alzare i toni, rifuggendo dalle frasi fatte, Lello Rossi intervenne verso la chiusura del dibattito con una sorta di lezione sulla storia del mondo e sui processi che faticosamente determinano l’avanzata della civiltà e il progresso dell’umanità . Utilizzando le ricerche di Fernand Braudel e gli studi di Eric J.Hobsbawam, Lello tenne il congresso in silenzio assoluto per tutta la durata dell’intervento. Concluso il quale i delegati si alzarono in piedi e applaudirono per lungo tempo. A Paolo Bufalini risultò facile il compito di concludere il dibattito congressuale: gli bastò citare ripetutamente le argomentazioni che aveva portato Lello Rossi a motivazione della giustezza della linea.
Nei primi anni sessanta non ebbi molte occasioni d’incontro personale con Lello. Il suo baricentro politico era da tempo spostato nel ternano, dove fu per lungo tempo segretario di federazione. Soltanto dopo l’undicesimo congresso tornò a Perugia. Per alcuni anni non ebbe incarichi politici di rilievo, dirigeva il mensile “Cronache Umbre” e poi, eletto senatore della Repubblica, spostò l’asse del suo lavoro a Roma.
Essendo un perugino del borgo, la sua presenza in città era, comunque, costante e ricorrenti i suoi interventi ai comitati regionali di quegli anni pieni di passione politica.
Le lotte operaie e studentesche della fine degli anni 60 furono uno stimolo per la società italiana ed anche i partiti della sinistra furono attraversati da un travaglio molto lancinante. Gran parte dei giovani dirigenti lasciarono il partito umbro, formando gruppi politici vitali e articolati che, con varie sigle, si collocarono alla sinistra del PCI.
La lacerazione provocò un grave danno. Una generazione intera di giovani dirigenti non si riconosceva più nella politica del più grande partito della sinistra. Il travaglio fu gestito con intelligenza dal gruppo dirigente regionale e provinciale a Perugia e a Terni. Nessuna scomunica, ma continuazione di un confronto tra compagni che avevano fatto un tratto di strada insieme. Non mancarono le asprezze che, comunque, non impedirono nel tempo di recuperare alcune forze e intelligenze al partito e alle organizzazioni di massa.
Con l’avvento dell’istituto regionale tutto cambio. Non si trattava più di dimostrare il buon governo nelle amministrazioni comunali o provinciali gestite dalla sinistra. Governare la regione significava affermare la capacità della sinistra di saper gestire pezzi decisivi della struttura statale. Ancora nessuno ha scritto una storia approfondita, argomentata, dei primi anni dell’esperienza regionalista in Umbria.
Difficile, per chi l’ha vissuta in prima persona nella giovinezza, evitare una visione idilliaca di una fase politica che ha contribuito a cambiare il modo di essere della nostra comunità e segnato un’intera epoca.
In questa sede mi preme affrontare il cambiamento profondo nel rapporto tra le leadership del partito e quelle che lavoravano nelle istituzioni. Il dibattito interno al PCI assunse in materia toni duri e le questioni da risolvere si presentarono tutt’altro che semplici. Il non detto superava spesso quello che emergeva nelle discussioni, stratificando così astiosità personali nel gruppo dirigente. Al di là delle diverse sensibilità cominciarono ad emergere personalismi e giochi di squadra. L’antica tesi del primato del partito risultò chiaramente in conflitto con la necessaria autonomia del governo regionale che, per svolgersi correttamente, doveva entrare in rapporto continuo con ceti e interessi che tradizionalmente erano lontani dalle priorità del movimento operaio. La formula ambigua del primato della politica, se mal usata, poteva rendere l’amministrare la cosa pubblica un compito difficile e di fatto limitare l’autonomia delle istituzioni o colpire al cuore il partito come spazio di costruzione di idee e di movimenti di massa.
Si era in ritardo nel comprendere che i luoghi dove si svolgeva l’attività politica erano ormai diversi, molteplici. La giunta regionale e quelle di comuni e province, le assemblee consiliari e tutta la rete delle organizzazioni di massa, ad iniziare dal sindacato, praticavano ormai un’autonoma elaborazione politica che assumeva la stessa legittimità di quella di un comitato regionale di partito. Questa fu una novità che andava oltre la storia del movimento comunista. In quella tradizione il segretario di partito era riconosciuto come leader e responsabile della linea. Non che non ci fosse dibattito e discussioni tra i diversi leader, ma alla fine, attraverso il metodo del centralismo democratico, era la segreteria che dava la linea. Si consolidò, così, una mutazione che metteva che andava oltre una storia che aveva formato gruppi dirigenti e prodotto nella base del partito un senso comune consolidato che assegnava un ruolo preminente alle decisioni della segreteria del partito, sia nazionale che locale. Forse perchè non intesa in tutta la sua ampiezza, la contraddizione non fu gestita con saggezza da nessuno. O meglio, pochi capirono che non si trattava di cattiva volontà dei singoli, ma di un percorso storico-politico diverso dal passato in cui l’autonomia dei diversi centri di elaborazione poteva arricchire tutti se tutti accettavano la diversità dei ruoli. Ciò non avvenne ed è in questo contesto che esplose la crisi del gruppo dirigente regionale e della federazione perugina, provocando il ricambio dei vertici del partito.
Raffaele Rossi, a in quella fase fuori dall’attività politica a tempo pieno, divenne segretario regionale come soluzione di garanzia di un gestione unitaria di un partito in forte crescita nei consensi, ma diviso nei suoi gruppi dirigenti. La difficoltà permase per lungo tempo, provocando un vasto rimescolamento nei ruoli dei diversi compagni.
Alle elezioni regionali del 1975, il Pci ottenne il 46,1% dei voti, aumentando di quasi il 5% il consenso elettorale. Questo è stato il massimo dei risultati in tutta la storia del partito.
Pochi mesi dopo la tornata elettorale si decise il cambio del segretario della federazione perugina. Raffaele Rossi illustrò al comitato federale la proposta e il curriculum del candidato. Il sottoscritto, assessore in regione, era il prescelto dalla segreteria regionale, ovviamente in accordo con la direzione romana. Non fu una discussione tranquilla. Nessuno esplicitò fino in fondo le perplessità , ma molti non erano d’accordo che un ingraiano e quindi da anni con posizioni di minoranza nel partito, divenisse il leader della federazione. Alla fine, soltanto il segretario regionale della CGIL votò contro. Lello, dopo l’elezione mi chiamò per tranquillizzarmi. Capiva che quel voto contrario mi avesse scosso. Per le mie origini operaie, avere a sfavore il leader del sindacato non era cosa da poco. Sollecitandomi a svolgere il mio ruolo nell’interesse di tutto il partito, schivo come suo solito, mi dette una pacca sulle spalle, mi assicurò il suo sostegno, mi fece coraggio. Ne avrei avuto bisogno.
Raffaele Rossi ha cambiato spesso ruolo e funzioni.
Divenne vice-sindaco di Perugia nella consiliatura 1980-1985. In quel ruolo lo rincontrai come assessore alla programmazione della giunta regionale. Furono anni di grande fervore amministrativo e tra Ente Regione e Amministrazioni comunali ci fu un’intensa collaborazione.
A metà degli anni ottanta, il Comune di Perugia realizzò le scale mobili della Rocca Paolina. Il progetto per completarsi prevedeva una ragnatela di parcheggi per rendere più accessibile il centro della città . La giunta regionale utilizzò diffusamente una linea di finanziamento nazionale chiamata F.I.O., fondo investimenti occupazione. Uno dei progetti riguardava il parcheggio di Piazza Partigiani. I tecnici regionali e comunali dovevano presentare un progetto che avesse possibilità di essere finanziato secondo i criteri del rapporto costi/benefici. La Regione sosteneva tre piani di parcheggio per rendere questo rapporto più forte. I tecnici comunali avevano però un altro mandato. Il vice-sindaco sosteneva che tre piani avrebbero messo a rischio i giardini di Piazza Partigiani e impedito il mantenimento del gioco delle bocce ivi esistente. Discussi con Lello della cosa e, alla fine, anche per rispetto dell’autonomia comunale, si decise per due piani di parcheggio. Il progetto, con qualche difficoltà , fu finanziato dal governo centrale e così il gioco delle bocce si salvò. Lello Rossi ha avuto sempre ben presente l’esigenza di salvaguardare anche gli aspetti minuti della tradizione cittadina. Anche a dispetto di quella che poteva essere considerata come la scelta giusta, un parcheggio più grande, preferì il progetto minore a custodia della tradizione popolare.
Non so se avesse ragione Lello o il sottoscritto. Comunque, oggi a Piazza Partigiani nessuno più gioca a bocce, ma il parcheggio risulta sufficiente anche a due piani. Alla luce del poi si può dire che avevamo torto entrambi.
A quel tempo la classe dirigente perugina non capì che la città iniziava a perdere le funzioni del suo centro storico. Non era questione di bocce o di posti auto. Assieme alla fuga di ogni attività direzionale, lo svuotamento dei suoi borghi ne avrebbe segnato il destino. Quella di oggi è una città che vive dei suoi studenti, per fortuna, di alcuni apparati pubblici, di attività commerciali minori e di turisti. Naturalmente molti apprezzano questa trasformazione forse non dissimile da quella di altre città storiche. Sono certo, comunque, che Lello non amasse la città trasformata d’estate in una sagra perpetua e rumorosa, in una sorta di Rimini senza mare in cui non è più possibile nemmeno andare al cinema se non in periferie senza carattere e storia. Corso Vannucci ha perso per sempre la sua antica caratteristica: l’acropoli non è più luogo in cui le classi dirigenti e il popolo s’incontrano a discutere dei fatti della città e del mondo. Le classi dirigenti hanno altri luoghi d’incontro e il popolo preferisce deambulare nelle piazze dei grandi supermercati.
A Rossi questa trasformazione della città non piacque. Ne abbiamo discusso.
Con lo scioglimento del PCI i rapporti con Lello si sono fatti più saltuari. Incontri per strada o a qualche manifestazione.
La mia militanza politica è terminata nel 1991 mentre la scelta di Lello è stata quella di seguire la trasformazione del PCI nelle diverse Cose che periodicamente si sono create a sostituzione del vecchio partito.
Lo ha fatto sempre con spirito critico, ma senza mai mettere in discussione la sua idea di una strada lineare della storia che, nell’ultima fase della sua vita, ha pensato si realizzasse nel Partito Democratico.
La mia è stata una esperienza politica e umana certamente fortunata. Aver percorso un così lungo tratto della vita confrontandomi con persone della qualità politica e culturale di Lello, rende più lieve la sconfitta della sua e mia generazione nella realizzazione di quell’utopia che Lello ha così bene delineato nei suoi scritti.
Mi dico spesso che è meglio evitare di guardare troppo al passato. Dicono che la nostalgia non è una categoria della politica e forse hanno ragione. Ma quando penso agli insegnamenti che hanno oggi i giovani nell’affrontare le terribili contraddizioni della globalizzazione, non posso evitare di rimpiangere il tempo in cui potevi discutere con maestri che ti aiutavano a capire il mondo e ti indicavano le strade possibili per poterlo trasformare.
Alain Resnais nel film La Guerra è finita fa dire a Yves Montand che la pazienza e l’ironia sono le due principali virtù di un rivoluzionario.
Queste virtù, assieme alla sobrietà , sembrano scomparse nella nostra società . Non è una buona cosa e sono certo che anche Raffaele Rossi la penserebbe come me.
Umbria Contemporanea, dicembre 2010