Non deve scandalizzare il fatto che siano stati i vertici romani a indicare i candidati a segretari regionali del nuovo partito democratico in tutte le regioni e,quindi, anche in Umbria. E’ questa la tesi espressa da Clara Sereni, coordinatrice per l’Umbria del comitato Veltroni. Una tesi che va discussa senza pregiudizi ma partendo da ciò che oggi sono diventati i partiti politici. Per chi, come me, ha vissuto per diversi decenni in un partito, il PCI, in cui vigeva il centralismo democratico come metodo di discussione e decisione, non colpisce più di tanto che sia il Centro che fissa di fatto linee politiche e anche la “filosofia” nella formazione dei gruppi dirigenti. Succedeva anche nei vecchi partiti di massa, ma nella mia esperienza ciò avveniva all’interno di un meccanismo di selezione ben diverso dalla rigida consonanza con il leader. Ad esempio, sembrerà strano, ma l’autonomia locale dei gruppi dirigenti era un vincolo molto forte di cui il Centro doveva tener ben conto.
Pietro Ingrao è stato capolista in Umbria per decenni nonostante che le sue idee politiche fossero in netta minoranza a Roma e in Umbria. Il sottoscritto è stato segretario di federazione per tanti anni pur se portatore di idee spesso diverse dalla maggioranza del partito umbro. In quella stagione politica, cara Sereni, vigeva il noi e non l’io, e il noi significava anche noi umbri.
Soltanto con l’occhettismo scattarono ad ogni livello i meccanismi della “squadra” coesa attorno al Capo. La coordinatrice ha l’ambizione di ripristinare nel nuovo partito una visione meno personalistica della gestione politica. Bene. Basta sapere che l’impresa sarà titanica. E la premessa di un uomo solo al comando non sembrerebbe un buon inizio. La personalizzazione della politica è figlia dell’implosione dei partiti tradizionali e la catastrofe che si è prodotta è sotto gli occhi di tutti. Il berlusconismo ha permeato la società italiana inclusa la sua classe dirigente politica di tutte le latitudini.
E se l’estremismo è stata la malattia infantile del comunismo, la leaderite è certamente la malattia senile del riformismo contemporaneo. Non sottovaluto affatto la difficoltà di costruire un partito nuovo e sarebbe una tragedia per la democrazia se il tentativo in atto dei diessini e margheritini fallisse.
Le cronache quotidiane dimostrano il rifiuto di massa dell’esperienza politica e restituire un senso all’agire politico non è affatto semplice. Quello che è certo è che la strada scelta con le primarie sembra perigliosa, molto artificiosa e rivolta al ceto politico più che ai comuni mortali. Le primarie sono utilizzate negli USA per scegliere candidati alla gestione della cosa pubblica e non leader di partito. Comunque, cosa fatta capo ha.
Per capire il processo in atto per arrivare al PD, sono dovuto ricorrere alla scienza di molti vecchi amici e compagni. Adesso ho capito, credo.
Nelle primarie del 14 ottobre saranno eletti, se ho ben inteso, i “costituenti” che fisseranno regole e statuto del nuovo partito con i quali procedere all’elezioni degli organi che guideranno la nuova formazione. Per un periodo lungo sarà il segretario nazionale assieme a quelli regionali l’unico organo di direzione legittimo. Essendo eletto dal popolo parola del segretario sarà legge? Quali saranno i luoghi di discussione e di decisione? Le assemblee regionali e quella nazionale elette con le primarie non hanno alcun potere formale di gestione o sbaglio?
Non sembra che la situazione politica sia tale da tranquillizzare nessuno e avere il maggior partito del governo in working progress non è certo entusiasmante.
La scadenza della legge finanziaria è sempre stata occasione di grandi tensioni che, se unite a quelle derivanti dagli accordi di luglio su welfare e pensioni, richiedono una grande capacità di mediazione e molta intelligenza politica. Intanto bisognerebbe evitare la trappola tesa dal centrodestra con la balla del governo ostaggio dei comunisti. Prodi sa bene che i rischi per la sua maggioranza non derivano dalle rigidità di quella che lui ha giustamente definito sinistra popolare, ma dai moderati del suo governo. Il capo del governo dovrebbe richiamare il prode Rutelli a maggior cautela nei rapporti con gli alleati di sinistra senza i quali anche Lui andrebbe a casa. I voti in Parlamento dell’amico Casini non sono sufficienti a sostituire quelli dell’ala sinistra della coalizione. E i berluscones non sono ancora “maturi” per il grande centro. E’ ormai indecente che se l’onorevole Giordano dice buonasera con l’aria imbronciata, costituisce una minaccia per la tenuta del governo. Mentre Rutelli o Dini possono dire quello che vogliono, ma sono comunque gli innovatori. Se il sindacato dei metalmeccanici FIOM (1.800.000 iscritti) dice No all’accordo di luglio sulle pensioni non vanno nemmeno ascoltati. Mastella forte del suo 1,5% di voti, tra un viaggio nell’aereo di Stato e un altro, può minacciare la crisi di governo ogni due giorni ed è temuto come un novello eroe del moderatismo. Si mistifica aiutati dagli opinion maker.
Che la sinistra abbia problemi seri di linguaggio, priorità politiche e uomini e donne in campo non c’è dubbio. Rigenerarsi è obbligatorio e deve essere fatto con urgenza. Ciò che i riformisti sono chiamati a fare, se vogliono continuare a governare il Paese, è di entrare nel merito delle questioni concrete poste dalla sinistra rispetto alle condizioni materiali di una parte consistente del popolo italiano. L’aria fritta del riformismo senza riforme serve a poco.
Pensare di sconfiggere la precarietà del lavoro di tanti giovani e meno giovani senza una radicale scelta di investimenti pubblici è pura illusione. Per investire bisogna trovare le risorse riqualificando la spesa pubblica senza pensare di detassare per incentivare ulteriormente la bulimia da consumo delle classi agiate.