Radici

Come in altri momenti della storia della Repubblica, i referendum voluti dalla Fiat esemplificano lo stato del Paese. Il dato più significativo, e inaspettato, è il grado di resistenza di una classe operaia che, al di là  di ogni retorica e ideologia, riesce ancora una volta a rappresentare la parte più civile e avanzata del popolo italiano. Un risultato, quello del No a Pomigliano e a Mirafiori, ottenuto grazie alla Fiom, ma reso possibile anche da una mobilitazione che ha interessato energie diverse che, nonostante la permanente latitanza della sinistra riformista, continuano a ritenere che un altro mondo sia possibile. Soltanto Vendola, Di Pietro e ciò che resta della sinistra così definita radicale, hanno avuto l’ardire di appoggiare esplicitamente la Fiom. Non è poco, ma non è moltissimo per coloro che si riconoscono nel centrosinistra.
La vicenda Fiat è la conferma della pochezza della classe dirigente italiana in tutti i suoi protagonisti politici, economici e istituzionali.
L’aggressione mediatica contro le posizioni della Fiom e della Cgil non ha prodotto il plebiscito voluto da Marchionne e dal governo dei berluscones e i peana alla scontata vittoria del Sì non riescono a nascondere il fatto che il ricatto non ha funzionato.
I vari Fassino, Chiamparino, Renzi, Veltroni e Ichino come succede loro spesso, hanno perso l’occasione per tacere: presentare la coercizione del dottor Marchionne come la modernità  da accettare senza se e senza ma, dimostra soltanto la loro subalternità  culturale alle forme meno cialtronesche del berlusconismo.
I succitati riformisti alla amatriciana ci confermano nella nostra valutazione: il PD è il problema e non la soluzione dei problemi del centrosinistra. Il Partito democratico rimane un accrocchio politico che non riesce a sfuggire alle spinte disgregatrici dei vari fondoschiena dei suoi dirigenti. La drammaticità  della situazione sta nel fatto che nel pieno della catastrofe berlusconiana, nella deriva dell’Italia intera, la maggior forza di opposizione continua a balbettare su ogni questione e su ogni questione a dividersi. Possibile che una forza politica che ha ereditato parti essenziali del consenso popolare della sinistra comunista, socialista e cattolica della stagione dei partiti di massa, non abbia la capacità  di esprimere un gruppo dirigente riconoscibile, accettabile per i comuni mortali? Che non si riesca ad andare oltre alle ambizioni dei protagonisti di sconfitte ripetute e sistematiche che durano da venti anni? Per la prossima campagna elettorale quale idea d’Italia proporranno agli italiani, la modernità  alla Marchionne o un riformismo che parte dalle esigenze del composito mondo del lavoro e della cultura democratica? Se continua a prevalere il personale come valore esclusivo, il rischio per il Pd diventa la marginalità  e l’opposizione perpetua alla destra del dopo Berlusconi.
Anche nel nostro piccolo, in Umbria, in tutti i territori in cui si svolgeranno i rinnovi delle amministrazioni locali, lo scontro personale per la sindacatura è all’ultimo sangue. Parliamo di elezioni per la riconquista di strutture pubbliche che hanno bilanci falcidiati dalle politiche tremontiane e che saranno obbligate a tagliare servizi e ad aumentare le tariffe. Ma l’angoscia nel PD sembra essere quella se il candidato a sindaco sarà  della cordata di pinco o in quella di pallino. Saranno i veltroniani a scegliere a Città  di Castello o la resistenza dei dalemiani avrà  la meglio? Avrà  successo il candidato del presidente della provincia o prevarrà  quello voluto dai bersaniani?
Il popolo assiste attonito alla straordinaria tenzone. Mentre cresce il distacco del ceto politico dalla gente comune al ridicolo sembra non esserci mai fine.
Eppure cose da discutere non mancherebbero. Certo, lascia basiti il fatto che con tutti i problemi che ha la nostra piccola comunità  siano ricominciate le guerre di religione. Ci risiamo con le radici francescane, benedettine e capitiniane dell’Umbria.
Il presidente Guasticchi, attivissimo in ogni campo, impone nello statuto dell’ente che amministra tali radicamenti.
In Regione la discussione sul rinnovo dello statuto è a buon punto: la partita sulle radici è aperta.
Noi siamo ormai stanchi di ripetere l’ovvia considerazione sulla laicità  delle istituzioni. Non crediamo che il francescanesimo, a cui va tutto il nostro rispetto e simpatia, aumenti il suo fascino attraverso il comma di una legge o di una delibera della Provincia di Perugia. Nè che l’Umbria abbia bisogno di discussioni di tale natura in una fase della storia regionale in cui ci sarebbe bisogno che le sue classi dirigenti affrontassero con competenza i nodi strutturali che rischiano di annichilirla.
Non siamo convinti che qualche miracolo ci salvi da una deriva che sta producendo nuove povertà  e che lascia le nuove generazioni senza speranze di una scuola accettabile e di un lavoro civile.
Meglio sarebbe un impegno a mettere a leva le risorse che ci sono e che non sempre vengono considerate dalle classi dirigenti che continuare in discussioni e divisioni che appassionano esclusivamente il ceto politico.

Riflessioni obbligatorie

Adesso, dopo il Sì al referendum, Marchionne dovrà  trovare il modo di risalire la china della perdita di quote di mercato peculiarità  della Fiat di questi ultimi anni. Gli ultimi dati conosciuti affermano che la vendita di auto è caduta del 4,9% in Europa ma la Fiat perde invece il 17% delle sue vendite. Il nostro presidente del consiglio aveva riconosciuto all’amministratore delegato del più grande gruppo industriale privato, il diritto di investire in altri Paesi nel caso che il No avesse vinto nel referendum di Mirafiori. La dichiarazione aveva suscitato qualche perplessità  in molti ambienti. Abbiamo un capo di governo molto atipico anche per ciò che riguarda lo sviluppo economico e gli interessi del Paese che dovrebbe governare. Il suo amico Sarkozy ha investito 7 miliardi per salvaguardare la produzione di auto in Francia. La sua amica Merkel ne ha investito 3 di miliardi. L’abbronzato Obama ha esagerato: 60 sono i miliardi investiti dal governo americano per salvare l’auto Made in Usa. Il governo brasiliano, quello serbo, quello messicano hanno finanziato massicciamente la Fiat per produrre nuove auto nei loro territori. I sindacati tedeschi sono presenti nei consigli di sorveglianza delle fabbriche d’auto. I sindacati americani posseggono il 63% delle azioni Chrysler. E nel Bel Paese che succede? Il ciarliero ministro Sacconi è lieto che abbia vinto il Sì, e lì si ferma. Il governo nel suo insieme ha fatto esclusivamente da grancassa alle posizioni di Marchionne senza pretendere da questi alcun piano industriale strategico che assicuri un futuro alla presenza della Fiat in Italia. Pensare di risolvere i problemi con i SUV progettati e prodotti in Usa e assemblati a Mirafiori sembrerebbe poca cosa. Ma il governo di Berlusconi-Bossi è certo che il Marchionne sia sulla strada giusta. L’inconsistenza del governo è stata tale che ancora non è dato sapere se nei piani della Fiat ricerca, progettazione e centri direzionali rimarranno in Italia o se ai diversi siti italiani sarà  affidato esclusivamente il compito di produrre veicoli pensati e progettati in altri Paesi. Si rimane stupefatti dall’inconsistenza della classe dirigente che ha gestito tutta la vicenda Fiat. Una tragedia per migliaia di lavoratori costretti a scelte dolorose non solo perchè le loro condizioni di lavoro peggioreranno, ma perchè nessuno è stato in grado di assicurare che i sacrifici richiesti serviranno davvero a salvare il loro lavoro. L’incidenza del costo del lavoro sulla produzione è del 7%, sette per cento. Il problema è comprimere questo costo o il problema è quello di un management Fiat che non è stato in grado di realizzare auto competitive con quelle tedesche, francesi o giapponesi? Quanto ha investito in innovazione di prodotto la Fiat del geniale canadese? Paradossale è poi presentare il tutto come frutto della modernità  e etichettare chi si oppone come arcaica persona che rimane ancorata al novecento. Che l’accusa la faccia il Sultano di Arcore è scontato. Lui è uomo di mondo che la modernità  la mastica da mattina a notte inoltrata. Lascia di stucco quando lo stesso argomento proviene dagli americani del centrosinistra. Loro dovrebbero sapere i vincoli che Obama ha posto al dottor Marchionne. Eppure il PD ha rischiato nuovamente la rottura perchè Bersani, sommessamente, aveva dichiarato qualche leggera affinità  con la posizione della Camusso della CGIL. Veltroni è gli altri volevano un partito bocconi sulle posizioni di Marchionne. Il rampante Renzi dichiara che Lui sta con Marchionne senza se e senza ma. Ottimo e innovatore come suo solito. Il sindaco uscente di Torino, Chiamparino, e quello che si candida a diventarlo, Fassino, da buoni torinesi non possono dire cose diverse dalla Fiat. Ma il referendum ha dimostrato che ancora oggi la classe operaia della loro città  non ha alcuna intenzione di rinunciare a diritti e condizioni di lavoro conquistate con durissime lotte. Una rilettura della storia del movimento operaio torinese avrebbe aiutato in questa occasione i due dirigenti del PD. Al momento, non scommetterei un Euro sul voto operaio a favore del candidato sindaco Fassino. Si porranno Fassino e Chiamparino qualche domanda sul grado di conoscenza di quello che pensano i loro amministrati? Dopo che la FIOM è stata per mesi e mesi malmenata da televisioni, giornali, intellettuali, sindacalisti e governanti di ogni colore, il referendum ha detto che il 46% dei lavoratori di Mirafiori ha apprezzato la posizione della CGIL. Il Sì ha vinto grazie al voto degli impiegati: su 441 voti soltanto 20 hanno detto di No. Il diritto al voto dei camici bianchi è ovviamente inalienabile, ma un problema c’è: le auto vengono costruite principalmente grazie al lavoro operaio. Gestire una fabbrica spaccata in due non sarà  facile. Doverosa una riflessione della dirigenza aziendale e dei sindacati del Sì e del No. Si potrà  escludere dalla rappresentanza il 46% dei lavoratori come prevede l’accordo? (altro…)

Bugie

Non metteremo le mani nelle tasche degli italiani è stato lo slogan di leghisti e berluscones in ogni governo della destra. Sono passati sedici anni e gli italiani che pagano le tasse hanno visto aumentare sistematicamente la loro tassazione. Siamo tra i Paesi europei a più alto prelievo fiscale a compensare il record quasi mondiale dell’evasione contributiva. Ci viene spiegato che con un debito pubblico così elevato è impossibile una riduzione delle tasse: l’Europa non lo consentirebbe. Eccellenti economisti hanno ripetutamente dimostrato che il debito pubblico italiano è il risultato di un sistema fiscale che consente a una parte decisiva della ricchezza privata di scomparire nei meandri di condoni, controlli insufficienti, scudi fiscali di varia natura. L’Europa c’entra poco con le distorsioni volute dalle classi dirigenti italiane impegnate principalmente nella difesa del blocco sociale da cui ottengono il consenso politico. Per la prima volta nella storia repubblicana le entrate fiscali dello Stato non aumenteranno. La crisi economica incide ovviamente anche su questo aspetto della deriva del Paese. Permanendo la costante di una platea contributiva sostanzialmente ancorata al lavoro dipendente, non volendo incidere sulle grandi ricchezze private, è difficile non continuare a mettere le mani nelle tasche dei soliti noti per far quadrare i conti pubblici. Le tasse non aumenteranno continuano a dirci. Una bugia, quella del governo, che diviene beffa in questo inizio anno. Non c’è amministrazione locale che non preveda aumenti a due cifre di tariffe per la gestione dei trasporti e in genere di molti dei servizi al cittadino. Meno servizi e più costosi per gli utenti. L’alternativa sarebbe la chiusura di tali prestazioni dicono, con qualche ragione, i sindaci di destra o di centrosinistra. Dopo la cura tremontiana i trasferimenti dello Stato alla rete delle autonomie, è praticamente impossibile sostenere lo stesso livello di prestazioni di un welfare già  precario e distorto. Precario per tutte le generazioni, inesistente per i giovani di ogni parte d’Italia. I cantori del libero mercato e delle liberalizzazioni non hanno compiuto un singolo atto a contrasto delle situazioni di oligopolio presenti in molti settori dei servizi siano quelli assicurativi o quelli dell’energia. Nessuno ci chiarisce ad esempio perchè le bollette per il consumo del gas o il costo delle assicurazioni per le auto siano le più alte d’Europa. La politica continua a svolgere i suoi riti completamente slegati dalla realtà  materiale del popolo. Berlusconi, dopo l’acquisto di Cassano, continua nella sua campagna acquisti. Vuol vincere il campionato di calcio e contemporaneamente ingaggiare qualche deputato che, per senso di responsabilità , lascia l’opposizione in favore del suo efficiente governo. Che la vittoria dell’A.C. Milan faccia bene al governo e, nella certezza del Cavaliere, renda felice il Paese è opinabile. Che la conversione di qualche deputato renda il governo più stabile rientra nel mondo fantastico del Capo. Un mondo in cui i nemici rimangono i comunisti. Sempre loro. Ancor più pericolosi, dice l’Uomo di Arcore, perchè vestono addirittura come i ricchi borghesi e vanno in vacanza dove l’esclusiva sarebbe riservata alle facoltose signore di buona famiglia o alle veline accompagnate da qualche giocatore. Gli esperti dicono che se Berlusconi ricomincia con il pericolo comunista significa che le elezioni si avvicinano. Presentare Veltroni o Di Pietro come pericolosi comunisti sembrerebbe eccessivo. Di comunisti in giro ce ne sono pochi e quasi tutti non hanno alcun potere se non quello di produrre qualche eccellente analisi di questo mondo agghiacciante dopo la cura liberista degli ultimi decenni. Di questi tempi gli unici ex comunisti che mettono paura sono tutti amici, stretti amici di Berlusconi. Il Putin ad esempio non rassicura affatto per sensibilità  democratica, come si vede spesso prevale in lui la lunga esperienza nel KGB di sovietica memoria. Difficile indovinare cosa ha in mente il Cavaliere, vedremo. (altro…)

Generazioni

La mia è stata una generazione politicamente fortunata. Non solo perchè nel mondo dei nostri venti anni la caratteristica essenziale che accompagnava le aspettative del popolo era la speranza di una vita migliore, ma anche perchè  chi iniziava a militare nel sindacato o nella variegata struttura del movimento operaio, si poteva confrontare e formare politicamente, attraverso un rapporto intenso con una generazione non comune di dirigenti.
La loro singolarità  non era frutto soltanto della storia che avevano vissuto nella loro giovinezza: l’opposizione al fascismo, la Resistenza, che per molti di loro, ha rappresentato il viatico all’impegno politico,  a guida delle aspre lotte del primo dopoguerra per la realizzazione di una democrazia di massa, come occasione di formazione politica ed umana. Nonostante l’egemonia democristiana, la sinistra italiana, comunista e socialista, riuscì a costruire un movimento politico che, pur condizionato dalla guerra fredda, seppe interpretare al meglio le esigenze di un popolo travolto dalla guerra nazi-fascista.
Quello che fu chiamato il partito nuovo fu frutto dell’intelligenza di Togliatti e dei dirigenti usciti dalla clandestinità  e tornati dall’emigrazione politica. Questo gruppo dirigente, il cui prestigio era leggendario, riuscì ad aprirsi alla generazione di uomini e donne, cresciuta nella lotta di liberazione, nel conflitto elettorale per la Repubblica, che, dopo la bruciante sconfitta delle elezioni politiche del 1948, rimase in campo con enormi sacrifici personali e familiari.
Il rinnovamento del partito non fu un processo facile, lineare. Lo stalinismo era il brodo culturale di una parte rilevante del gruppo dirigente, ma anche gran parte del popolo comunista si riconosceva nel legame internazionalista inteso, di fatto, come rapporto di subalternità  all’URSS vittoriosa sul nazi-fascismo.
I vincoli formali e sostanziali, le liturgie che regolavano la vita interna del partito, rendevano il processo di rinnovamento dei gruppi dirigenti difficile e contraddittorio.
La discussione interna ai partiti del movimento operaio non fu un pranzo di gala. Rispetto alla trasformazione del partito da avanguardia della rivoluzione a partito della democrazia progressiva, lo scontro interno fu aspro, lacerante. Soltanto con l’ottavo congresso del Pci prevalsero le forze del rinnovamento e si accelerò la costruzione di un movimento politico di massa capace di radicarsi nella realtà  che voleva trasformare.
Su questi temi esiste una letteratura imponente, i vari passaggi vissuti dal partito sono stati ampiamente analizzati e descritti. Per quanto mi riguarda, tuttavia, i processi di conoscenza e di comprensione sono stati frutto non solo di letture, ma soprattutto dell’intenso rapporto che ho avuto da giovanissimo con alcuni dei protagonisti di quelle discussioni, di quei drammatici congressi di partito. Intendiamoci, vincoli e liturgie rimasero, furono una costante anche nel partito post XX congresso del PCUS.
Nell’ottobre del 1956 Raffaele Rossi, in un bilancio sul dibattito della federazione ternana dopo il Rapporto Krusciov, scrive: “No, questo modo di discutere non è una cosa positiva e io non credo che servirà  a qualcosa. La discussione nella sezione di una città  della nostra provincia aveva avuto questa caratteristica. Quando qualche giorno dopo un dirigente della federazione invitò i segretari delle sezioni di quel comune a riunirsi per discutere del XX Congresso, costoro unanimemente risposero: no, lasciateci in pace con le critiche a Stalin. Abbiamo la lotta dei mezzadri cui pensare.”. E’ un esempio di come fu difficile trasformare l’utopia del socialismo in un discorso di dolorosa verità  che consentisse di avanzare nella costruzione di un partito di massa che avesse come obbiettivo primario una repubblica democratica, come terreno più avanzato per la costruzione di una società  socialista diversa da quelle conosciute.
Insomma, una sensibilità , diciamo così, di staliniana memoria non ha mai cessato di esistere sia ai vertici sia alla base del PCI, ma la mia è stata una formazione politica che ha avuto maestri diversi.
I miei tutori erano tutti espressione di una generazione che aveva fatto i conti con le tragedie dell’URSS e del movimento internazionalista. Leader fortemente legati alla società  ed espressione di quel tessuto democratico rifiorito dopo la caduta del fascismo. Molti di loro, compreso Raffaele Rossi, abbandonarono la professione, il posto fisso, per divenire funzionari di partito stipendi, quando c’erano, che definire miseri è un complimento. Per la cronaca. Fino a tutti gli anni 80, il trattamento di un funzionario del PCI non poteva superare quello di un operaio metalmeccanico al massimo della carriera. La sobrietà  come vincolo del lavoro politico era un valore che oggi sembra smarrito.
Operaio in una grande fabbrica, con la timidezza e l’incoscienza dei miei diciotto anni, mi apprestai alla militanza politica con lo spirito dell’allievo. (altro…)

Palla al centro

Le parole sono pietre, scriveva Carlo Levi negli anni 50 a indicare il peso che una parola, una definizione ha nella vita delle persone e della società . L’Italia vive una stagione politica in cui le parole sono così evanescenti da non far comprendere un significato, una caratteristica, una qualità . Prendiamo ad esempio l’ultima promessa di Berlusconi: unirò i moderati a sostegno del governo. Bene. Ma chi sono i moderati? Considerare il PDL un partito di moderati sembrerebbe eccessivo. Se il moderatismo significa anche il rispetto di chi non la pensa come te, considerare moderato il ministro La Russa o Capezzone o Gasparri o la ministra Brambilla parrebbe troppo.

In generale non sembra che questa caratteristica sia una qualità  del PDL. Rientrano nel moderatismo le scelte, i comportamenti e gli obbiettivi dei leghisti? Sono moderate le gerarchie Vaticane? Certamente lo sono nei confronti del governo della destra. Non lo furono nei confronti del governo di centrosinistra contro il quale si batterono con determinazione nonostante che, ad iniziare da Prodi, i cattolici erano ben presenti nella compagine governativa. Gli alti prelati considerano oggi, a differenza di ieri, un valore a priori la stabilità  del governo. La questione etica è risolvibile con qualche costosa indulgenza. A Prodi nulla fu perdonato. La Treccani definisce così un uomo moderato: “Equilibrato, misurato, pacato, sobrio, tranquillo”. Tutte definizioni che come è noto si attagliano alla perfezione al capo del governo. Altro che moderati. In realtà  l’obbiettivo di Berlusconi è quello di continuare nella fruttuosa strada dell’acquisizione di singoli parlamentari. Senza conversioni le magnifiche sorti del governo Berlusconi-Calearo sono segnate: elezioni anticipate in primavera. Le parole sono pietre ma oggi sembra che non ci facciano più afferrare la realtà . Essere contro la violenza è un dovere civico e democratico. La violenza del bruciare un’auto o spaccare una vetrina o aggredire un poliziotto è cosa grave, ma questa diventa una predica sterile se la politica non fa uno sforzo per capire ciò che ha portato un giovane di diciotto anni ad un gesto violento. Quando il capo della polizia, Manganelli, denuncia la solitudine delle forze dell’ordine nell’affrontare un disagio sociale sempre più esteso, richiama la politica al suo dovere di risolvere i problemi. E la politica invece continua a galleggiare nei suoi riti sempre più lontani dalla vita del popolo. Ciò che si è visto martedì alla Camera dei Deputati rientra nel processo di degrado istituzionale iniziato con la così detta seconda repubblica. Il Parlamento ridotto ad un suk in cui i “procuratori” gioivano per gli acquisti fatti. E l’Italia della gente comune? Chi paga le tasse subisce un salasso di dimensioni epiche, solo due Paesi nordici hanno una pressione fiscale maggiore. In compenso abbiamo il record europeo per l’evasione, cresciuta nell’ultimo anno. Quel che resta dello stato sociale ricadrà  interamente sulle Regioni e sulle amministrazioni locali che, dopo i tagli di Tremonti, saranno obbligate ad aumentare tariffe o a chiudere ulteriormente i servizi ai cittadini. Berlusconi continuerà  a dire che non mette le mani sulle tasche dei cittadini. Per suo conto lo faranno i sindaci e le amministrazioni regionali. L’Italia è il Paese d’Europa con la maggior percentuale di disoccupazione giovanile. Una donna su due non lavora. E’ un dato di fatto che almeno due generazioni saranno costrette ad un lavoro precario, senza speranze di un miglioramento futuro. Sono mesi e mesi che il mondo della scuola, della ricerca protesta per una riforma universitaria apprezzata soltanto dai rettori e il governo non ha trovato il tempo e il modo di ascoltare le loro voci. Anzi ne vuole un’approvazione rapida, prima di Natale, una provocazione. Se qualcuno continuerà  a protestare, Maroni assicura una bella repressione. Si può sostenere che la vittoria di Berlusconi su Fini è utile al Paese e che finalmente il governo sarà  in grado di governare? Magari fosse così. Ciò che ci spetta è una fase in cui giornalmente ci saranno il deputato o la deputata che per senso di responsabilità  andranno in soccorso al vincitore. Una campagna acquisti permanente che dimostrerà  ancora di più la profondità  della crisi della democrazia repubblicana. E l’opposizione che sta facendo? Fini, Rutelli e Casini hanno deciso la realizzazione di un terzo polo. La cosa non è piaciuta alle suddette gerarchie vaticane, preferiscono l’appoggio al governo della destra leghista e berlusconiana. Proprio perchè è un moderato, Berlusconi con la consueta eleganza, ha coperto i tre d’insulti e sberleffi. L’incerottato Di Pietro propone a PD e a Vendola un accordo elettorale principalmente per sbarrare l’abbraccio tra i democratici e il terzo polo. Il segretario del PD Bersani ha rilasciato un’intervista con cui dichiara di preferire al nuovo ulivo l’accordo con il polo di Casini. Tutti al centro, insomma. Per ottenere il risultato, Bersani è disponibile a rinunciare al meccanismo delle primarie. Ovviamente nel PD si è aperto un aspro confronto. Normale in un partito che continua a vivere senza un gruppo dirigente riconosciuto e di continue svolte storiche. Anche chi, come il sottoscritto, non è affascinato delle primarie, deve ammettere che nella situazione data, con i partiti così mal messi, consentire agli elettori la scelta dei candidati alle prossime elezioni sarebbe cosa saggia. Gli analisti elettorali sostengono, a ragione, che il successo di Berlusconi è dipeso dal numero crescente di astensioni dell’elettorato di centro-sinistra. Nelle ultime politiche sono stati almeno due milioni e mezzo i cittadini di questo orientamento a disertare le urne. Una campagna di primarie trasparenti e regolamentate, potrebbe essere un’occasione per far sentire protagonisti delle scelte anche coloro che sono lontani dal ceto politico. Sarebbe cosa saggia, ma la saggezza in questa stagione politica non è purtroppo una merce che va molto per la maggiore.