da Francesco Mandarini | Set 24, 2012
Non esistono scorciatoie e le semplificazioni non servono. Il problema è come approfondire la conoscenza dei processi economici, sociali e culturali che hanno determinato lo stato del centro storico di Perugia. Forse più corretto sarebbe parlare dei problemi della città vecchia intesa come quel complesso dei borghi che supportano il centro. Con un’avvertenza: lo svuotamento dei centri storici è stato un lungo processo che ha riguardato gran parte dell’Italia e dell’Europa. Il modello di sviluppo incentrato sul trasporto privato e sulle aree “dedicate”, ha comportato una crescita che, anche quando non caotica (e non è il caso di Perugia), assegna ai centri storici principalmente la funzione di attrazione turistica e di “vetrine” commerciali per i grandi gruppi dell’industria della moda e di altri settori dell’economia di valenza nazionale o internazionale. Spazi per il piccolo commercio nelle aree pregiate della città ne rimangono pochi. Anche senza avere nessun pregiudizio ideologico, e non è il mio caso, nei confronti della rendita immobiliare non si può non intuire che il costo degli affitti per un’attività commerciale nella così detta acropoli, è tale da rendere problematica la sopravvivenza di chi non è in franchising. Una banale passeggiata per le strade che si congiungono a Corso Vannucci, e si ha l’impressione dell’impoverimento delle attività . Gli esperti pensano che il mercato sarà in grado di aggiustare il tutto: abbassandosi la domanda, il costo degli affitti si adeguerà . E’ possibile. Da molti anni, però, la quantità di locali vuoti è in aumento e i rentier non sembrano seguire le “leggi” del mercato. Di certo una questione di costo degli affitti c’è, ma non è l’unico problema. Un compagno carissimo, mi ha detto che in Porta Sant’Angelo vivono trentasei famiglie e il resto delle abitazioni o vuote o occupate da qualche studente italiano o straniero. Nella mia giovinezza in Corso Garibaldi i bambini erano così numerosi che si confrontavano due squadre di calcio giovanili e le strade erano piene delle loro grida. C’erano le sedi di diversi partiti e alla messa di Sant’Agostino, la domenica, i fedeli riempivano ogni spazio della chiesa. Nell’area del Carmine, Via della Viola, ecc., nonostante lo sforzo di giovani imprenditori che hanno aperto bar e ristoranti, continua l’esodo di abitanti. Anche l’ultimo fruttivendolo ha chiuso. Abbiamo appreso di un piano per il rilancio del centro che affronta dal punto di vista commerciale la questione. Annunciata la possibilità di trasformare il Cinema Turreno anche in un’area di commercio e si rende possibile l’apertura di spazi per nuove attività di vendita di abbigliamento in altre aree del centro. Si crede che il problema centrale sia l’offerta commerciale? Non sono un esperto, lo riconosco, domando a chi esperto è: perchè il supermercato “storico”, il mercato coperto, non ha avuto successo e i diversi progetti di ristrutturazione non hanno avuto fortuna? Non sarà che il problema decisivo, anche per le attività di commercio, sia stato l’esodo di abitanti e di tutti i centri direzionali dall’acropoli? Senza una comunità che abita nei borghi e nella città “vecchia”, non servono a nulla nè gli eventi nè favorire l’arrivo di nuovi loghi al centro di Perugia. Intendiamoci. Molte delle iniziative culturali portate avanti dalle amministrazioni pubbliche o dalla vivace rete di organizzazioni culturali private, sono di eccellente qualità . Ma ciò se è molto apprezzabile, non è sufficiente. La stessa proposta commerciale del centro storico può essere riqualificata. Ma come? Potete immaginare un’abitante di Madonna Alta che viene a fare la spesa all’ex Cinema Turreno per acquistare gli stessi prodotti che si possono trovare nei cento supermercati sparsi da Bastia a Corciano? Senza una politica amministrativa di lungo respiro che consenta il ritorno di residenti, non c’è speranza d’invertire la tendenza al degrado. Una settimana fa è stato chiuso uno dei caffè storici di Perugia, il Caffè Turreno. E’ stato detto che si tratta di un’attività imprenditoriale che è andata male. Peccato. Per me, che ho frequentato quel luogo per cinquantadue anni, la cosa ha altro significato. Non sono il solo: chi pensa che il futuro di una comunità si costruisca anche attraverso la difesa dei luoghi della memoria collettiva, ritiene che la chiusura del Turreno non sia soltanto il fallimento di un’attività commerciale. Quel luogo rimanda a una storia della vita democratica della città che è sbagliato ricondurre alla sola sinistra comunista. In quel caffè ho incontrato cattolici e socialisti, ma anche chi non aveva alcuna affinità politica con i “rossi” trovava il modo di dare un consiglio, di suggerire un libro da leggere o di avvertire sulle cose sbagliate che la sinistra faceva. Renato Locchi ha ragione nel ricordare come fosse naturale interloquire con un grande intellettuale o offrire da bere al “capo” venuto da Roma. Quando Michele Gargiulo, il vecchio proprietario, ti guardava con rimprovero per un atteggiamento settario, abbassavi gli occhi e chiedevi scusa. Mario, il figlio, era il primo a leggere l’Unità , così sapevi subito qual’era la linea del partito. Quando arrivava Ilvano Rasimelli o Gino Galli, ascoltavi le loro argomentazioni e/o i loro scontri sulla “linea” di Togliatti o Berlinguer. Nelle tenzoni del sessantotto la cosa più normale era un tavolo dove sedeva un dirigente del PCI, un’extraparlamentare e un cattolico del dissenso che discutevano animatamente ma con il massimo rispetto. L’anarchico Brenno Tilli, una delle figure più creative di Perugia, fu convinto a votare per la prima volta nel 1970. Si votava per il primo consiglio regionale. Si poteva contribuire a eleggere Pietro Conti a presidente. Il nostro entusiasmo trascinò al voto anche il vecchio anarchico. Il primo luogo dove portavi il figlio era il Caffè Turreno. Un gelato da Michele era garantito. Episodi, piccole storie forse. La nostalgia è un fatto personale, ma quando Vittorio Gargiulio mi ha informato della chiusura, ho sentito che una storia era finita. Non sempre il nuovo che avanza è migliore del passato. Per questo la nostalgia diviene a volte una salutare medicina.
Corriere dell’Umbria 23 settembre 2012
da Francesco Mandarini | Set 18, 2012
Sembra passato un secolo e invece era il 2010 quando il geniale Marchionne annunciava il progetto di “Fabbrica Italia” per la FIAT del futuro. Grazie a questa promessa, ottenne la fine del contratto nazionale e impose ai suoi dipendenti l’accettazione di clausole contrattuali capestro. Espulsa la Fiom dalle rappresentanze sindacali ammesse in fabbrica, la FIAT usci dalla Confindustria. Compatti come mai prima, i dirigenti del partito democratico apprezzarono la modernità della proposta dell’uomo venuto dal Canada e residente in Svizzera. Fassino entusiasta, Chiamparino con burbera certezza apprezzò l’investimento promesso di venti miliardi. E Renzi? Con Marchionne senza se e senza ma, dichiarò dall’alto della sua provata competenza in materia. Al governo c’era Sacconi che si spericolò nell’appoggio a CISL e UIL firmatarie di accordi separati con la FIAT. Bisognava isolare quegli estremisti della FIOM se si volevano gli investimenti. Tra i lavoratori, la FIOM non è stata isolata mentre il progetto “Fabbrica Italia”, si è dissolto come neve al sole. Bonanni è confuso, smarrito. Fassino e Renzi riflettono e tacciono. La crisi dell’auto è di tale dimensione da rendere l’investimento promesso e illustrato da una campagna pubblicitaria che utilizzò tutti i mezzi, rischioso. Per questo non va più bene agli azionisti FIAT. La famiglia Agnelli ha intenzione d’investire in Italia soltanto per rafforzare la sua squadra di calcio. I tifosi della Juventus possono stare tranquilli a differenze delle migliaia di lavoratori che producono le FIAT. Che la crisi dell’auto sia cosa seria è indubbio ma il luminare canadese, residente in Svizzera, dovrebbe spiegare perchè la sua azienda ha i risultati peggiori in tutta Europa e continua a perdere quote di mercato. Non sarà che la scelta di non produrre nuovi modelli, come hanno fatto tutte gli altri concorrenti, sia stata una scelta suicida? Assieme ad altri economisti, lo sostiene Romiti ex amministratore delegato della FIAT. E il governo dei professori che dice? Nello stesso giorno dell’annuncio di Marchionne, il presidente del consiglio ha ritenuto saggio indicare in alcuni articoli dello Statuto dei Lavoratori le ragioni della mancata crescita dell’occupazione in Italia. Non c’è dato sapere secondo quali ricerche, indagini, studi, Monti abbia fatto quest’affermazione. L’impressione è che, come succede a volte a tutti i predicatori, nel gentile professore abbia fatto velo l’ideologia. Non si tratta della consueta idea liberale, ma del più puro liberismo della “Scuola di Chicago” che, come possiamo verificare ogni giorno, sta producendo la ricchezza delle nazioni da almeno venti anni. Ma per ideologia si fanno “guerre sante” e non c’è prova contraria utile per far cambiare idea. L’ideologo non ha dubbi, mai. Così, una legge di civiltà come’è lo Statuto dei Lavoratori, diviene il vincolo allo sviluppo. Banalità che ha il sostegno di tanta parte dell’intellettualità ma che fortunatamente provoca anche reazioni contrarie. L’arretratezza del Paese ha come causa essenziale la pluridecennale mancanza di ogni politica industriale. Il produrre denaro attraverso il denaro ha provocato lo spostamento della ricchezza da chi produce beni materiali alle rendite, spesso parassitarie. Che l’Italia abbia un problema di produttività complessiva è evidente. Il problema che abbiamo è: quali politiche sono necessarie per migliorare la produttività ? La scelta di agire sul costo del lavoro è una scelta che non ci porta fuori dalla recessione. Non è questo che ha fatto la Germania. La produttività è data dagli investimenti e dalle innovazioni di prodotto oltre che da un’organizzazione del lavoro che rifugge dalla precarietà . E’ questa la lezione che ci viene da Berlino. I dati dimostrano che il tessuto produttivo italiano senza investimenti rilevanti da decenni rischia una deindustrializzazione irreversibile. Se il privato non ha le risorse per innovare è il pubblico che dovrebbe avere un piano d’investimenti capace di superare le arretratezze del Paese. Le risorse? Lotta all’evasione, taglio della spesa improduttiva, patrimoniale sulle grandi ricchezze. E’ questa la linea di Hollande. Il ministro Passera, non passa giorno, che non promette piani per ogni settore. Avendoci promesso che per lui l’impegno in politica non terminerà con il governo attuale, potrebbe trovare il tempo, tra un convegno e un altro, di far deliberare dal consiglio dei ministri uno dei tanti progetti promessi? Ancora oggi la pubblica amministrazione porta ritardi biblici nei suoi pagamenti ai fornitori. Quante piccole imprese stanno fallendo per questa ragione? Perchè la revisione della spesa pubblica continua a incentrarsi sulla sanità quando le risorse impiegate in questo settore sono di sotto la media europea? Perchè si continua a privilegiare le grandi opere e non c’è uno straccio di piano per rendere sicure le strutture scolastiche o per risanare un territorio massacrato da eventi naturali e da una politica urbanistica terrificante? La campagna elettorale è iniziata in grande confusione. I sondaggi confermano che quasi la metà dei cittadini è incerta se/o per chi votare. La destra continua a essere angosciata per l’incertezza della sesta ridiscesa in campo dell’Unto dal Signore. Il centrosinistra è in uno stato di lacerazione permanente e non appare in grado di offrire una piattaforma di governo capace di unire le forze. Il partito democratico sembra volersi giocare tutto con “L’operazione primarie”. E’ un rischio? Al punto in cui si è arrivati c’è poco da fare. Facessero pure le primarie, ma forse sarebbe utile che il candidato leader del centrosinistra lo scegliessero gli elettori di questo schieramento. Il contrario sarebbe come se il candidato dei repubblicani americani fosse stato scelto dagli elettori democratici. Non sarebbe stato antidemocratico e anche ridicolo?
Corriere dell’Umbria 16 settembre2012
da Francesco Mandarini | Set 9, 2012
La campagna elettorale ha avuto inizio. L’apertura è avvenuta a Cernobbio in occasione del consueto incontro dei potenti d’Italia. Un sondaggio tra industriali, banchieri, opinion maker e quanto di altro, conferma che il prossimo governo dovrà essere presieduto da Mario Monti pena la rivolta dei mercati. L’house organ del governo dei tecnici, il giornale di Eugenio Scalfari, elenca quanti sponsor ha già incassato l’attuale capo del governo. Si va da Obama per passare alla Merkel e Barroso per non dire del Fondo Monetario Internazionale e, ovviamente, della burocrazia europea. Lo slogan? Non si può fare a meno di Monti, i mercati ci punirebbero. Siamo in una fase in cui sembrerebbe che i governi non siano frutto di un libero voto dei cittadini ma espressione di poteri finanziari misteriosi e/o di poteri politici esterni al nostro Paese. Non ci si può scandalizzare. L’avventura del governo delle destre, guidato dal Cavaliere di Arcore, aveva portato l’Italia vicino al disastro non solo e non tanto economico ma d’immagine complessiva. Mario Monti ha avuto la capacità di ridare credibilità internazionale a un Paese che ha fondamentali economici ancora forti ma una classe dirigente scadente. E non ci si riferisce alla sola classe politica. Certo il governo Monti ha applicato le ricette “liberiste” di tutti i governi europei e il suo programma di equità , rigore e sviluppo, allo stato dell’arte si è fermato al rigore nei conti a discapito delle condizioni di vita di milioni di cittadini. Purtroppo per l’equità e per un nuovo sviluppo bisognerà attendere che i mille annunci dei loquaci ministri divengano realtà . Ma il terrore di massa che le elezioni prossime venture ripropongano le stesse intelligenze che hanno portato l’economia allo stato che conosciamo, legittima la spinta ad avere un governo Monti-bis. Quelli che ci ostiniamo a chiamare partiti non sembrano in grado di rispondere all’indignazione popolare per la pessima politica di questi anni. Napolitano ha ragione quando afferma che non c’è democrazia senza partiti ma che i partiti devono rifondarsi pena la decadenza della democrazia. Quelli del centrodestra sono in attesa del Messia. Scende di nuovo in campo l’unto del signore? L’attesa sta diventando snervante e nel frattempo prevale la lotta tra colombe e falchi. Parlamento bloccato sulla legge anticorruzione e sulla riforma del sistema elettorale. Gli allibratori di Londra danno la conferma del “porcellum” per le prossime elezioni come l’ipotesi più attendibile. In realtà la crisi del centrodestra si ripercuote sul funzionamento della democrazia parlamentare. Che hanno in testa gli amici del centro-sinistra? Un vecchio compagno di stagioni diverse mi ha chiesto, un poco affranto, com’è stato possibile che la sinistra sia passata dalle dispute tra Togliatti e Nenni o a quelle tra Ingrao e Amendola, all’aspra contesa tra Bersani e Renzi? Imbarazzato, ho cercato di consolare l’interlocutore ricordando che il processo d’impoverimento della sinistra ha riguardato gran parte del mondo occidentale principalmente per una ragione: i gruppi dirigenti dei partiti di sinistra sono stati tutti fagocitati dal pensiero, dall’ideologia liberista. Il crollo del blocco sovietico ha trascinato con sè anche le grandi socialdemocrazie. La terza via di Tony Blair e di Clinton si è rivelata una strada angusta che introitando l’ideologia della destra economica ha annichilito ogni idea di rinnovamento della sinistra. Con la scomparsa dei partiti di massa e con la conseguente personalizzazione della politica, sono scomparsi anche tutti quegli strumenti di ricerca e di studio che consentivano ai gruppi dirigenti di costruire piattaforme politiche frutto di un’autonoma elaborazione. Invece dello studio, adesso sembrano prevalere il marketing e gli spin doctor. In base a quale complesso d’idee e valori un cittadino sceglierà il candidato premier del centrosinistra? Non è dato sapere. La forza di Renzi risiede nella giusta esigenza di rinnovamento dei gruppi dirigenti. Non è poco, ma non è sufficiente. L’età anagrafica è un dato importante ma non esaustivo delle problematiche che tormentano il PD. Il rinnovamento del centrosinistra comporta anche, principalmente direi, quello delle idee e dei valori con cui si chiede il consenso ai cittadini. Se come sembra, il sindaco di Firenze ha in testa la stessa ideologia di Monti mi sembrerebbe logico e giusto per il Paese che Renzi si battesse perchè il professore rimanga dove sta. E’ certo che i rapporti internazionali di Monti siano più consolidati di quelli che ha al momento il competitor di Bersani e, nonostante l’età , anche Monti ha un suo appeal. I mercati poi non capirebbero, direbbe Casini. Com’è ovvio in vista delle elezioni sono cominciate a circolare voci sulle candidature. Chiacchiere da bar, speriamo. Se non lo fossero ci sarebbe da preoccuparsi. Il votare turandosi il naso è una categoria della politica sempre più in disuso. Renzi o non Renzi pensare di riprodurre, anche nelle prossime elezioni, candidature che hanno soltanto il senso del proseguire carriere già infinite, non potrà che allargare l’area del non voto. Anche queste saranno chiacchiere da bar, ma senza un profondo rinnovo dei candidati, molti si sentiranno legittimati a disertare la cabina elettorale. Sarebbe una tragedia? Sì, ma la responsabilità ricadrebbe interamente sul ceto politico in campo.
Corriere dell’Umbria 9 settembre 2012
da Francesco Mandarini | Ago 6, 2012
Come Carlo d’Inghilterra, anche Angiolino Alfano non diventerà mai Re. Il suo destino sembra essere quello dell’eterno delfino dell’uomo di Arcore. Le cronache politiche descrivono la situazione iniziando dal sotterraneo lavorio degli uomini più fidati del cavaliere per rendere perigliosa la vita del governo Monti e nello stesso tempo impedire che finalmente l’Italia si doti di una legge elettorale capace di ridare lo scettro al popolo sovrano. L’affannosa ricerca di un sistema di voto che contempli governabilità e rappresentanza non ha fatto passi in avanti per l’incapacità dei partiti di andare oltre l’interesse del ceto politico in campo. Molti non sembrano capire che se il berlusconismo è ormai defunto, il suo funerale non è stato ancora consumato e di zombi in giro se ne vedono parecchi a tutte le latitudini politiche. La tentazione di Leghisti e Pidiellini di farsi, ancora una volta, una legge elettorale su misura, rischia di far saltare il governo e sta portando altri danni a una democrazia ormai esangue. Il populismo esulta grazie all’ignavia di quelli che dovrebbero decidere per il bene comune e invece sembrano pensare soltanto al destino dei propri fondi schiena. Giustamente Napolitano ha rivendicato a sè la responsabilità ultima dell’indizione di nuove elezioni nel suo sollecito ai partiti di fare l’interesse del Paese votando una legge elettorale che consenta elezioni democratiche e non le truffe frutto della legge attuale. Non esiste sistema elettorale perfetto, ma nessuna nazione moderna è governata da un parlamento di nominati dalle segreterie di partito. Anche tralasciando che quelli che ci ostiniamo a chiamare partiti, sono in realtà agglomerati di persone in campo da una vita che bisticciano spesso sul sesso degli angeli, in Italia le assemblee legislative non sembrano in grado di assicurare fluidità nel governo e rappresentanza degli interessi e delle idealità di parti sostanziali della società italiana. Ognuno ha in testa un sistema di voto, vale anche per me. Che il sistema proporzionale, diciamo alla tedesca, sia più consono alla tradizione italiana mi sembra indubitabile. Ma sono aperto ad altre soluzioni. Giustamente si sostiene che la sera del voto bisogna sapere chi governerà il Paese. In Germania è così, esattamente come in Francia e in Inghilterra che hanno sistemi diversissimi. In nessuna nazione esiste un premio di maggioranza ma si hanno di solito governi stabili. Perchè il Pd insiste per un sistema così poco europeo? Il sistema dei collegi elettorali piccoli o grandi che siano risolve il problema del rapporto tra eletto ed elettore? Può essere in parte vero. La questione è chi decide e come si decide il candidato del collegio. Come facciamo a dimenticare la candidatura di Di Pietro nel collegio “rosso” del Mugello o di Adornato nel collegio sicuro di Perugia. Non lo decisero certi gli iscritti del Pds del Mugello o di Perugia. Il nodo è il funzionamento dei partiti, la loro democrazia interna, la metodologia della formazione dei gruppi dirigenti. Nei disciolti partiti di massa la discussione sulle liste elettorali durava settimane e alla fine si riusciva a trovare un compromesso tra le esigenze del territorio e quelle della direzione centrale del Partito. Oggi non è più così. Anche se la nostalgia non è una categoria della politica, bisognerebbe inventarsi un metodo che consenta più partecipazione alla scelta degli eletti con regole chiare e vincolate dall’esigenza di innescare processi di rinnovamento radicale delle classi dirigenti. Risponde a ciò il meccanismo previsto dal Pd delle primarie? Essendo un fautore della democrazia nel partito e contrario alla personalizzazione della politica, non sono stato mai entusiasta del meccanismo copiato male da quello vigente negli Stati Uniti. Comunque, in mancanza di partiti non liquidi vanno bene anche le primarie se aperte a diverse candidature e riferite anche alla scelta dei candidati al parlamento nazionale. Sull’esigenza di mettere in campo nuove energie sembrano tutti concordare. Se è così, le regole dovrebbero impedire a chi ha rivestito, per decenni, cariche pubbliche e quindi ovviamente conosciuto, di essere ancora in gioco nella tenzone per un seggio in parlamento. Aborrisco che chi è sindaco o presidente in carica si candidi senza prima dare le dimissioni. Un tempo vigeva la norma dell’ineleggibilità per diverse figure, la nuova politica ha abolito anche questo vincolo di trasparenza. Sarebbe buona cosa che i partiti, nonostante la mancanza della normativa, applicassero ai propri candidati questa regola. Non lo faranno e i Grillini esulteranno e il non voto si allargherà a dismisura. Rimane misterioso come dirigenti stagionati che hanno attraversato epoche politiche diverse, non sembrano rendersi conto che la violenza della crisi economica sta portando la protesta di massa a un punto di non ritorno e verso il rifiuto della politica come strumento di soluzione dei problemi. Non è tempo di dimostrare che soltanto una buona politica potrà far uscire il Paese dalla crisi nata dalle atroci politiche liberiste della destra al governo in quasi tutta Europa?
Corriere dell’Umbria 5 agosto 2012
da Francesco Mandarini | Lug 22, 2012
I conti non tornano. Da un lato non c’è giorno senza che una dichiarazione di qualche leader europeo o del fondo monetario internazionale, confermi l’affidabilità di Mario Monti e della giustezza delle scelte del governo italiano. Dall’altro lato lo spread tra i titoli di stato italiani e quelli tedeschi sale settimana dopo settimana. Abbiamo avuto l’ennesimo venerdì nero delle borse e il differenziale è arrivato a cinquecento punti. Siamo stati contagiati, dice Monti. Il motivo? L’incertezza della situazione politica dice il capo dei tecnici. I mercati temono che con le elezioni del prossimo anno prevalgano forze politiche incapaci di formare un governo rigoroso quanto lo è quello degli specialisti che ci governano. L’argomento è di quelli che suggeriscono qualche approfondimento. E’ già in atto una campagna di stampa dei grandi giornali che sposano la tesi del grande accordo tra i principali partiti come panacea che tranquillizzerà i mercati. Domanda: il governo Monti è retto da una coalizione composta da tutti i partiti meno Lega e Idv. Quello di Monti, risulterà il governo che ha prodotto più decreti legge e ha avuto più voti di fiducia. Il ruolo del parlamento è esclusivamente quello di votare tutto ciò che decidono a Palazzo Chigi. I partiti continuano nei loro contorcimenti, ma non sembrano in grado di disturbare Monti che, rigorosamente, continua nella sua strada incentrata sull’austerità e sui tagli alla spesa pubblica. Eppure lo spread è continuato a salire. Tecnicamente, qualcosa non funziona. Si temono le elezioni prossime venture, dicono. Anche prima delle elezioni francesi si sosteneva che la vittoria di Hollande avrebbe provocato problemi ai mercati. Non è successo. E le elezioni in Grecia? Se avesse vinto la sinistra, sarebbe stato il disastro. Ha vinto la destra e il disastro è avvenuto puntualmente. In Spagna ha vinto Mariano Rajoy del Partito Popolare ma non è servito a nulla. I capitali spagnoli hanno continuato a trasferirsi in Germania. Che il turbo capitalismo fosse indifferente alla democrazia è cosa nota da qualche tempo. L’incognita è se i popoli possono o no continuare a pretendere di scegliere liberamente i propri governanti o se lo stato di emergenza creato dalla speculazione finanziaria non consiglia la sospensione della democrazia. Non si vuole prendere atto che la crisi della politica non può che trascinare con sè il peggioramento della democrazia. E in Italia la crisi della politica sta raggiungendo limiti estremi. In parlamento esistono due maggioranze. La prima sostiene il governo Monti ed è composta dal Partito Democratico, dai Pidiellini e dai centristi attorno a Casini e Fini. Poi si è riformata l’alleanza Bossi-Berlusconi che serve a impedire la riforma della legge elettorale e a stravolgere la Carta Costituzionale. La rincorsa di Di Pietro alle argomentazioni del Grillo nazionale, l’attacco ripetuto al Quirinale del capo dell’Idv, non può che comportare l’impossibilità di un’alleanza elettorale con il Pd. Casini prende atto che Bersani è una brava persona con cui sarà possibile governare a patto che Vendola e compagni stiano da un’altra parte. I montiani interni ai democratici esultano. Non sembra lo stiano facendo coloro che si sono iscritti o votano i democratici, convinti che sia un partito in cui essere di sinistra non sia un reato. Con Sel il Pd ha conquistato Milano, Napoli, Genova, Bari, Cagliari, eccetera. E con Casini? Un comune nelle Marche? Non ricordo altro di rilevante.
Quanta confusione sotto il cielo della politica. Per fortuna c’è la Corte Costituzionale. Al venerdì nero delle borse va aggiunto il venerdì felice per la democrazia italiana. Quante volte a referendum approvato da maggioranze rilevanti, era seguita la truffa di leggi che andavano esattamente contro il risultato referendario? L’elenco sarebbe lungo. Il referendum del 12 e 13 giugno del 2011 verteva sulla privatizzazione dell’acqua e dei servizi pubblici. Ventisette milioni d’italiani hanno votato per impedire questa possibilità . Referendum vinto alla grande. Il governo Berlusconi con una legge ha in sostanza annullato il risultato e, a seguire, Monti con il decreto “Salva Italia” ha proseguito nella stessa strada. Lui è un fissato delle privatizzazioni: il pubblico gli provoca allergie. La sentenza della Corte ha dichiarato incostituzionali i provvedimenti voluti dai suddetti primi ministri. L’acqua e altri beni pubblici non possono essere privatizzati obbligatoriamente. La decisione della Consulta non legittima certo la cattiva amministrazione di servizi pubblici. Anzi impone agli amministratori un rigoroso esame del loro funzionamento dei loro costi e dei loro benefici per i cittadini. Da questo punto di vista anche in Umbria c’è un lavoro da fare. L’innovazione non è preclusa dalla sentenza della Corte Costituzionale, è invece divenuta obbligatoria in tutte quelle gestioni pubbliche che risultano inadeguate rispetto alle possibilità offerte dall’avanzamento tecnologico e/o dall’offerta presente nel settore privato. Una revisione della spesa intelligente sarebbe opportuna in una regione che, in altre stagioni, ha saputo trovare la strada per risparmiare risorse e aumentare i servizi al cittadino. Non è cosa facile. Troppe le incrostazioni e le nicchie di privilegio consolidatesi nel tempo. E’ richiesto coraggio politico e determinazione. Sono tempi questi in cui galleggiare non si può. I marosi sono di tale intensità da richiedere un cambio di passo rispetto al già noto.
Corriere dell’Umbria 22 luglio 2012