Indagine dopo indagine, vengono in evidenza le difficoltà
dell’economia della nostra regione. Nel nuovo “Annuario economico
dell’Umbria”, presentato recentemente, si conferma il permanere
dei limiti strutturali delle imprese umbre: sottocapitalizzazione
e frantumazione. Aziende del terziario avanzato quantitativamente
ininfluenti non hanno modificato la tradizionale struttura delle
piccole imprese. Le diverse multinazionali presenti in Umbria si
esprimono soltanto come terminali produttivi senza alcuna
autonomia gestionale e quindi esposti a chiusure e
ridimensionamenti. Nessun canta più i meriti del piccolo è bello
proprio perché quel bello non riesce più a produrre ricchezza se
mai ne ha prodotta autonomamente anche nel passato. Non si è
riusciti a costruire “reti” imprenditoriali e i pochi distretti
settoriali non si sono consolidati negli anni ed oggi subiscono
feroci concorrenze nel mercato interno e internazionale.
Questi i caratteri dell’attuale sviluppo umbro. Nonostante anni e
anni di discussioni e di tentativi, a volte intelligenti, di
innovazione nell’intervento pubblico di sostegno allo sviluppo,
siamo anche noi dentro la crisi economica che caratterizza il
paese Italia. Potrebbe essere altrimenti? Nessuno può pensare che
di fronte ad un disastro delle dimensioni di quello che vive la
nostra nazione, una piccola comunità come è la nostra potesse
cavarsela. Bisogna però capire se tutto quello che si è fatto è
andato nella giusta direzione. Se cioè la politica e le
istituzioni hanno fatto il loro mestiere. Mancano, da parte del
sottoscritto, le competenze e manca lo spazio per una analisi
approfondita delle politiche regionali di questi anni. E’ forse
preferibile esemplificare.
A dispetto di un significativo utilizzo di fondi comunitari per la
formazione professionale, non si è riusciti a creare e consolidare
un’occupazione stabile. Ancora oggi la disoccupazione
intellettuale, assieme ad un tasso di attività femminile
inadeguato, caratterizza l’occupazione. Così che gran parte dei
laureati svolgono lavori sottopagati o emigrano dall’Umbria e
molte giovani donne non entrano nemmeno nel mercato del lavoro.
Non ci sarà un problema di come vengono utilizzate le risorse
comunitarie per la formazione? Se i risultati non sono stati
adeguati forse è il caso di introdurre qualche novità e andare un
poco oltre gli interventi di questi anni che notoriamente sono
stati, per così dire, diffusi come una pioggia primaverile. Al
riguardo sarebbe utile una valutazione del sindacato.
La discussione in consiglio regionale attorno al programma di
legislatura ha cercato di individuare i nodi da sciogliere per
innescare una nuova fase dello sviluppo. Al di là della qualità
dei diversi contributi, non sembra che siano maturate nel
centrosinistra idee innovative rispetto alla linea di
concertazione tra le parti sociali e istituzionali che va sotto il
titolo del Patto per lo sviluppo.
Non siamo per la novità per la novità. Non deve scandalizzare la
riproposta di una tesi che ha avuto il consenso di tanti e che ha
prodotto anch’essa il risultato elettorale positivo per la
coalizione guidata dalla Lorenzetti.
Il punto è che non sembra che i diversi “tavoli” istituiti con i
meccanismi del Patto siano stati in grado in questi anni di
attivare processi virtuosi nell’economia regionale. Sarebbe
pretestuoso pretendere già visibili innovazioni, ma almeno
intravedere l’inizio di un percorso potrebbe aiutare a rendere più
forte il meccanismo della concertazione.
L’impressione, sicuramente sbagliata, è quella che attorno alle
non ingenti risorse pubbliche disponibili per gli investimenti
produttivi, si accendono vivaci appetiti. Sono legittimi interessi
territoriali e sociali, ma spesso essi sollecitano risorse senza
mettere in campo proposte convincenti e di mezzi privati
aggiuntivi se ne vedono pochi. Un aggiornamento del pensiero
sindacale al riguardo aiuterebbe a capire meglio che cosa può
sollecitare “tavoli” più operativi.
Con una spesa pubblica per investimenti in caduta libera e con
fondi comunitari insufficienti a soddisfare esigenze diverse, il
Patto per lo sviluppo,al di là della forte passione della
presidente, rischia di tradursi in semplice espressione di volontà
politica.
Per fortuna e per capacità degli amministratori non siamo la
regione più indebitata d’Italia. Bene ha fatto l’assessore al ramo
nel precisare che il ministero del tesoro continua da tre anni a
commettere lo stesso errore imputando alla regione debiti che sono
dello stato. L’assessore ha portato i numeri e non resta, al
governo centrale, che confutarli o cambiare parere.
Meglio i numeri che ricercare nelle valutazioni delle società di
rating la conferma del proprio ben operare. Si potrebbe obbiettare
che sia la gigantesca corporate Enron che la multinazionale
Parmalat, nel loro ultimo anno prima della catastrofe, avevano
avuto i bilanci certificati e il loro rating molto soddisfacente.
Meglio portare i numeri che AAAA.
Corriere dell’Umbria 10 luglio 2005

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