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C’è una domanda dalla quale è partita la lunga serie di interviste a dirigenti politici realizzata da Diomede. E cioè: come e perché in Umbria, a partire dall’immediato dopoguerra, si è così fortemente radicato il Pci, tantoché, anche nei momenti più difficili della sua storia e della storia dei partiti successivamente nati da quel ceppo (Pds, ds, Pd), non ha mai perso la maggioranza? Cominciamo da qui la nostra intervista a Francesco Mandarini, ex Presidente della Regione.
“Innanzitutto dipende  dalla qualità dei gruppi dirigenti. Le generazioni che hanno formato quelli come me alla politica sono  state eccezionali: hanno saputo cioè comprendere e analizzare la fragilità economica dell’Umbria e, a partire da questa consapevolezza, hanno potuto elaborare un progetto complessivo di cambiamento. Erano generazioni di dirigenti colti – li ho conosciuti che avevo 18 anni  e ne sono rimasto affascinato nonostante che alcuni fossero già marginali nella vita di partito.
Penso alla generazione dei vari Fedeli, Scaramucci, Angelucci. E’ vero: erano stalinisti e non voglio sottovalutarlo. Ciò non m’impedisce però di riconoscere che avevano una grande capacità di leggere la realtà e d’intessere un rapporto profondo con il popolo. Uscivano dalla clandestinità o tornavano dall’esilio, alcuni avevano combattuto in Spagna  e nella Resistenza. Con l’ottavo congresso del PCI, il partito fu organizzato da un’altra generazione. Un gruppo ancora più folto e straordinariamente attrezzato culturalmente: questi non erano stalinisti. Faccio qualche nome a titolo di esempio: Ilvano Rasimelli, Gino Galli, Francesco Innamorati, Pietro Conti, Raffaele Rossi, Vinci Grossi e tanti altri. L’altra caratteristica importante è che allora il Pci non aveva una classe dirigente di qualità concentrata solo nel capoluogo, ma diffusa su tutto il territorio. Nomi? Gambuli e Pannacci di Città di Castello o Nicchi che operava nell’eugubino, Maschiella nel tuderte per ricordarne alcuni. Inoltre vanno rammentati i tanti eccellenti sindaci che il Pci ha espresso in quegli anni sia nel perugino che nel ternano.  Alcuni magari di umili origine, ma gente intelligente, profonda, capace di intrecciare rapporti con la società che amministravano. Era insomma quello comunista un gruppo dirigente  che sapeva esprimere gli interessi locali, riuscendo ad integrarli però in un progetto regionale e nazionale. Esercitò un’egemonia politica attraverso un rapporto costante con  il popolo, ma anche con la capacità di esprimere le idee più avanzate per far uscire l’Umbria dal sottosviluppo”.

Tutta qui la ricetta del grande successo del Pci? Non dipende anche da altro e magari dalla debolezza di altri?
“Ritengo che quella sopra citata sia la ragione più importante. L’Umbria nel primo dopoguerra era particolarmente povera e arretrata ed è stata trasformata dalla classe dirigente di sinistra e dalla sua capacità di aggregare forze anche della borghesia umbra e dell’intellettualità regionale.  Un’impresa straordinaria: l’elettorato nei decenni passati lo ha sempre avvertito  e ne ha premiati i protagonisti.
Oggi mi stupisco come i dirigenti più giovani non comprendano lo stato di degrado in cui allora versava l’Umbria e l’enorme passo in avanti che è stato fatto. Voglio sottolineare che soltanto nel 1972 la popolazione umbra tornò ai livelli del 1952. La mia generazione ha conosciuto le città immiserite dall’emigrazione e dalla povertà. Ripensare Gubbio o Spoleto nei primi anni sessanta e vederle oggi? Sembra un miracolo”.

Ma non sarà solo merito del Pci..
“Certo che no. Dirò anzi che la classe dirigente umbra del dopoguerra, nel suo insieme, era di buona qualità: penso ad esempio alla borghesia locale che espresse imprenditori di prim’ordine. Nel mondo universitario erano presenti risorse capaci di spendersi anche nell’interesse generale.  ”.

Lei sin qui non ha ancora nominato la mezzadria. Non ritiene che la grande forza del Pci si fondò sulla capacità di rappresentare e guidare questo ceto sociale?
“L’importanza della lotta condotta dalla sinistra per sottrarre i mezzadri ad una vita di subalternità e miseria è riconosciuta in modo molto ampio nelle ricerche storiche. Ed è giusto che sia così. Ma vorrei andare oltre: anche quando la mezzadria è tramontata e quei lavoratori si sono inurbati diventando operai, artigiani, dipendenti pubblici, il Pci ha continuato a mantenere con loro un solido rapporto e molti dirigenti del movimento operaio avevano quella matrice contadina. Dentro quel grande mutamento sociale, c’è stato anche un cambiamento politico che è andato a tutto vantaggio del Pci: prima le città erano circondate dalle ‘campagne rosse’, poi la forza della sinistra è entrata anche nelle città e le ha ‘conquistate’. Le classi dirigenti del Pci del capoluogo provenivano essenzialmente, sin dagli anni Cinquanta, dal mondo delle professioni e delle fabbriche. E ciò si verificò anche altrove in Umbria. A questi si affiancarono i mezzadri che partivano tali e poi modificavano la loro condizione sociale. Nell’Alta Valle del Tevere, tanto per fare un esempio, parecchi di loro diventarono imprenditori del tabacco: erano intelligenti, intraprendenti e riuscirono anche ad arricchirsi. Ma non si staccarono mai dal partito”.

Che peso ha avuto nella capacità di radicarsi della sinistra, e in particolare del Pci, il profondo ed esteso anticlericalismo degli umbri?
“Sì, forse ha avuto un peso importante. Era una di quelle cose che non venivano dichiarate esplicitamente, ma che viaggiavano sotto pelle.  La laicità, che segnava le classi dirigenti amministrative  del Pci, aiutava il partito ad avere consenso in mondi culturali e strati sociali non propriamente vicini ai comunisti. A mia memoria c’è stata sempre nel partito la ricerca di un rapporto con il mondo cattolico di base e con gli intellettuali di quel mondo. Ma anche con la Chiesa – tranne forse qualche episodio nell’immediato dopoguerra – c’è stato sempre un clima di reciproco rispetto. Non c’era nessuna sudditanza degli uni verso gli altri, ma un rispetto fra poteri. Non c’era da parte del Pci nessuna professione pubblica di anticlericalismo, ma la cultura anticlericale si poteva avvertire in molta parte del gruppo dirigente. Non è un caso che uno dei personaggi più amati dalla sinistra perugina è stato Brenno Tilli. Indomabile anarchico, anticlericale indefesso oltre che grande artigiano”.

Il gruppo dirigente del Pci ha avuto probabilmente il suo punto più alto di dibattito culturale e di proposta politica negli anni Sessanta: programmazione regionale e battaglia regionalista i temi qualificanti. Che cosa ha significato per l’Umbria quel periodo? Come ha segnato il suo futuro?
“In quel periodo in Umbria- se mi è permesso il paragone – si è determinato un clima di tipo ‘costituente’. Nonostante le divisioni fra i partiti, che pure c’erano, questi riuscirono a dar vita ad un dibattito unitario e di alta qualità. Al confronto di quegli anni parteciparono tutti, non solo le forze politiche: notevole fu il contributo anche  degli imprenditori e del mondo cattolico. Il gruppo dirigente del Pci ebbe il merito di starci dentro con idee innovative, che guardavano all’interesse regionale, mai a quello di bottega. E con una continuità e un impegno straordinari. Penso anch’io, come lei, che allora si toccò il punto più alto del confronto politico regionale. Oltre ai comunisti, anche gli altri partiti si impegnarono affinché fosse possibile progettare il futuro dell’Umbria. Lo pensarono la Dc, il Psi, il Pri. E anche loro vi parteciparono senza strumentalità, con un autentico spirito di ricerca. E’ stato un bel momento, che ha dato buoni frutti per tutti gli anni Settanta. Poi, nel decennio successivo, è iniziata la crisi”.

Molti fra gli interlocutori che Diomede ha intervistato datano negli anni Ottanta – e in particolare nella seconda metà di questi – l’inizio della crisi. Perché in quel decennio cominciò lo scivolamento?
“In realtà le classe dirigenti locali non riuscirono più a capire dove stessero andando il mondo e l’Italia. Non ebbero più chiavi efficaci di lettura: la globalizzazione iniziò allora e pochi – anche a livello nazionale – ne compresero effetti e ricadute. Del resto tutt’ora le analisi sono carenti. Arrivati agli anni Ottanta, l’emancipazione dell’Umbria, l’uscita dallo stato di miseria e di degrado del dopoguerra era già avvenuta. A quel punto non capimmo che era arrivato il momento di affrontare alcuni temi quali la sottocapitalizzazione delle imprese e la carenza di infrastrutture (dalle ferrovie, prima di tutto, alle strade). Questa incomprensione avvenne proprio mentre il mondo evolveva verso la società dei trasporti veloci e della comunicazione informatica. I gruppi dirigenti del Pci non furono all’altezza dei problemi, ma non lo furono nemmeno gli imprenditori. Qua e là c’è stato anche chi ha compreso o quantomeno ha intuito queste tematiche, ma pochi e in modo spesso parziale. La crisi delle poche grandi imprese, le acciaierie di Terni e la Perugina ad esempio cambiò le prospettive dell’industrializzazione. Lo sviluppo dell’Umbria da allora è andato avanti a ‘macchie di leopardo’ con punti alti nell’asse Foligno – Bastia e nell’Alta Valle del Tevere. La cosa che mi sembra oggi più allarmante è lo stato della città di Perugia e la scarsa qualità delle sue classi dirigenti. Se ricordiamo gli anni Sessanta e guardiamo al panorama imprenditoriale perugino di allora, vediamo famiglie e personalità di prim’ordine: dai Buitoni agli Spagnoli (Lino, che pure noi comunisti abbiamo combattuto, ha introdotto grandi novità. Le voglio rivelare un particolare interessante: il primo imprenditore che il neo presidente della Regione Pietro Conti incontrò fu proprio lui). E poi ci furono gli emergenti come Leonardo Servadio o Spartaco Ghini, solo per fare qualche nome. Per anni l’Umbria è stata leader nel comparto della moda e del tessile.  Si sviluppò una sorta di distretto industriale a cui facevano riferimento i grandi stilisti italiani e stranieri.
La qualità era notevole. Poi, il declino degli anni Ottanta, soprattutto nella seconda metà di quel decennio”.

L’analisi della crisi che sta vivendo il capoluogo è di grande importanza e merita un’attenzione particolare, ma, prima di arrivarci, vorrei affrontare il tema della Perugina e della sua crisi. Lei conosce bene quell’azienda: vi ha lavorato e ne è stato un importante sindacalista. Perché il declino sino ad arrivare alla vendita da parte dei Buitoni? A chi ne attribuisce la responsabilità principale? Al sindacato e alle sue richieste impossibili. A Paolo Buitoni, troppo cedevole, e più in generale alla famiglia Buitoni? E gli enti locali sbagliarono?
“No, le cose non stanno così. Lo sviluppo di molti gruppi industriali negli anni Sessanta e Settanta è avvenuto tramite indebitamento. Il Mediocredito regionale aiutò molto l’intrapresa industriale dei piccoli imprenditori, ma le risorse finanziarie non sono mai state adeguate alle esigenze d’investimento. Quando Paolo Buitoni diventò amministratore delegato, fece una politica di acquisizione di molte aziende. E accumulò debiti, come molti altri gruppi industriali. L’indebitamento della Perugina era del 3-4  per cento del fatturato: un livello abbastanza comune. Nel 1971 però accadde qualcosa di sconvolgente: la crisi del sistema di cambi fissato a Breton Woods e la fine della convertibilità del dollaro. A seguito di ciò, partì un micidiale processo inflattivo che portò l’indebitamento del 3-4 per cento, considerato un costo aziendale accettabile, ai livelli del 15-16 per cento. Addirittura, in alcuni momenti, sino al 20 per cento. Le gravi difficoltà della Buitoni-Perugina sono tutte in queste percentuali. L’anno della svolta fu il ’72, la crisi cominciò a manifestarsi nel ’73-‘74 ed era non di natura produttiva ma finanziaria.  E, infatti, quando De Benedetti l’ acquistò, la prima operazione che fece fu quella di chiamare le banche e imporre un radicale abbattimento dei tassi praticati. Lui aveva la forza per farlo. Paolo Buitoni è stato, a mio parere, dunque vittima di processi mondiali e anche delle sottocapitalizzazioni che ha riguardato tutte, o quasi, le aziende umbre, compreso il più grande gruppo industriale privato. La sua politica di acquisizioni di altri marchi del settore alimentare era forse giusta, ma il mondo è andato da un’altra parte”.

Scusi, ma i sindacati, gli enti locali, la Regione non hanno responsabilità nel non aver compreso ciò che stava accadendo?
“Certo – l’ho detto prima -, nessuno capì che cosa si stesse muovendo nel mondo. Nemmeno gli imprenditori. Né i partiti. Neanche il Pci nazionale lo comprese. Del resto la sua capacità di analisi e di previsione sui temi economici era sicuramente calata rispetto agli anni Sessanta, segnati dalla direzione della sezione economica di Giorgio Amendola.. Un’intera classe dirigente sbagliò nel valutare i processi futuri. Vorrei ricordare che le organizzazioni sindacali ebbero il punto più alto di forza e di combattività negli anni Sessanta ed è quello il periodo della grande crescita della Perugina. Allora ci fu un vero e proprio boom del fatturato anche grazie alle elaborazioni e allo stimolo esercitato dal sindacato. I Buitoni erano all’epoca industriali molto importanti: Bruno, il padre di Paolo e Franco, fu vicepresidente della Confindustria. Ciò che succedeva alla Perugina faceva scuola in tutto il comparto alimentare sia per ciò che concerneva i rapporti sindacali e l’organizzazione del lavoro che per le innovazioni produttive.
Negli anni Sessanta e Settanta il partito che ebbe una capacità di elaborazione forte era il Psi.
Il primo centrosinistra produsse lo statuto dei lavoratori di Brodolini, la riforma sanitaria, la programmazione di Pieraccini. A questo seguì  la prima parte del craxismo che intuì alcune necessità del paese, ma non seppe indicare il che fare. Il Pci perse colpi e la sua egemonia nella sinistra si appannò”.

Torniamo alla qualità delle classi dirigenti del capoluogo a cui accennava prima..
“Una classe dirigente che è solo concentrata sul proprio destino, sulle proprie carriere non può che portare al disastro. Io vedo nell’occhettismo l’inizio di molte distorsioni. Non perché ha cancellato il Pci: ormai era  una chiesa giustamente sconsacrata. La scelta però doveva essere fatta non dopo ma prima della caduta del Muro. Dopo lo strappo del 1981, all’epoca della vicenda polacca, doveva essere messo in moto un meccanismo di superamento dell’esperienza del comunismo italiano. Decidere il cambio del nome con quel ritardo e, subito dopo il crollo del Muro, fu una grave errore anche dal punto di vista del marketing politico. Il PCI è stato un grande partito riformista nonostante il legame con l’URSS certo interrotto in ritardo, ma al popolo il riformismo concreto degli amministratori comunisti piaceva molto. Occorreva quindi dire subito che dal partito comunista sarebbe nato un partito socialdemocratico, un partito del lavoro. E invece ci fu quel surreale balletto intorno alla “Cosa”, di cui non si definiva l’anima né si tratteggiavano i connotati programmatici.  Ma ai miei occhi Achille Occhetto ha anche la grave responsabilità di aver introdotto la personalizzazione della politica: nacque con lui lo staff, la squadra, e scomparve il collettivo politico. Non è stato Berlusconi il primo a muoversi in questa direzione, la palma dell’invenzione spetta all’ultimo segretario del Pci. La personalizzazione della politica è stato certamente un processo mondiale, non solo italiano. Ad esempio, sono molto critico verso la strategia ‘blairiana’, una ‘terza via’ che insieme al clintonismo e all’involuzione della socialdemocrazia tedesca, ha prodotto ‘guerre inutili’ come quella del Kossovo. Non hanno innovato la sinistra, l’hanno annichilita in un coacervo di leader privi di qualsiasi capacità diversa da quella di pensare al proprio destino individuale”.

Torniamo al capoluogo umbro… Perché è precipitato nella crisi attuale?
“Sono anni che la classe dirigente della città non riflette strategicamente sui destini della capitale dell’Umbria. Le responsabilità sono di molti. Innanzitutto la responsabilità è di alcune raffazzonate riforme. Penso alle  leggi elettorali maggioritarie e al complesso di leggi riconducibili all’onorevole Bassanini o alla modifica del capitolo quinto della Costituzione. Con questi provvedimenti da una parte il potere di rappresentanza e di governo si concentra tutto nelle mani del sindaco o del Presidente della Regione, mentre le assemblee elettive non contano più nulla; dall’altra il potere amministrativo trasmigra dagli assessori agli apparati burocratici. Altro che partito degli assessori,  è successo qualcosa di  peggio. Ormai ‘regna’ il partito del Presidente o del Sindaco e di un gruppo ristretto di burocrati. Quanto alle forze politiche, non rappresentano più nulla. Sono gusci vuoti.  Non esiste più dibattito politico: quali sono le divergenze fra Bersani e Franceschini? E, per venire ai fatti nostri, su quale importante questione non s’incontrano le idee di Bottini o di Agostini. Di cosa parlano? E i candidati alle primarie in cosa sono diversi?  Ad esempio, il Sindaco Boccali non l’ho mai sentito intervenire in una discussione politica che riguarda qualcosa di diverso da una delibera amministrativa. Non per sua responsabilità forse,  ma perché non esistono più luoghi in cui si discute di politica, la gestione dell’esistente annulla la progettualità . L’Io annichilisce il Noi. Il confronto tra i partiti non esiste più. Prevalgono gli insulti e non c’è modo di conoscere ciò che le classi dirigenti pensano del futuro della nostra terra. Eppure sono una persona che segue il discorso pubblico, che legge, che cerca di intervenire. La selezione dei dirigenti non sembra più avvenire sul terreno del confronto o dello scontro politico. Altrimenti sarebbero note le analisi e le proposte dell’attuale gruppo dirigente del PD per combattere il declino dell’Umbria. La selezione ormai sembra prodursi su di un terreno pressoché indefinibile: rapporti di collaborazione di lunga data? Amicizie? C’è stato un processo profondo di feudalizzazione che ha prodotto vassalli e valvassori che, in carenza del Principe, non pensano che al proprio feudo e alla propria salvaguardia. Per riassumere: siamo di fronte a partiti, il Pd ad esempio, dove il potere appare concentrato nelle mani di oligarchie litigiose che selezionano le future classi dirigenti più in nome della fedeltà che della capacità. In questo modo possono trionfare i mediocri ubbidienti”.

Ma l’elettorato li premia..
“C’è ormai un sistema di potere molto radicato, partito dalla fine degli anni Ottanta. Venti e più anni di storia l’hanno reso fortissimo. Se io assumo il figlio, il fratello e magari anche il nipote, finisco col controllare una fetta importante del consenso. E poi gli enti locali dispensano anche i contratti di collaborazione e altro. Non si tratta solo di questo, naturalmente. Permangono anche esperienze di buona amministrazione e non mancano dirigenti capaci e intelligenti in un ceto politico incapace di uscire dalla malattia dell’autoreferenzialità. Non ho mai sentito dire ai grandi leader comunisti del passato, da Pietro Conti a Ilvano Rasimelli, una frase che oggi si sente pronunciare piuttosto spesso: io controllo mille o duemila, o tremila voti. Ma quando mai. Potevi essere espressione di un interesse sociale o territoriale, mai di un pacchetto di voti personali. Una volta mettevi in lista uno perché era espressione di un ceto, di una grande fabbrica, di una lotta. Il Pci, poi, era attentissimo ad assicurare un’articolata rappresentanza sociale: guai se in una lista elettorale per il Comune o per la Provincia o per la Regione mancava un artigiano, un operaio, uno studente, un professionista, un intellettuale. E ora? La grande massa viene selezionata dal pubblico impiego o nelle libere professioni. Non esiste più alcun criterio teso ad evitare conflitti d’interesse. Così un dipendente di un ente va ad amministrare lo stesso ente da cui trae lo stipendio. Le caste si formano così al di là della volontà dei singoli.
E sul versante delle classi dirigenti borghesi?
“Anche lì c’è uno scadimento notevole. Non c’è più la vivacità imprenditoriale degli anni Sessanta, quando una storica famiglia di industriali come i Buitoni era importante anche come organizzatrice di cultura: basti ricordare gli “Amici della musica” di Alba Buitoni che hanno fatto di Perugia un luogo dove si potevano ascoltare i più grandi e sofisticati maestri del mondo. Un evento di livello europeo. Oggi, i più ricchi di Perugia sono i dentisti e i notai. Ho rispetto per queste professioni, ma sono professioni a cui non è richiesta alcuna funzione sociale e ,come è noto, la ricchezza non comporta automaticamente avanzamento culturale di una comunità”.

Lei ha citato più volte i Buitoni, torniamo dunque alla Perugina e a cosa ha rappresentato e non rappresenta più..
“La Perugina non produceva solo cioccolato, ma anche dirigenti capace di diventare industriali. Questa era una ricchezza per l’intera città, per l’intera Umbria direi.  Molte piccole imprese sono state create da ex dirigenti della Buitoni-Perugina. Quei professionisti, infatti, formatesi in un ambiente di notevole cultura imprenditoriale internazionale, sono diventati a loro volta imprenditori. E comunque costituivano un’iniezione di cultura in senso lato proprio perché il gruppo Buitoni-Perugina aveva una sua fortissima internazionalizzazione e i suoi manager venivano a Perugia da mondi lontani.

Scadimento delle classi dirigenti del Pd, scadimento della borghesia..
“Attenzione, questo è un processo che non riguarda solo l’Umbria, ma sta accadendo un po’ ovunque. Da noi si nota di più perché dal punto di vista economico  stiamo diventando una regione simil meridionale  e quindi si avverte in modo particolarmente pesante la mancanza di una capacità progettuale che in passato – vedi anni Sessanta e Settanta – c’è stata. Un tempo inoltre l’Umbria, pur  essendo insignificante dal punto di vista numerico, ha avuto un ruolo tutt’altro che irrilevante nel dibattito politico nazionale. Basti ricordare che nella prima legislatura regionale, era universalmente accettato che la nuova creatura istituzionale  funzionava bene in Umbria, in Toscana, in Emilia e in Lombardia. La sinistra umbra ha svolto un ruolo nazionale a livello di elaborazione in diversi momenti della vita del Paese sia nelle riforme della pubblica amministrazione che nella politica più strettamente intesa. Non è stata casuale la scelta di Ingrao di farsi eleggere in Umbria per tante legislature. Siamo stati un vivace laboratorio politico per molti anni in molti settori. Cito per tutti l’esperienza della nuova psichiatria, ma di esempi ce ne sarebbero molti ”.

E la Destra che tipo di classe dirigente mette in campo?
“In genere è gente proveniente dalle professioni. Ma nell’insieme la qualità è scarsa, più scarsa addirittura di quella della sinistra. Lo scarso appeal elettorale ne è la riprova. Il berlusconismo non ha aiutato a far crescere un personale politico capace di costruire un’alternativa credibile al centrosinistra e questo è un danno per tutti. L’immobilismo non è buona cosa nemmeno in politica”.

Mandarini, lei ha parlato di meridionalizzazione dell’economia, cosa vuol dire in concreto?
“Siamo di fronte ad un impoverimento dovuto alla crisi di un modello di sviluppo basato sulla piccola impresa ma anche, in parte, sulla media. Permangono alcune eccezioni di gran qualità, ma sono pochissime. Il peso della spesa pubblica è sovradimensionato rispetto alla media nazionale: in parte questo è giustificato dalla qualità dei servizi, ma è anche vero che c’è stato un robusto rigonfiamento degli organici in molti settori. Il sovradimensionamento della spesa pubblica usato per assorbire occupazione è un dato tipicamente meridionale”.

C’è una questione morale?
“Non ho elementi per sostenerlo. Mi auguro di no. Ma non ho nemmeno segnali forti per pensare il contrario: l’etica – occorre riconoscerlo – è in generale scomparsa come valore dalla politica. Ma al di là delle questioni morali di cui sono piene le cronache, ritengo scarsamente etico dar luogo a presenze eterne nella vita politico-amministrativa. Questa non è una questione di natura penale, ma squisitamente morale. Un tempo non c’erano  carriere prefissate. I funzionari di partito guadagnavano quattro lire. Il trattamento economico nelle istituzione era solo un po’ più alto. E comunque anche chi toccava i vertici, non cambiava il proprio status sociale: poteva stare meglio, ma non lo ribaltava. Faccio un esempio: io sono stato consigliere regionale per una ventina d’anni, ma non ho mai saputo quanto era l’indennità da consigliere o da assessore. All’inizio della legislatura firmavo una delega grazie alla quale l’amministratore del partito prendeva il mio compenso. Me ne restituiva solo una parte, corrispondente allo stipendio che percepivo quando lavoravo alla Perugina. Ogni tanto, Papalini mi lasciava in busta paga un centomila lire in più per comperarmi qualcosa per l’abbigliamento o altro. Naturalmente, Marri o Menichetti prendevano un po’ di più perché, prima di diventare consiglieri, avevano fatto i medici. Il criterio era comunque quello che l’elezione non doveva modificare il tuo status e, men che meno, arricchirti. Come a significare: guarda che tu sei prestato a questo ruolo istituzionale, non ci resterai per tutta la tua vita lavorativa. Oggi, il problema non è tanto il compenso che percepisce un consigliere regionale. Da questo punto di vista siamo una delle Regioni meno prodighe d’Italia. Anche se gli stipendi da consiglieri non sono certo insignificanti, una certa sobrietà è stata nel tempo mantenuta. Ma le carriere sono eterne: cominci da ragazzo e vai avanti sino all’età della pensione. E spesso persino oltre. Io ho smesso di fare l’amministratore a 49 anni per libera scelta e al massimo dell’apprezzamento popolare. Non vedo comportamenti analoghi in giro. Non vorrei però raccontare di me. Mi permetta invece di parlare – visto che nelle interviste di Diomede è stato citato più volte – di Ilvano Rasimelli.

Dica pure..
“ Dopo la lotta di liberazione,  nell’entusiasmo di quegli anni, voleva continuare l’attività politica come una sorta di funzionario di partito, ma Fedeli lo rispedì a fare l’università per  laurearsi in ingegneria. Lo fece con una tesi sul Lago Trasimeno. Poi fece l’assessore comunale a Perugia con eccellenti risultati,infine, è stato presidente della Provincia e senatore. E’ noto che non è mai salito volentieri su un’auto blu, preferiva guidare la sua Citroen. E’ uscito ed entrato dai ruoli pubblici. Per lunghi periodi è tornato a fare l’ingegnere e il dirigente di  partito senza alcun compenso. Ha dato vita, insieme ad altri, allo studio di progettazione Rpa. Per lui essere amministratore o fare politica non è mai diventata una professione. E questo è vero per tanti altri uomini di punta del Pci: da Francesco Innamorati a Vinci Grossi, a Lello Rossi o Tullio Seppilli. Per non dire di Gino Galli e Settimio Gambuli che avevano un buon lavoro pubblico e lo lasciarono per fare i funzionari di partito a pane e mortadella.  Galli ha sempre rifiutato, nonostante le insistenze dei compagni, qualsiasi candidatura al Parlamento o in Regione. Tutto diverso da quello che accade oggi: la politica è diventata una carriera  piuttosto  redditizia che dura tutta la vita. La cosa ha una sua sgradevolezza”.

Che peso ha avuto la Massoneria nella vita regionale?
“In alcuni campi ha pesato e non sempre positivamente. Porto un esempio: l’Accademia di Belle Arti. La  Massoneria ha storicamente dedicato la propria attenzione a questa istituzione. Sin qui nulla di male, il problema nasce quando questo interesse legittimo si è trasformato nella spinta alla conservazione dell’esistente o a promuovere gli incapaci o peggio, il cretino di turno: in passato, purtroppo, sono state accantonate personalità di qualità perché non appartenevano al Grande Oriente. O non sono stati portati avanti progetti come il Museo d’Arte Moderna di Perugia. Nella mia esperienza di pubblico amministratore, le pressioni massoniche sono state un fatto marginale. Ho ricevuto – questo sì – alcune proposte ragionevoli che andavano nell’interesse generale e non a premio di qualche aderente a qualche Loggia. Del resto, esistono massoni intelligenti e massoni stupidi: io probabilmente ho avuto la fortuna di non frequentare questi ultimi. Nella vita ho conosciuto molte persone legate alla Massoneria: le ho sempre valutate per la loro capacità di lavorare concretamente nell’interesse generale al di là delle appartenenze. Oggi mi sembra che la Massoneria stia dentro al processo di forte decadimento dell’intera classe dirigente della nostra regione, e non potrebbe essere altrimenti. La crisi delle classi dirigenti è molto trasversale”.

Ormai il federalismo è alle porte, che impatto avrà in Umbria?
“E’ avventuroso definire ciò che potrà essere il federalismo all’Italiana. Personalmente sono d’accordo nel valorizzare l’autonomia locale rendendo responsabili gli amministratori sia per ciò che riguarda la spesa che per l’entrata nei bilanci comunali o regionali. Comunque a quanto risulta al momento, un’ipotesi federalista qualche problema lo creerà, noi infatti siamo una regione debitrice: prendiamo cioè dallo Stato più di quanto riusciamo ad introitare a conferma che se siamo usciti dal sottosviluppo del dopoguerra, rimaniamo una regione in ritardo nello sviluppo. Se il federalismo comporterà però una maggiore responsabilizzazione degli amministratore, allora avrà una funzione comunque positiva. Se, ad esempio, riuscirà ad aumentare l’attenzione verso i bilanci,  sarà tutto di guadagnato. Negli ultimi 15-20 anni – prima non era così – ha preso piede un certo disinteresse verso i conti pubblici. Recuperare prudenza e oculatezza nello spendere i fondi pubblici, evitando sprechi e inefficienze, è ormai indispensabile. Anche quando passerà la nottata, niente sarà più come prima. La tenuta sociale non sarà più garantita dalla crescita della spesa pubblica. Se la riforma federale darà una spinta nella direzione di maggior rigore nella spesa, allora ben venga. Da molto tempo non è più la stagione del buon governo della sinistra umbra, toscana o emiliana. Quando penso a quello che è accaduto a Napoli e in Campania, devo riconoscere che quella catastrofe amministrativa è responsabilità prioritaria del centrosinistra. Non ce la possiamo cavare prendendocela con Berlusconi. Lì il malgoverno è stato nostro, e per molti anni. Epperò –recuperato il principio di responsabilità per tutti gli amministratori – non possiamo non ricordare che l’Umbria è stata penalizzata dai governi di tutti i colori”.

Quali sono i campi in cui è stata penalizzata?
“Basta fare l’esempio delle infrastrutture. Pensi alla ferrovia, a quanto tempo ci vuole per andare a Roma o a Firenze da Perugia. Questa è una battaglia che va ripresa con forza. I ritmi di costruzione inoltre – per parlare di strade – della Perugia – Ancona sono biblici. Dobbiamo produrre amministratori responsabili, attenti ai bilanci e agli sprechi, ma anche capaci di far pesare le legittime rivendicazioni  di questa regione. I conti pubblici a posto ci potranno dare più forza per rivendicare ciò che  c’è stato ingiustamente negato dalle classi dirigenti del Paese”.

E dell’Università di Perugia che giudizio da?
“Ha avuto molte punte d’eccellenza. Ce ne ha anche ora, ma si stanno indebolendo. E questo è un problema molto serio. Uno degli errori che abbiamo fatto come sinistra umbra, è stato quello di aver sottovalutato il ruolo che poteva avere l’Università all’interno del processo di modernizzazione della nostra terra. Banalmente si potrebbe osservare che ancora non è stata costruita una struttura come un campus nonostante il forte rilievo della presenza studentesca. Si è proceduto con l’occupazione da parte dell’Università di spazzi non inseriti in un disegno complessivo e gli studenti lasciati alla piccola speculazione degli affitta camere. Avremmo dovuto trattare questo tema con molta più attenzione. E invece un po’ per errori dell’Università, ma anche per rigidità della Regione e degli enti locali, non siamo stati in grado, come comunità, di valorizzare questo patrimonio di saperi che ha anche un grande impatto economico su Perugia e sull’Umbria. La separatezza è stato il risultato di un pessimo uso della giusta autonomia delle diverse forze in campo. Lo stesso limite ha riguardato l’Università per Stranieri e l’Accademia di Belle Arti. Strutture mai giocate come grandi opportunità se inserite in un contesto più generale del marchio “Umbria terra di cultura e di bellezza”. Insomma,  paralizzati da autonomie e particolarismi, non siamo stati in grado di esprimere un progetto che tenesse insieme, pur nel rispetto delle specificità, un ‘sistema culturale’ di alta qualità”.

Cosa pensa di una maggiore integrazione fra Marche e Umbria?
“Il ridisegno istituzionale passa attraverso l’abolizione delle Province, che sarebbe dovuta avvenire nel 1970. Non credo che Marche e Umbria possano diventare una Regione sola: mi sembrerebbe una forzatura. Se invece si vuol lavorare ad una integrazione dei servizi, allora sono del tutto d’accordo. In questa fase di confusione istituzionale, con il federalismo in un itinere assolutamente e incredibilmente raffazzonato, mi sembrerebbe irresponsabile introdurre altre variabili come l’unificazione di regioni che hanno molte cose che le differenziano. E poi è difficile mettere assieme le idee di Terni e Perugia, figuriamoci Ancona e Foligno ”.

Diomede n.17 Gennaio-Aprile 2011 

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