Nel giorno del suo insediamento a presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan, il 21 gennaio del 1981, disse: ” Nella crisi presente, il governo non è la soluzione al nostro problema; il governo è il problema.” .
Martedì scorso, Barack Hussein Obama ha affermato: “La questione non è se il nostro governo sia troppo grande o troppo piccolo ma se funziona: se aiuta le famiglie a trovare lavoro e salari decenti, cure alla loro portata e una pensione degna.” Due discorsi che segnano l’inizio e la fine di un ciclo della storia dell’umanità  e che rappresentano bene due visioni del governo del mondo.
La scelta di Reagan di lasciare al mercato il governo del Paese, determinò una rivoluzione conservatrice che attraverso la deregulation, assegnò agli “spiriti animali del capitalismo” il destino dell’America e del mondo. Una rivoluzione portata avanti con determinazione anche dalle presidenze della famiglia Bush nei ventisette anni di dominio dei neoliberisti.  E’ stato uno sconvolgimento  anche culturale che ha impregnato il senso comune della stragrande maggioranza dei popoli ad occidente ed oriente, nel nord e nel sud del mondo.  Un’ideologia che vedeva nell’intervento pubblico il male assoluto e nel libero mercato la panacea. Così l’asse dello sviluppo è stato il consumismo privato e il ridimensionamento di tutti i beni e i consumi pubblici. Sanità  privata, pensioni private, trasporti e beni pubblici privatizzati a volte regalati ad avventurosi capitani d’impresa. Ogni riferimento all’affaire Alitalia è puramente casuale.
Le conseguenze di quelle scelte sono sotto gli occhi di tutti. Siamo nel mezzo della più grave crisi economica della storia contemporanea senza che le classi dirigenti trovino la strada per invertire la tendenza alla stagnazione economica.
E’ forse perchè la speranza è l’ultima a morire che tutti abbiamo ascoltato il discorso d’insediamento del primo presidente nero degli Stati Uniti con un’attenzione diversa da quella che riserviamo alle baruffe dei nostri leader politici. A molti è sembrato di sognare. Al di là  di un carisma straordinario, Barack Obama è riuscito a ridare un senso alla politica come arte del governo delle comunità  e non come strumento di carriere personali.
Tutti hanno applaudito a destra e a manca. Qualcuno lo ha fatto a denti stretti ma nessuno, nemmeno nella palude italiana, ha potuto criticare l’avvio della presidenza di Obama.
Poi ci siamo svegliati dal sogno americano e siamo ricaduti nell’incubo nostrano.
L’auspicato dialogo tra maggioranza e opposizione è ripreso e la strada del federalismo fiscale è finalmente aperta. Non ci è dato sapere quanto ci costerà  la riforma federale. Importante è che Bossi sia felice e che Berlusconi apprezzi. Si apprende che anche sulla legge elettorale per le elezioni Europee si va ad un accordo tra PDL e PD: sbarramento al 4% così siamo certi che la sinistra italiana scomparirà  anche dal parlamento europeo. Il voto utile consentirà  al PD di contenere la sconfitta e a Fini di annichilire per sempre Storace. Meglio di così. Che bello poi l’accordo sul nuovo sistema contrattuale. Tutti lieti per la firma che ha visto insieme tutte le sigle dell’imprenditoria e dei sindacati. Eccetto uno: la CGIL. E’ un particolare insignificante che la CGIL abbia cinque milioni d’iscritti e da sola organizzi più lavoratori di CISL e UIL messe insieme. Importante è che il Ministro Sacconi sia lieto e che la Marcegaglia abbia apprezzato lo sforzo di emarginare il più grande sindacato italiano. Naturalmente anche su questo argomento il Partito Democratico si è diviso. L’area ex partito popolare è d’accordo con la scelta del Governo, mentre D’Alema richiede un referendum tra i lavoratori. Ma come sappiamo la democrazia è divenuta un optional e Bonanni e Angeletti il referendum non lo possono consentire. Farebbero una pessima figura.
Una pessima figura rischia di farla in Umbria Rifondazione. Come è noto agli addetti ai lavori, il presidente del consiglio regionale, Tippolotti, potrebbe uscire dal partito per seguire l’ipotesi di Vendola tesa a ricostruire una sinistra plurale che vada oltre l’esperienza del PRC. La faccenda è la seguente: deve Tippolotti dimettersi dalla presidenza e dal consiglio regionale a seguito della sua scelta politica? Il segretario Vinti non ha dubbi. La carica di presidente è contrattata all’interno di un accordo nella coalizione di centrosinistra e quindi spetta al PRC indicare chi deve essere il presidente. La questione è delicata e controversa. Un consigliere regionale, come un parlamentare, una volta eletto non ha vincoli di mandato. Questo prevede la Costituzione Repubblicana. Per il presidente del consiglio regionale non esiste alcun meccanismo di revoca a significare che una volta eletto ha il diritto/dovere di svolgere il proprio mandato fino alla scadenza nell’interesse dell’assemblea regionale e non di questo o quel partito. Capisco che la prassi consolidata è un’altra, ma la prassi non può sostituire il dettato costituzionale e rimane il fatto che una carica istituzionale non è di proprietà  di un partito, ma appartiene all’istituzione e alle sue regole.
Bisognerebbe evitare di dare linfa alla critica ai partiti, che viene da più parti, di occupare tutto ciò che è pubblico. La sinistra ha perso consensi anche perchè in molte circostanze non ha dimostrato la propria alterità  rispetto alle altre forze politiche. Atteggiamenti che ricordano quelli dei periodi più controversi della storia del movimento operaio non aiutano a recuperare forze e intelligenze al PRC. Meglio rifuggirne.
L’asprezza del confronto interno a Rifondazione non può giustificare anche strappi istituzionali. Già  quanto è successo per la sostituzione di Sansonetti quale direttore di Liberazione, ha provocato perplessità  nel popolo di sinistra. Ma Liberazione è di proprietà  del partito, le cariche pubbliche non lo sono.

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