Un congresso di partito è sempre un evento importante per la democrazia.
Naturalmente non sempre le assise di partito hanno lo spessore di una svolta
rilevante per la vita interna e per l’immagine esterna di una data formazione
politica. Dipende dalle fasi della democrazia e questa che viviamo è una
pessima fase.
Da un esame delle piattaforme presentate dalle diverse correnti con cui i
Diesse vanno a congresso non sembrano risolti i problemi che attraversano il
maggior raggruppamento della sinistra italiana. Sarebbe ingeneroso non
considerare lo sforzo di elaborazione, ma le idee con cui Fassino vuol essere
riconfermato segretario non hanno la limpidezza necessaria a sciogliere il nodo
che aggroviglia da anni il partito nato dallo scioglimento del PCI. Partito
democratico o partito del socialismo europeo? Siamo ancora a questo nodo.
Nella mozione del segretario diessino rimane irrisolta la questione dell’identità
dei DS.
E’ tanto vero questo che esponenti di primo piano (Ruffolo, Trentin, Reichlin e
molti altri quasi tutti “fassiniani”), hanno sottoscritto un documento che chiede
al congresso la scelta di enfatizzare il fiore del socialismo europeo nel simbolo
diessino. Meno quercia e più rosa. Se non vuole essere una banale operazione
di marketing, bisognerebbe che gli stessi dirigenti facciano un passo avanti nel
dibattito congressuale chiedendo, alla solida maggioranza di Fassino, di
risolvere finalmente la questione che ha afflitto i diesse negli ultimi quindici
anni: quali valori e ideali rappresentare in Italia e in Europa. E principalmente
quale società intendono contribuire a costruire dal punto di vista sociale e
democratico.
Riproporre, come Fassino scrive, il riformismo come discrimine e come ideale
non basta. In Italia tutti si dichiarano riformisti, anche i beluscones che a modo
loro, stanno “riformando” il Paese.
Le parole, specialmente se sono aggettivi e non sostantivi, mutano nel tempo e
nel significato. Riformismo non significa niente se non si precisa che cosa e in
quale direzione si riforma. Affermare che i diesse sono per un riformismo di
tipo socialista, chiarirebbe meglio la differenza tra una sinistra moderna, il
centro democratico e la destra liberista. Ma forse qui sta il punto. Una parte
consistente (?) della maggioranza che si richiama a Fassino ritiene che è
proprio l’orizzonte di obbiettivi socialisti che va abolito? E’ questa una
spiegazione logica per l’ambiguità e il travaglio di questi anni. Il modello di
riformismo che si ha in testa è il blairismo e non la socialdemocrazia
scandinava? Si comprende la cautela. Esplicitare questa scelta (con la guerra
angloamericana in Iraq) qualche problema lo provocherebbe al segretario e alla
sua maggioranza. L’incertezza rimarrà.
L’accordo con la mozione di Fassino sembra essere preponderante.
Le proposte congressuali sono quattro, ma per esseri franchi non sembra che
ci siano grandi possibilità né per la mozione dell’onorevole Salvi né per la
mozione ambientalista. E anche per il raggruppamento che un tempo si
chiamava il correntone le prospettive congressuali non sono esaltanti. Si sono
sfilati i pezzi da novanta e le scelte di Cofferrati hanno perso di significativa
influenza nella dinamica nazionale. L’ex segretario della CGIL diventerà un
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buon sindaco ma le consistenti forze della sinistra che ha attratto nel passato si
vanno sfarinando cercando collocazioni più consone.
Esemplare è ciò che sta succedendo in Umbria. La stagione pre elettorale, per
le regionali e politiche, consiglia a molti una ricollocazione negli schieramenti
interni. Niente di nuovo sotto il sole. Una posizione di minoranza non è facile
da gestire. Anche nel passato nei gruppi dirigenti umbri del PCI, le minoranze
non avevano grandi chance di divenire maggioranza e pochi riuscivano a
tenere posizioni diverse da quelle del centro del partito. Nelle fasi congressuali,
mai nel PCI umbro le idee di Ingrao sono state in maggioranza. Nonostante
l’influenza personale del leader della sinistra del partito nella nostra terra
prevaleva sempre la consonanza con Roma.
A conferma, basta analizzare i congressi di “Svolta” del PCI per verificare
quanto risicati erano i voti sulle tesi alternative a quelle del segretario
nazionale. Pochi del gruppo dirigente umbro votavano assieme a Ingrao. La
leggenda dell’Umbria ingraiana è appunto una favola.
La grandezza del PCI umbro consisteva nel sollecitare l’elezione al parlamento
di Ingrao nel collegio umbro pur non condividendo le sue posizioni politiche.
Altri tempi. Pur approvando la linea che veniva da Roma, i leader locali erano
in grado di gestire il dissenso ed anzi come gruppo dirigente complessivo
rivendicavano una autonomia di elaborazione politica dal centro del partito. E
in molte circostanze, l’Umbria divenne laboratorio di idee e di esperienze
particolarmente innovative nel settore della programmazione e nel rapporto tra
le istituzioni democratiche e i cittadini. “Umbria regione aperta” fu il primo
slogan della prima giunta regionale. Visto con gli occhi di oggi sembra uno
slogan eretico.
Non è casuale che il regionalismo umbro sia stato ravvisato, nel passato, tra
quelli a più alta capacità progettuale e che molte delle concrete realizzazioni
siano state poi “esportate”.
Le stesse esperienze di autogoverno locale hanno contribuito in modo
significativo al progresso della nostra comunità. Anche quando i sindaci o i
presidenti non venivano eletti direttamente, essi erano percepiti, in genere,
come leader popolari e non come professionisti della politica. Il mondo è
cambiato ed inutile stabilire se in meglio o in peggio. In realtà l’impressione è
che il prossimo congresso dei DS rischia di essere soltanto un rito. Molti giochi
sono fatti (federazione dei riformisti, liste uniche, ecc.. ecc.) e i gruppi dirigenti
che si affermeranno non saranno novità scioccanti per nessuno. Prevale il
bisogno di volti noti e di continuità.
Corriere dell’Umbria 24 ottobre 2004

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