Dal 1997 si sono svolte sei tornate referendarie che si riferivano a ventitre quesiti sulle materie più diverse. Nessun referendum abrogativo di norme ha raggiunto in queste circostanze il quorum. Un flop ripetuto negli anni che se dimostrava la precarietà  dello strumento referendum, segnalava anche la crisi della democrazia rappresentativa e del rapporto tra partiti e cittadini.
Soltanto il 25 e 26 giugno del 2006 un referendum costituzionale non confermò le modifiche alla seconda parte della Costituzione votate in Parlamento a maggioranza semplice. Non c’era bisogno del quorum eppure, inaspettatamente, quasi il 54% del corpo elettorale votò e il No raggiunse il 62% dei voti. La legge voluta dal governo Berlusconi-Bossi fu abrogata. La Costituzione salvò l’impianto voluto dai costituenti. A dispetto dell’indifferenza di molti politici e di tutto il sistema della comunicazione, il popolo scelse di andare alle urne per respingere norme che avrebbero stravolto quella che viene, nel mondo, considerata una delle migliori Carte Costituzionali. Nonostante il risultato inequivocabile del voto, da destra, dal centro e in pezzi del centrosinistra si è continuato a parlare in questi anni di riforme costituzionali. A conferma che, come succede in molti campi, la politica non ha inteso quanto la democrazia prefigurata dal dettato costituzionale sia apprezzata dalla gente comune e quanto ascoltate siano le parole del presidente Napolitano in difesa della nostra legge fondamentale. Non sarà  sufficiente una rabberciata maggioranza parlamentare per tentare un’altra volta di trasformare la Repubblica Italiana in una democrazia plebiscitaria. Sarebbe invece più utile affrontare quelle riforme che servono a far uscire dal pantano l’economia e affrontare con determinazione la situazione di precarietà  che assilla parti consistenti della società  italiana. Colpisce molto che nelle recenti classifiche dei paesi industrializzati l’Italia sia retrocessa dal quinto al settimo posto o che il tasso di emigrazione all’estero dei nostri giovani abbia raggiunto cifre raccapriccianti.
In genere il leader che ama i plebisciti utilizza i referendum per consolidare il suo potere. Anche in questo siamo un Paese particolare. Il Capo del governo che ripetutamente ci ricorda che Lui è stato scelto dal popolo e al popolo soltanto risponde, ha deciso di non partecipare al voto nei referendum di oggi e domani.
Rivendica la libertà  di astensione e al Suo popolo lascia la libertà  di voto. La cosa ha una sua stravaganza sia per ciò che riguarda l’astensione personale, sia perchè sembra che gli sia indifferente se il Suo popolo voterà  Sì o No. Si tratta di leggi fortissimamente volute dal Suo governo e dalla Sua maggioranza. Ed è decisamente bizzarro che una delle figure istituzionali più rilevanti, il Capo del governo, rifiuti di partecipare ad un rito democratico come sono le votazioni.
Molte figure istituzionali della destra hanno invece scelto di andare alle urne e votare liberamente Sì o No senza vincolo ideologico o di partito, ma soltanto guardando al merito dei quesiti referendari. Fanno benissimo presidenti di regioni, sindaci o parlamentari del centrodestra che proprio a salvaguardia delle istituzioni scelgono la strada della partecipazione al voto.
E’ inutile negarlo. Le istituzioni pubbliche hanno bisogno di essere rilanciate dopo decenni di progressivo indebolimento delle proprie funzioni provocando un netto distacco dal comune sentire dei cittadini. La cosa non è semplice da affrontare.
La crisi del Paese riguarda essenzialmente la difficoltà  delle classi dirigenti di ogni comparto nel trovare risposta alle grandi contraddizioni di un Paese ricco di intelligenze e di creatività  che non riescono da anni ad esprimersi in mancanza di politiche tese a rimuovere gli ostacoli che impediscono una nuova crescita dell’Italia.
La struttura pubblica non sembra capace di offrire una prospettiva diversa da quella della gestione dei bilanci. La scelta del rispetto dei vincoli posti dall’Europa nella tenuta dei conti pubblici è una scelta obbligatoria, ma non tutti sono convinti che i tagli orizzontali voluti da Tremonti sia l’unica scelta. Anzi, molti ritengono che ciò abbia comportato un ulteriore motivo di blocco dello sviluppo. La caduta verticale di tutti gli investimenti pubblici sia nelle infrastrutture che nei servizi, sta producendo un disagio che riguarda il mondo delle imprese di ogni dimensione. Ciò mette a rischio la tenuta sociale dell’Italia. Difficile immaginare un nuovo sviluppo senza che la spesa pubblica si riqualifichi nella sua parte corrente e si rafforzi nella sua componente investimenti. Dicono che le risorse non ci sono e che la cosa essenziale rimane gestire il debito.
Vi sono riforme a costo zero, vi sono risorse che possono essere
trovate. E’ questione di volontà  politica. Ciò riguarda certamente il governo centrale, ma anche la struttura decentrata dello Stato ad ogni livello deve impegnare intelligenze e risorse per autoriformarsi e per offrire una sponda alle forze produttive delle comunità .
L’Umbria vive una situazione difficile come il resto del Paese, ma ha strutturalmente antiche fragilità  che la rendono molto vulnerabile. Il rischio rimane quello di tornare ad essere la regione più a nord del meridione d’Italia. Evitare questa sorte è responsabilità  della politica, ma senza l’impegno delle altre classi dirigenti di tutti i settori non si andrà  da nessuna parte. La politica non può che procedere rapidamente all’autoriforma delle strutture che governa iniziando a riformare procedure e vincoli che rendono difficile il rapporto tra il cittadino e la struttura pubblica. La rivoluzione informatica non dovrebbe riguardare soltanto coloro che sono iscritti ai social forum.
Quanto aiuterebbe l’economia umbra se si accelerassero tutti i pagamenti per i lavori svolti per il pubblico? I vincoli dei patti di stabilità  non possono essere ricontrattati e aggiornati alla luce del progressivo indebolimento della nostra economia?

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