Pessima la partecipazione popolare al referendum elettorale voluto dai soliti noti e appoggiato da Berlusconi, Fini e Franceschini. Con il 23% dei partecipanti entrerà  nella storia come l’ultimo referendum? Gli esperti si sbizzarriscono con le loro dotte analisi per convincere gli italiani che, visto il fallimento di molti referendum, o si elimina il quorum o e meglio fare a meno dello strumento. Come al solito sotto c’è l’inganno. Sarebbe meglio per tutti se non si mistificasse la realtà  e si facesse un discorso di verità . E la verità  è che il mancato raggiungimento del quorum è frutto dell’assurdità  dei quesiti proposti all’elettorato. Se vinceva il sì la legge risultante, sarebbe stata peggiore della porcata calderoniana. Esattamente due anni or sono, il 25 e 26 giugno, si svolse in Italia un referendum costituzionale, concernente l’approvazione della controriforma della Carta Costituzionale voluta dal centrodestra. Non ci fu in pratica campagna elettorale. Il centrosinistra non mobilitò grandi masse di popolo per contrastare un provvedimento che avrebbe stravolto la democrazia italiana. Non avendo avuto i due terzi dei voti in Parlamento, la legge doveva essere approvata attraverso un referendum confermativo. Non era previsto quorum. Presi a litigare tra loro, i leader del centrosinistra non si affaticarono più di tanto. Ricordo ad esempio che a Perugia, le poche iniziative furono gestite dalla sinistra “radicale” e la più riuscita fu indetta dal mensile Micropolis. Il PD era impegnato anche allora in organigrammi. Per fortuna che Silvio c’era, si potrebbe dire. Infatti, il 22 giugno Berlusconi con il solito stile dichiarò al Corriere della Sera: “Non credo che possa sentirsi degno di essere italiano chi domenica e lunedì non sarà  andato a dare il suo sì all’ammodernamento della nostra Costituzione, a una riforma che darà  a questo Paese più democrazia e libertà “. Parole sante che portarono al voto il 53,6% degli elettori. Vinse il no con il 61.7% dei voti. Come spesso succede il centrosinistra non fece tesoro di quella vittoria e riprese a sfiancarsi per rendere l’attività  del governo Prodi una fatica di Sisifo. Tutto quanto sopra per dire che lo strumento referendum è in crisi quando i promotori sbagliano le domande da sottoporre al voto. Il popolo è a volte più saggio dei propri leader e, un’altra volta, il PD ha fatto la scelta sbagliata nel momento sbagliato invitando a votare sì. Le amministrative sono terminate con la netta vittoria del centrodestra. Negarlo è una stupidaggine. Sostenere, come ha fatto Franceschini, che i risultati elettorali sono stati l’inizio del declino della destra non sta nè in cielo nè in terra. Non è nemmeno consolatorio. Berlusconi non ha sfondato alle europee ed ha dimostrato di dare i numeri con il suo 45% di consensi preannunciato. Ma la perdita di tante amministrazioni di centrosinistra al nord, al centro e al sud, dimostra che si è formato un ceto amministrativo di centrodestra, molto robusto anche al di là  del carisma di Berlusconi, un ceto più credibile di quello di centrosinistra. Le ragioni sono molte e farebbero bene i riformisti e la sinistra ad approfondire le analisi dell’insuccesso. Perchè di questo si tratta. Una sconfitta che chiude un ciclo amministrativo e politico non riproducibile nel futuro. Prendiamo l’Umbria. Un amico carissimo, e un poco settario, mi ha fatto notare la difficoltà  che incontreremo noi di sinistra nello scegliere il vino da bere. Sconfitta a Montefalco, a Torgiano e da ultimo a Orvieto. Già  da tempo perso il vino dell’assisano. “Le strade del vino”, orgoglio delle amministrazioni di centrosinistra, saranno nel futuro tutte gestite dal centrodestra. Non ci restano che i vini delle colline del Trasimeno e quelli dell’amerino? Perso Gualdo Tadino, si berrà  l’acqua di Sangemini e di SanFaustino? Scherzi a parte, la sconfitta del centrosinistra in Umbria ha i caratteri di una debacle quantitativa e qualitativa che dovrebbe preoccupare molto un ceto politico che, per autoreferenzialità , ha dimostrato negli ultimi anni una difficoltà  a rapportarsi con la realtà  umbra. Il filo rosso che unisce la sconfitta ha un nome: le primarie. In pratica dove il centrosinistra ha scelto di fare le primarie per la scelta del candidato sindaco ha perso o non ha vinto al primo turno. Dove ha vinto, come a Firenze, l’emorragia di voti è stata significativa. Clamoroso il caso di Orvieto. Dopo sessantacinque anni l’amministrazione è passata di mano. Ha vinto un gentiluomo che abita nella città  soltanto da pochi mesi. L’alleanza di centrosinistra prende il 54% dei voti, il candidato a sindaco al ballottaggio perde contro quello di una lista civica appoggiata dalla destra. Nessuna contrarietà  di principio per le primarie. La questione è la fragilità  del PD in termini di regole, di organizzazione, e di programmi collettivi. Quando non si parla di politica non può che prevalere la carriera del singolo e allora il meccanismo delle primarie diviene occasione di rancori e di divisioni che si riverberano nel voto. Sembra che la lezione non sia stata capita. Il PD andrà  a congresso, il primo. Il candidato Franceschini si è presentato dicendo che non si può consentire il ritorno di quelli che c’erano prima alla guida del partito e che Lui non farà  alcun accordo con le consorterie figlie degli ex diessini e degli ex della Margherita. Siamo un’altra volta al nuovo che avanza? Un’altra volta la scelta del segretario avverrà  attraverso le primarie. Questa dell’elezione diretta è una sorta di malattia. Se non si è stati eletti attraverso un plebiscito popolare non si è contenti. Non è che a Veltroni sia andata benissimo, pur essendo stato nominato attraverso il meccanismo delle primarie ha dovuto lasciare la leadership. Quello che non si vuol intendere è che per creare un partito bisogna formare un gruppo dirigente articolato ma unito su questioni essenziali al di là  della posizione dei singoli. E’ vero che la riproposizione di un conflitto tra i duellanti, D’Alema-Veltroni, sarebbe intollerabile. Non ci sono scorciatoie e il “Nuovismo” è merce avariata. Il rinnovamento necessario riguarda gli uomini e le donne dei riformisti ma principalmente concerne il rapporto di tutti i dirigenti del partito con la realtà  che si vuole trasformare. L’impressione è che gli organigrammi continuano a prevalere sulla costruzione di idee, priorità  e valori da sottoporre al popolo.

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