Il mondo della comunicazione è attonito di fronte al crollo di giornali e di grandi gruppi editoriali. Non si contano le testate storiche americane che hanno chiuso i battenti o che hanno smesso di stampare giornali per andare in rete utilizzando internet. Migliaia di giornalisti sono stati licenziati ad ogni latitudine E testate che hanno fatto la storia del giornalismo sono in crisi. Il mitico New York Times ha appena messo in vendita la sede progettata dall’Architetto Piano. Le ragioni del crollo dell’informazione a mezzo stampa sono molteplici, ma ciò che ha accelerato il processo negativo è stata la crisi globale del modello economico basato sul consumismo e sulla finanziarizzazione dell’economia mondiale. Meno lettori, meno pubblicità  e i tagli dei costi non sono sufficienti a recuperare la contrazione dei ricavi. E’ una tendenza generale che in Italia riguarda le grandi e le piccole testate, tra queste i giornali più squisitamente politici o organi di movimenti politici sono praticamente alla frutta. Tra quelli riposizionabili nella sinistra o nel centrosinistra la situazione è vicina al collasso. Testate come l’Unità , Rifondazione o Manifesto hanno situazioni di bilancio che definire precarie è un eufemismo. Nemmeno la generosità  dei sottoscrittori riesce a recuperare la contrazione delle vendite. In questo quadro difficile per la stampa di sinistra sapete che sta succedendo? Escono altri tre giornali dell’area di sinistra. Avete capito bene. C’è il rischio della scomparsa di voci storiche del giornalismo di sinistra e invece di cercare la strada di unificare le forze, si frantuma ulteriormente l’offerta. E’ anche questo il segno emblematico del male oscuro della sinistra italiana. Scomparsa dal parlamento ora rischia di scomparire dal panorama dell’informazione italiana. Un panorama in cui le voci di dissenso nei confronti della destra berlusconiana sono flebili e minoritarie. Quasi tutte le corrazzate televisive e giornalistiche sono dipendenti dalle impostazioni della destra al potere mentre i piccoli vascelli del dissenso sono a rischio naufragio, ma la sinistra continua a dividersi anche su questo. Definire quest’atteggiamento un errore politico non sembra adeguato. Quello che continua a prevalere è l’assoluta mancanza di qualsiasi intelligenza collettiva in un mondo che è in minoranza nel Paese, ma che continua ad avere al suo interno grandi capacità  e grandi risorse intellettuali. Purtroppo i così detti leader dei cespugli della sinistra politica continuano a guardare al proprio ombelico. Il ministro Bossi, ma anche autorevoli columnist di grandi giornali accusano la sinistra di non ascoltare il popolo, di essere una sinistra radical chic. E’ possibile che abbiano ragione, anche se personalmente di posizioni radicali e di chiccherie ne sento e ne vedo poche nel centrosinistra. Penso invece che il problema vero vada ricercato nell’assoluta incapacità  dei gruppi dirigenti del centrosinistra di contrastare l’egemonia culturale della destra. Ascoltare il popolo e adeguarsi nelle scelte politiche o confrontarsi con il senso comune del popolo per modificare ciò che non va bene negli orientamenti del popolo? E’ questo il vero dilemma. Ilvio Diamanti ha scritto ieri un bel saggio su Repubblica. L’editorialista pone il seguente quesito: se la DC e il PCI negli anni ’50 e ’60 avessero seguito gli orientamenti del popolo di Torino o Milano, che cosa sarebbe successo ai milioni di immigrati che dal Sud d’Italia si spostarono al Nord? Gli orientamenti allora dominanti in Piemonte o Lombardia nei confronti di coloro che cercavano il lavoro in Fiat o alla Pirelli, erano molto simili a quelli di molta gente nei confronti degli immigrati di adesso. La DC e il PCI scelsero ognuno a proprio modo, di produrre una lotta politica e culturale capace di spostare le idee prevalenti per favorire l’integrazione del calabrese a Torino o del siciliano a Milano o nel Veneto. Nell’interesse non del semplice immigrato, ma di quello del Paese. Le sezioni di partito furono utilizzate per una grande operazione di acculturazione del popolo e di integrazione del “povero” venuto dal Sud. E’ storicamente accertato che senza il lavoro di quegli immigrati non ci sarebbe mai stato il mitico miracolo economico italiano. La grande politica è quella che sposta il livello di coscienza politica e culturale del popolo nell’interesse generale non quella che subisce o sollecita egoismi e forme intollerabili di razzismo. L’Umbria è una delle regioni a più alto tasso di immigrazione. E’ un bene o un male? Per i leghisti di ogni colore la risposta è semplice: un disastro. Provate a spiegare che senza i lavoratori immigrati la società  umbra rischierebbe il collasso in molti settori. Quello che prevale nel popolino è il terrore per il diverso e il rifiuto di accettare come legittime le culture e i modi di vivere degli altri. Per la cultura cattolica il rapporto con gli immigrati è un’occasione di solidarietà  e non a caso la Caritas è una delle strutture di volontariato più attive e apprezzate anche nella nostra terra. Le strutture pubbliche locali hanno in Umbria una grande tradizione di apertura verso il diverso. Strutture universitarie e culturali umbre hanno da sempre accolto giovani da tutto il mondo. Le grandi manifestazioni culturali, da Spoleto a Umbria Jazz, hanno geneticamente l’esigenza del rapporto con il mondo. Sarebbe interessante se dalla nostra regione partisse una campagna politica per dare agli immigrati il diritto al voto almeno per le elezioni amministrative. Capisco, è una proposta fuori moda. Radical chic? Forse, ma sarebbe utile ricordare che uno dei principi che portarono alla lotta d’indipendenza dall’Inghilterra dei migranti in America fu: No taxation, without representation. Nessuna tassa è legittima se non si ha il diritto ad essere rappresentato. Come è noto l’Italia ha bisogno delle tasse dei lavoratori immigrati. Di evasori ne abbiamo a sufficienza

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