da Francesco Mandarini | Lug 26, 2010
Nella vita, come in politica si possono subire sconfitte, arretramenti nella possibilità di ottenere ciò che si vorrebbe. E’ sempre successo e sempre succederà . Ciò che risulta intollerabile è quando il vincitore pro tempore pretende di convincerti che il suo successo sia cosa buona anche per te che hai perso o che la tua sconfitta non sia dovuta a rapporti di forza squilibrati, ma alla tua incapacità di capire la modernità . Ad esempio la scelta della Fiat di produrre i nuovi modelli di auto in Serbia è motivata dal dottor Marchionne con la scarsa serietà dei sindacati italiani. Anche se sulla serietà di alcuni sindacati si può discutere, il dottor Marchionne ha detto una falsità rispetto ai motivi della scelta. Infatti, il management serbo, ovviamente soddisfatto, ha dichiarato: ” la decisione di Fiat di produrre qui questi 2 nuovi modelli conferma che vengono applicati tutti gli accordi stipulati con i partner italiani”. A quando risalgono gli accordi? Al dicembre 2009. Non è serio mistificare quando di mezzo c’è la vita di intere comunità come quelle che ruotano attorno a Mirafiori. Galattica, poi, l’affermazione berlusconiana per cui le imprese hanno il diritto di localizzarsi dove vogliono, basta che non lo facciano a discapito dell’Italia. Appare come un pensiero erudito e profondo espresso da un turista che, non avendo alcun potere d’intervento, inneggia alla libertà di mercato contro il dirigismo comunista.
Potete immaginare quello che sarebbe successo in Francia se la Citroen o la Renault ipotizzassero, dopo tutti i soldi presi dallo Stato francese, una diversa location per i propri stabilimenti? Ma come è noto all’Eliseo regna un vetero comunista.
E’ la serietà che manca alla politica italiana e in genere ad una parte significativa della classe dirigente del Paese. Non sembra che si abbia la consapevolezza di quanti rischi stiamo correndo se non si riesce ad invertire la tendenza al deterioramento economico, sociale, morale della nostra terra. Vale anche per l’Umbria questa sorta di imbarbarimento del confronto politico? Negarlo sarebbe difficile. Martedì c’è stata la cerimonia per i quaranta anni di istituzione della regione. Evento che voleva significare anche il tentativo di un bilancio storico e, al di là della legittima commozione di tanti, poteva rappresentare uno stimolo a rendere più civile il confronto politico. Non è andata così.
Venerdì si è svolto un consiglio regionale con all’ordine del giorno la situazione dell’Ente dopo i provvedimenti governativi di taglio dei trasferimenti finanziari. Il centrodestra non ha voluto partecipare ed a preferito svolgere una conferenza stampa per dire ciò che pensa della condizione economica e finanziaria dell’istituto che dovrebbe contribuire a far funzionare pur nel ruolo di opposizione.
Non spetta a me esprimere valutazioni rispetto al modo e ai tempi decisi per la discussione. Rimango però colpito da alcune affermazioni rispetto ai motivi delle difficoltà che le comunità amministrate hanno da affrontare. Un consigliere leghista ha sostenuto che tutto dipende dal disastro provocato, nei quaranta anni trascorsi, dalle amministrazioni di centrosinistra. Scompare in questa visione apocalittica ogni riferimento ai processi indotti dalle ripetute crisi degli assetti mondiali, dalla marginalità dell’Umbria rispetto alle scelte dei governi nazionali. Ma principalmente non si riconosce la qualità dell’avanzamento dell’Umbria nella sua struttura economico-sociale e culturale. Portare l’Alta Valle del Tevere come esempio di arretratezza economica è una sciocchezza che offende una classe dirigente che ha saputo, nel dopoguerra, costruire un assetto sociale molto avanzato e moderno. Gentile novello consigliere, se ci fosse stato a guidare la regione il prode Calderoli o se il raffinato figlio di Bossi fosse stato sindaco di Città di Castello, oggi non avremmo alcun problema?
Il settarismo, di ogni colore, rende ciechi e la cecità non aiuta a capire ciò che è necessario mettere in campo per affrontare una crisi che ha origini complesse che richiede una sorta di rifondazione dello Stato nelle sue articolazioni centrali e territoriali. Anche per l’Umbria si pone il problema di come ripensarsi e non solo per affrontare i pesanti tagli imposti da Tremonti ai bilanci regionali e comunali.
Riformare, riformar bisogna se si vuole salvaguardare una tenuta sociale che è anche dovuta ad una spesa pubblica molto consistente che non sarà possibile preservare, ma che in un processo di profonda riconversione può continuare a produrre risultati adeguati alla bisogna.
Il centrodestra umbro non può nascondersi il fatto che tutte le regioni e l’ANCI hanno dichiarato il proprio disaccordo per la manovra finanziaria del governo centrale. Colpevolizzare la presidente Marini non sembrerebbe cosa utilissima per risolvere i problemi di bilancio dovuti a decisioni prese a Roma.
Non si può non considerare che, per esempio, servizi primari come i trasporti o l’edilizia popolare non hanno più finanziamento e che la scelta è la soppressione dell’attività o l’introduzione di nuovi balzelli.
Il centrosinistra non può non considerare che la protesta delle regioni e dei comuni assumerà rilievo e sarà compresa dalla cittadinanza, se la lotta agli sprechi sarà una priorità nell’attività amministrativa. Non sarà facile e sarebbe auspicabile che il consiglio regionale tornasse ad essere un centro di discussione e di democrazia formale che ha come zenit l’interesse generale.
Continuare a non vedere che il rischio che stiamo correndo è quello del consolidamento di un muro di cemento armato che separa la politica e la sua classe dirigente dalla popolazione è cosa grave a cui bisogna porre rimedio. Ciò spetta a tutti coloro che continuano a scommettere sulla buona politica come medicina essenziale per curare il Paese.
da Francesco Mandarini | Lug 20, 2010
Quarant’anni da quel 20 luglio del 1970 quando si riunirono i trenta consiglieri regionali che avrebbero iniziato la costruzione dell’istituto regionale, sono una ricorrenza che sollecita qualche riflessione politica. Saranno gli storici, con maggior dottrina, a precisare il significato e il ruolo che l’ente regione ha avuto nella crescita della nostra comunità ma la storia è anche costruita attraverso le esperienze delle persone. Ecco la mia. Quel 20 luglio ero tra quei trenta eletti all’assemblea regionale e, come consigliere giovane, fui segretario nella prima seduta.
Ho nitido il ricordo di una Sala dei Notari gremita di popolo e di una classe dirigente che esprimeva collettivamente una forte tensione civile. Colma di grandi speranze la Sala dei Notari esprimeva una composta allegria. Non c’era alcun burocratismo. Piuttosto si svolse una sorta di rito liberatorio pieno di fiducia. La cerimonia aveva come protagonisti coloro che già rappresentavano i legittimi interessi di forze sociali e dell’Umbria delle cento città , i rappresentanti del governo centrale e i sindaci delle città . I sindaci. A quei tempi non erano eletti direttamente ma furono capaci, negli anni delle grandi emigrazioni degli umbri nel mondo, a organizzare una lunga lotta di resistenza al degrado delle città svuotate dalle forze migliori. Chi ha una certa età ricorda con angoscia la povertà di tante città umbre fino agli anni sessanta. Oggi Spoleto, Gubbio o i comuni del Trasimeno sono gioielli di straordinaria bellezza. E’ l’intera Umbria che viene vissuta dai visitatori come terra di civiltà , nonostante che sbreghi e brutture non manchino. Il vivere in Umbria può essere attraente. Questo processo di emancipazione dalla miseria non è stato un regalo della provvidenza. Decisivo è stato il lavoro dei sindaci di quegli anni. Espressione diretta del mondo contadino, delle fabbriche, delle professioni o dell’intellettualità , i sindaci furono veri capi popolo capaci di organizzare nella sobrietà e nel rigore le forze per costruire un nuovo sviluppo. La coreografia della Sala Notari era semplice: non esprimeva altro che la soddisfazione per il raggiungimento di un obbiettivo voluto dal popolo. Negli anni cinquanta e sessanta, in Umbria più che da altre parti, tra gli slogan delle grandi manifestazioni popolari, ce ne era uno che rivendicava l’istituzione della regione. Come esigenza di autogoverno come metodo di costruzione della società post bellica la regione era considerato il necessario strumento per superare l’indifferenza dei governi centrali verso una terra considerata marginale.
Le regioni furono istituite con venti anni di ritardo. Grazie alla straordinaria stagione riformatrice frutto delle lotte degli anni sessanta, alla fine la Costituzione fu applicata. Altro che il chiacchiericcio di questi anni sulle riforme istituzionali. L’elenco delle riforme prodotte negli anni sessanta sarebbe lunghissimo. Basta ricordare l’inizio della costruzione del welfare, la riforma sanitaria, lo statuto dei diritti dei lavoratori, il diritto ad una formazione scolastica di massa.
Una stagione riformatrice che i novelli riformisti dovrebbero studiare con attenzione per capire ciò che è necessario fare per portare fuori dal pantano l’Italia.
Nessuno dei partiti componenti la prima assemblea regionale sono presenti nell’attuale fase politica. O meglio sussistono alcune sigle che richiamano i vecchi partiti. Ma sono sigle che non esprimono significativi consensi elettorali e comunque sono altra cosa rispetto a quelli passati.
La cerimonia per l’anniversario dei quaranta anni di vita regionale si svolgerà alla Sala dei Notari martedì prossimo e sarà interessante ascoltare gli interventi. Tra i relatori è stato scelto, giustamente, Vinicio Baldelli. Sono molti anni che non ci vediamo eppure in me permane un sentimento di riconoscenza nei confronti di questo gentiluomo. Democristiano integerrimo era vice presidente della prima commissione, quella per il bilancio e gli affari istituzionali. Come assessore al bilancio dovevo relazionare e, spesso, entrare in discussione con Baldelli. In sincerità all’inizio del mio mandato non riuscivo sempre a reggere alle critiche della minoranza. Una questione di conoscenza dovuta all’impreparazione del sottoscritto, ma anche a difficoltà oggettive del quadro finanziario dell’ente regione. Sarebbe stato nelle cose che l’opposizione approfittasse dei limiti di un giovane in formazione. Non fu così. Prevalse in Baldelli l’interesse generale. Così, con cautela e tranquillità , il democristiano cercò di insegnare al giovane assessore comunista i meccanismi del bilancio. Ciò che contava per Baldelli era la qualità dell’istituzione. L’interesse non fu quello di mettere in difficoltà l’assessore, ma quello di contribuire a far funzionare meglio l’ente regione. L’assessore doveva conoscere nell’interesse di tutti come gestire un bilancio pubblico. Sembra una favoletta eppure in quei tempi di aspre tensioni tra i partiti, il dovere che i dirigenti di partito insegnavano a tutti coloro che gestivano la cosa pubblica era quello di guardare all’interesse generale e non al tornaconto di parte.
A guardare al pantano della politica attuale un battito d’ali di nostalgia è legittimo, ma lo superiamo subito augurando ai nuovi consiglieri ogni successo nel costruire la regione federale. Qualche dubbio al riguardo è legittimo considerando la storia del regionalismo. L’istituzione delle regioni fu una riforma mancata. Una delle tante, ma la più grave nelle sue conseguenze. Si mancò l’occasione del mutamento radicale nel funzionamento dello Stato e presto il morto si riprese il vivo, il centralismo tornò a trionfare e le regioni si trasformarono (non tutte in verità ) in enti burocratici piuttosto che in strumenti di partecipazione e d’innovazione democratica. Difficile pensare che il federalismo immaginato dai leghisti possa costituire una speranza di riforma democratica dello Stato. L’ideologia dell’egoismo proprietario o di area geografica, non sono viatici seducenti per coloro che amano la democrazia organizzata. Possono provocare catastrofi.
da Francesco Mandarini | Lug 12, 2010
Il rischio che corre ogni opinionista politico è quello di diventare un disco rotto che ripete, commento dopo commento, le stesse cose da quindici anni. Colpa di una transizione infinita e di una politica che esterna molto senza nulla dire. Domande. Il Paese Italia è alla deriva per responsabilità delle sue classi dirigenti oppure siamo, al di là della particolarità italiana, soltanto, all’interno di una crisi mondiale che ha modificato alla radice le prospettive di sviluppo di tutto l’Occidente? Propendo per rispondere positivamente a tutti e due i quesiti. Che ci sia un problema di classe dirigente in Italia mi sembra evidente. Anche se un’ora davanti alla TV ad ascoltare dichiarazioni di politici, imprenditori, intellettuali trendy, opinion maker del “sì, ma”, è sufficiente a risolvere l’interrogativo, non bisogna essere provinciali. Le banalità non sono prerogativa italiana. Infatti, è anche vero che, a parte qualche lodevole eccezione, in tutti i Paesi un problema di qualità del ceto dirigente esiste da anni a segnalare una crisi della politica in tutte le democrazie occidentali.
Pensare che, nel bene o nel male, tutto dipenda da Berlusconi mi sembra una scorciatoia a giustificazione dell’incapacità di molti suoi competitor di dare una prospettiva politica e sociale all’Italia.
Dopo aver cantato, per una ventina d’anni, le magnifiche sorti del nuovo che avanzava come esigenza dell’evoluzione della democrazia post-partiti di massa, ci ritroviamo con una sinistra e un centrosinistra che balbettano. Ancora incapaci di capire quale è la domanda pressante che viene dal popolo, pensano che la soluzione possa venire dalle indecenze giornaliere dei vari sottopanza di Berlusconi. Travolti dal berlusconismo, non sanno bene cosa fare di fronte all’evidente crisi della destra al governo. Non vengono vissuti come un’alternativa. Perchè?
La crisi non è una maledizione divina. Essa ha origine dal dominio dell’ideologia liberista e dalle sue conseguenze economiche, sociali e politiche nei processi di globalizzazione. In Italia interprete sommo di questa ideologia è stato Berlusconi, coprotagonisti molti uomini e donne della destra ma il centrosinistra non è stato in grado di rappresentare un’altra idea del futuro del Paese anche perchè affascinati dalla modernità del liberismo. Così coloro che hanno portato al disastro economico attuale sono gli stessi che continuano a gestire il nostro futuro con le stesse iniquità del passato. La crisi la pagheranno i soliti noti. I precettori di rendite finanziarie, i grandi patrimoni, gli evasori fiscali non cacceranno un Euro.
Se è stata sufficiente una telefonata della Marcegaglia per indurre Tremonti e Berlusconi a risolvere i problemi che la finanziaria poneva alla Confindustria, non sono bastati giorni e giorni di proteste della Conferenza dei presidenti di regione per convincere il governo a riflettere sulla impossibilità di amministrare con i tagli previsti dal decreto su cui Berlusconi ha posto la fiducia. Non metteremo le mani nelle tasche degli italiani, assicura il presidente del consiglio. Una falsità . In realtà nei due anni passati la pressione fiscale è aumentata e l’accordo del governo con i comuni e province, è avvenuto con la promessa di una tassa unica municipale. Una furbizia. La nuova tassa sostituirà l’abolizione dell’ICI., abolizione che consentì la vittoria della destra nelle passate elezioni. Chiamparino, efficiente sindaco di Torino, nel presentare l’accordo ha assicurato che la nuova tassa sarà ad invarianza di pressione fiscale. Un giorno capiremo cosa voglia significare questa invarianza promessa da Chiamparino. Nel frattempo che succederà alla sanità e ai trasporti pubblici?
I presidenti di regione hanno deciso che restituiranno le deleghe allo Stato per tutti quelle competenze che non potranno essere svolte dopo le decurtazioni previste. Scelta grave che segna un altro salto nella crisi istituzionale del Paese. Aspettiamo nuovi balzelli e nuove inefficienze nella gestione dei servizi sanitari e di mobilità . Il percorso tutto ideologico della destrutturazione di ciò che resta del welfare sarà accelerato. Se nella scuola diminuiscono gli insegnanti di matematica e aumentano quelli di religione, nella sanità si allungheranno le file negli ospedali pubblici e si ridurranno quelle delle strutture private. Il diritto alla salute sancito dalla Costituzione, sarà esercitabile con la carta di credito per chi la possiede.
Che il debito pubblico sia un problema è innegabile. La questione è come affrontarlo, con quali scelte. Quelle che segnano la manovra del governo della destra scaricano tutto l’onere sugli stessi ceti che hanno visto ridotti i propri redditi mentre la parte sostanziale della ricchezza privata rimane intonsa. Di ben altro si sentiva la necessità . Gli stipendi italiani sono superiori soltanto a quelli della Grecia e del Portogallo. La spesa sociale è tra le più basse d’Europa. I servizi alle imprese sono assolutamente insufficienti ad assicurare uno sviluppo certo in un mondo globalizzato. Se ci fosse una classe dirigente degna di questo nome ben altre scelte potrebbero essere fatte nell’interesse generale.
Purtroppo prevale l’interesse personale e di casta così che, anche le energie migliori del Paese, vengono fagocitate dal disastro.
Disastro è definizione forte. Ma quale altra definizione usare di fronte al fatto di venerdì? In un Paese dell’Occidente si è svolto, per la prima volta nella storia in queste dimensioni, uno sciopero dei giornalisti non per il contratto di lavoro, ma in difesa della libertà di stampa? Non è questione di destra o di sinistra. Una lotta in difesa della libertà di informazione segnala gravemente un problema democratico. Una forzatura degli estremisti? Non credo. Nelle graduatorie mondiali l’Italia è al settantatreesimo posto in tema di libertà di stampa. Subito prima del Gabon, credo.