da Francesco Mandarini | Feb 18, 2016
– Michele Prospero, 18.02.2016
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Nel clima, insolito per una democrazia, di celebrazione per i due anni trascorsi da Renzi al governo,
si distingue un intervento di Sabino Cassese (Corriere della Sera del 16 febbraio). Il giudice
costituzionale emerito ha un’ammirazione per Renzi cui attribuisce «tre colpi da maestro». Lo
chiama «il regista» e vede nella «energia del populismo» una formidabile forza con la quale ha
sinora realizzato «record» e prestazioni memorabili.
Le virtù eccelse dello statista di Rignano per Cassese poggiano su una miscela fantastica: un po’ di
Berlusconi, un po’ di Grillo e un po’ di Salvini. Un mostro? Nient’affatto. È proprio con questa
porzione magica di tutti i populismi possibili che Renzi «è riuscito a far risalire la fiducia dei cittadini
nello Stato». Sarà.
Da un giudice emerito della Consulta ci si aspetterebbe qualche attenzione a riti e forme. Ma questa
ossessione per le procedure non vale per Cassese. Il quale esalta il governo proprio perché con «una
politica di movimento» (canguri, raffiche di voti di fiducia in aule deserte) ha messo «in cantiere e
fatto approvare le riforme costituzionali, elettorale ed amministrativa».
Innamorato della «politica-movimento» Cassese non coltiva la politica-istituzione e quindi non trova
nulla da dire sulla irrituale, anche se non inedita, titolarità governativa delle riforme costituzionali.
Un solo appunto, però. Cassese dà per già approvate le riforme. E tuttavia le riforme costituzionali, a
chi viene dalla Consulta non dovrebbe sfuggire il dettaglio, necessitano di una procedura aggravata,
e ancora la camera deve provvedere alla seconda deliberazione. Va bene l’anti-formalismo della
«politica-movimento», ma le forme ancora contano.
Non nel pensiero giuridico di Cassese, a quanto sembra. Egli, per sanare l’ambigua, non illegittima,
posizione di un presidente del consiglio non parlamentare, conia la sorprendente formula della
«fiducia popolare posticipata». Essa contiene una categoria giuridica posticcia (il governo peraltro
ha bisogno di fiducia parlamentare, non di una investitura popolare) e una ingenuità politica (Renzi
non era candidato neppure alle europee che lo avrebbero legittimato ex post).
Non stupisce che un giurista sensibile alle forzature della «politica di movimento», e con un’idea
strana dell’investitura posticipata dei governi parlamentari, consideri i sindacati dei lavoratori delle
«corporazioni», e celebri Renzi perché ha messo a nudo «l’incapacità delle oligarchie sindacali di
uscire dal loro medioevo». Chi il medioevo l’ha invece abbandonato è il giudice emerito che vive già
nello splendido futuro della politica a «fiducia popolare posticipata». Dinanzi a concetti così scivolosi,
qualche dubbio circa la saldezza dello stato di diritto in Italia è inevitabile.
© 2016 IL NUOVO MANIFESTO SOCIETÀ COOP. EDITRICE
da Francesco Mandarini | Gen 27, 2016
La recita del dissenso
È sistematico: ogni volta che si approfondisce lo scontro sul governo, il conflitto nel Pd si surriscalda. Ed è altrettanto sistematico che la minoranza dem, la sedicente sinistra interna, alzi la voce e minacci sfracelli. Per poi pentirsene e allinearsi obbediente.
I fatti, innanzi tutto. La Direzione nazionale del Pd, riunitasi venerdì 22, segue l’ennesima grave decisione della minoranza interna, quella di votare compatta in senato lo scempio della Costituzione, fornendo al governo — insieme ai senatori verdiniani — un contributo indispensabile (una ventina di voti) all’approvazione della controriforma. È stato un gesto clamoroso di sostegno al governo e al suo capo, dopo una settimana nera per Renzi, in gravi difficoltà per lo scontro politico generale sui diritti delle coppie omosessuali e per il profilarsi di qualche seria sconfitta alle prossime amministrative. Non solo. La «sinistra» del Pd ha soccorso il presidente del Consiglio proprio nel momento di massima sofferenza per lo stringersi di una micidiale tenaglia: da un lato l’attacco di Juncker per le critiche italiane all’austerità europea; dall’altro lo stillicidio di indiscrezioni e il procedere della talpa giudiziaria in merito alle vicende bancario-corruttive di Arezzo, che vedono pesantemente coinvolti pezzi del cerchio magico renziano e figure di rilievo degli entourages famigliari del ministro per le riforme e dello stesso presidente del Consiglio.
Nella riunione della direzione la minoranza ha lamentato la mancanza di «agibilità politica» nel partito, ha posto la questione del doppio ruolo del segretario-premier, che lo indurrebbe a trascurare il lavoro nel partito, e ha attaccato per i voti dei verdiniani in senato, che comportano a suo giudizio un allargamento della maggioranza incompatibile con la vocazione riformista del Pd. Come se nella maggioranza non ci fosse già Alfano. Come se, considerato il merito delle «riforme» in questione, l’alleanza con Verdini non fosse più che appropriata. Quanto al merito di una controriforma che stravolge la Costituzione cambiando di fatto la forma di governo, di questo non si è parlato, non era all’ordine del giorno. Del resto Cuperlo ha rivendicato di averla votata adducendo il fine argomento che, se anche la «riforma» è pessima, «fallire in questo tentativo produrrebbe una frattura ancora più grave tra i cittadini e le istituzioni». Perfetto. Un capolavoro di logica gesuitica che permette già di intuire come la «sinistra» del Pd si muoverà in occasione del referendum confermativo, del quale pure oggi osteggia la connotazione plebiscitaria imposta da Renzi.
Con ogni evidenza, al di là di ogni sofisma, la «sinistra» dem ha un solo problema: teme di contare domani ancora meno di oggi. Ovviamente è legittimo che se ne preoccupi. Il punto è come cerca di difendere e di rafforzare le proprie posizioni.
Che cosa fa la minoranza del Pd? Ventila «spaccature» (altre inverosimili microscissioni) e avanza timidamente, fra le righe, la richiesta di un congresso anticipato, vagheggiato come la resa dei conti in cui inverare finalmente la strategia bersaniana: riprendersi il partito; quindi, da posizioni di forza, condizionare il presidente del Consiglio.
Il punto è che a rendere improbabile questo disegno è proprio la «sinistra» dem, che ogni qual volta Renzi si trova in difficoltà evita di attaccarlo e anzi corre in soccorso del governo ogni qual volta c’è bisogno dei suoi voti. Giacché è chiaro a tutti: Renzi potrebbe accettare di andare al congresso prima del 2017 solo nel caso di una crisi di governo, proprio quella crisi di cui la «sinistra» dem, naturalmente per «senso di responsabilità», non vuole nemmeno sentir parlare.
E così, da quasi due anni a questa parte, si ripete lo stesso copione. Sussurri, grida e niente di fatto. Col risultato che, intervenendo in direzione, Renzi non ha nemmeno risposto a chi lo aveva criticato per l’intesa con Verdini chiedendo a gran voce «parole chiare» sulle strategie del partito. Ridicolizzandolo.
Come commentare tutto questo? Ci sono due possibilità: o la «sinistra» del Pd non ha ancora capito Renzi e non decifra il conflitto con lui, dal quale per questo esce sistematicamente sconfitta; oppure ha capito benissimo, e tutta questa è soltanto una commedia in cui la minoranza dem recita la propria parte in modo da non creare problemi al governo (e a se stessa) e da non perdere altri pezzi e altri voti a sinistra. Quest’ultima è senz’altro l’ipotesi più probabile, e del resto in essa vi è indubbiamente una razionalità.
I Cuperlo, gli Speranza, i Bersani salvaguardano il proprio ruolo, anche se dentro una dialettica virtuale e astratta. E, con il puntuale aiuto dei media, mantengono viva una finzione che permette ancora al Pd di presentarsi al paese, nonostante ogni evidenza, come un partito «di sinistra». Ma si tratta di una razionalità ben misera, a fronte delle conseguenze che la loro azione produce.
Al riguardo non c’è da inventarsi nulla, basta stare sobriamente all’evidenza delle cose. In poco meno di due anni il governo Renzi ha dato alla luce una sequenza di «riforme» devastanti negli assetti istituzionali della Repubblica, nel mercato e nei diritti del lavoro dipendente pubblico e privato, nella struttura materiale del welfare, nella distribuzione della ricchezza nazionale. A conti fatti, la «sinistra» del Pd ha sempre sostenuto queste scelte, a tratti recalcitrante, spesso silente, sempre al dunque ossequiosa e cooperante. Mettendo in scena un conflitto interno fine a se stesso. Mostrando in definitiva di non esserci. E dando per questa via il contributo di gran lunga più cospicuo al consolidarsi della nuova specificità italiana: quella di un paese che da tempo non annovera sulla scena politica nazionale alcuna forza credibile dalla parte dei diritti sociali e del lavoro.
Burgio Il Manifesto del 24 Gennaio 2016
da Francesco Mandarini | Set 27, 2015
Cento conigli non fanno un cavallo. Chi lo ha conosciuto sa bene che, Ilvano Rasimelli, usava intercalare i suoi interventi politici con detti popolari per sottolineare come alla saggezza del popolo fosse utile riferirsi anche per giudicare se le scelte del partito fossero giuste. La popolarità di Rasimelli nasceva dal suo legame, mai interrotto, con coloro che dal lavoro traevano sostentamento e speranza. Con uguale rispetto e attenzione discuteva con il coltivatore diretto dell’Alta Valle del Tevere, con l’artigiano dei borghi di Perugia, con il piccolo o grande imprenditore o con l’intellettuale famoso. Il filo rosso nella vita di Ilvano è stato sempre l’interesse pubblico. Riteneva che amministrare la cosa pubblica significasse non la gestione dell’esistente, ma il cambiamento dello stato delle cose, riformare ciò che era vecchio e inutilmente costoso sempre tenendo presenti i vincoli di bilancio. Pensare come viene utilizzato adesso il termine riformismo vengono i brividi. Così infatti viene chiamato dagli opinion maker quel coacervo di provvedimenti di restaurazione neoliberista della stagione del renzismo e incentivata dal “monarca” oggi non ancora in pensione, il presidente emerito Napolitano. Lunga sarebbe la lista degli incarichi pubblici svolti da Rasimelli. Ciò che è certo è che in ogni lavoro è rimasto il segno innovativo di Ilvano. Si pensi alle condizioni dell’ospedale psichiatrico di Perugia. Rasimelli così lo descrive nel 1970: “Dal fondo ospedale segregazionista nasceva un urlo di rivolta contro i mali di questa società. Ritrovammo un filo rosso che univa e accumunava agli sfruttati, agli umiliati, agli oppressi di tutto il mondo i segregati dell’ospedale psichiatrico.” E’ storicamente accertato che la rivoluzione dell’antipsichiatria ha avuto nell’esperienza perugina guidata da Rasimelli uno dei momenti di maggior importanza. Rimango convinto che gli anni ’60 hanno avuto il grande significato di un’innovazione profonda nel senso comune del popolo anche grazie alla lotta contro la segregazione manicomiale. Le lotte giovanili e operaie di quegli anni sono state possibili perché la “rivolta” trovava, in parte delle istituzioni, delle risposte adeguate alla domanda di liberazione dei movimenti. Rasimelli è stato uno spirito libero. Figlio della cultura dell’illuminismo ignorava ogni forma di settarismo ma il suo essere comunista lo stimolava all’esercizio del dubbio e del gesto autonomo anche dagli organi di partito. Era un dirigente che riconosceva il primato della politica non quello del partito. Alle 7 del mattino del 21 agosto del 1968, Ilvano mi chiamò al telefono per chiedermi di andare in federazione. Alla richiesta del perché Rasimelli mi comunicò di aver inviato, come presidente della Provincia, un telegramma di protesta all’ambasciata sovietica contro l’invasione di Praga. Comitato federale convocato d’urgenza! Svanì per me il programmato viaggio a Londra. Il comitato federale si svolse con una grande tensione. I filosovietici (inutile fare nomi) tentarono un processo contro il trasgressore dei vincoli del centralismo democratico. Dalla loro avevano il comunicato non esattamente coraggioso della direzione del partito che pur dissociandosi dall’invasione non faceva passi in avanti nel giudizio sul socialismo reale dell’Urss. Gran parte dei dirigenti del Pci umbro erano figli delle scelte fatte dall’VIII congresso che aveva approvato la linea della via italiana al socialismo e segnato la sconfitta dei “fedeli” al leninismo nell’interpretazione di Mosca. La componente più giovane del comitato federale sostenne la legittimità del telegramma di protesta e anche ciò fu determinante: Ilvano non fu in alcun modo “punito”. Il percorso politico di Rasimelli è sempre intrecciato con la sua passione professionale e da questa ha tratto arricchimento nelle sue scelte politiche. Iscritto al partito in clandestinità, partigiano nella formazione “Francesco Innamorati” fu arrestato dall’OVRA nella primavera del ’43 durante il primo anno di università. Liberato, parte con l’Esercito di Liberazione con il Gruppo di Combattimento Cremona partecipando alle battaglie nel nord d’Italia. Tornato a Perugia diviene segretario del movimento giovanile comunista e direttore del giornale “La nostra lotta”. Un rivoluzionario di professione! Più volte mi ha raccontato che deve la sua laurea in ingegneria ad Armando Fedeli. Fedeli era una leggenda per i democratici perugini. Più volte condannato dai tribunali fascisti, in esilio a Mosca, in Francia e poi organizzatore delle brigate internazionali nella guerra di Spagna, divenne senatore di diritto nel 1948 e più volte rieletto al parlamento. Nel 1949 Fedeli chiamò in federazione Ilvano per comunicazioni urgenti. Sei un bravo dirigente politico gli disse, apprezziamo il tuo lavoro ma il movimento operaio ha bisogno anche di intellettuali. Ti devi laureare. Ilvano andò all’università di Pisa e nel 1952 si laureò con una tesi sul bacino imbrifero del Lago Trasimeno. La professione di ingegnere è stata svolta avendo come obbiettivo la modernizzazione e dell’Umbria. Quando nel 1969 fondò la RPA assieme a diversi professionisti organizzò quello che chiamava una intelligenza collettiva al servizio dell’innovazione nella progettazione urbanistica e ambientale. Intellettuali di grande rilevanza nazionale e internazionale furono protagonisti nella cultura e nelle scelte progettuali sia che si trattasse di piani regolatori dei comuni o di scelte di utilizzo delle risorse naturali dell’Umbria. Una struttura, la RPA, dove la politica si trasformava in concreti progetti che garantivano alle istituzioni pubbliche qualità e trasparenza. Rasimelli era uomo del fare e la politica non sempre riusciva a realizzare ciò che era giusto fare. Lontano da ogni formalismo quando divenne senatore della Repubblica visse con disagio quell’esperienza. Il lavoro parlamentare non gli consentiva di incidere nella realtà. Amava operare concretamente e non fregiarsi di titoli prestigiosi. Quando Firenze fu sommersa dalla piena dell’Arno, Rasimelli come presidente della provincia organizzò in una notte un convoglio di mezzi attrezzati di ruspe e di quanto si riteneva necessario per intervenire . Alla guida della sua Citroen si mise alla testa del convoglio arrivando al quartiere Santa Croce di Firenze organizzando le forze per il risanamento di quella parte della città martoriata. Con Ilvano Rasimelli è scomparso un comunista appartenente, come il nostro Maurizio Mori, a una generazione che ha vissuto la politica come la forma più liberatoria per l’umanità e l’esercitava a partire dal proprio impegno professionale. Un comunista deve essere apprezzato a partire dal suo lavoro mi dicevano quando ero un giovane militante. Quella generazione lo ha fatto con competenza, creatività e rigore. Dicono che la nostalgia non è una categoria della politica e forse è vero. Mi sia consentito esprimere però una profonda umana nostalgia e dolore per la scomparsa di uno dei miei maestri di vita e di politica.
Francesco Mandarini
da Francesco Mandarini | Set 24, 2015
Alla fine, con gli emendamenti Finocchiaro alla riforma costituzionale, scoppiò la pace, accompagnata da vistose manifestazioni di giubilo. A dire il vero, non si capisce di cosa gioisca la fu minoranza Pd. Per la elezione popolare diretta dei senatori, che aveva assunto come bandiera, ha perso su tutta la linea.
Il testo conclusivamente concordato conferma anzitutto che i senatori sono eletti dagli «organi delle istituzioni territoriali». Quindi non dai cittadini. Si rincara poi la dose aggiungendo «in conformità delle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi …». E qui l’ambiguità raggiunge vertici ineguagliati.
Si consideri il concetto di conformità. Qualunque sia il significato che si vuole riconoscere alla parola, di sicuro non può intendersi come «esattamente coincidente con». Se così fosse, infatti, il potere di eleggere i senatori che la norma attribuisce alla assemblea territoriale sarebbe una scatola vuota, una inutile superfetazione. L’unica lettura possibile è che l’assemblea territoriale possa allontanarsi, in più o meno larga misura, dalla volontà degli elettori.
In ogni caso, quali sono le scelte degli elettori rispetto alle quali bisogna osservare la conformità? Dice la norma: quelle espresse per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo degli organi di cui fanno parte. Quindi, l’elettore non vota Tizio, Caio o Sempronio per il senato, decidendo l’esito. Vota per il consigliere. Chi poi acceda al seggio senatoriale dipenderà dalla lettura data alla «conformità». Inoltre, come ho già scritto su queste pagine, basterà una rosa più ampia del numero di senatori da eleggere per azzerare ogni necessaria corrispondenza tra la volontà popolare e i senatori conclusivamente eletti.
Cosa ha a che fare tutto questo con l’elezione popolare diretta dei senatori? Ovviamente, nulla. L’emendamento concordato se ne allontana persino di più di soluzioni via via ipotizzate, come le indicazioni o designazioni da parte degli elettori.
Infine, tutto viene affidato a una successiva legge. Qui c’è l’unico effettivo miglioramento, perché non si tratta più di legge regionale, ma di legge statale. Diversamente, ogni regione avrebbe fatto i senatori a propria immagine e somiglianza, magari dando un’aggiustatina alle regole in prossimità del turno elettorale, per garantire il seggio a un amico o sodale.
E se comunque alla fine, nonostante le maglie così larghe, l’assemblea territoriale non si attenesse alla «conformità», magari per motivi futili o abietti, familistici o di clan? Quali rimedi? Un mondo nuovo di interessanti possibilità si apre per politici affamati di clientele e avvocati.
L’emendamento Pd non può in alcun modo essere gabellato come ripristino dell’elettività dei senatori. Gli altri emendamenti concordati sono poca cosa, e avremo modo di occuparcene. La riforma era pessima, e tale rimane. Interessa ora vedere se Grasso sarà indotto a una apertura anche su altri emendamenti. Ma intento una domanda rimane: perché la minoranza Pd ha dato disco verde? Forse per l’originalità della soluzione, visto che non ci risultano altre esperienze in cui si trovi una sovranità a mezzadria tra il popolo e un’assemblea elettiva territoriale? Possibile che credano davvero di avere difeso con efficacia i fondamenti della democrazia?
Per una lettura diffusa gli ex dissidenti hanno barattato la Costituzione con qualche mese di poltrona senatoriale. Letture più sofisticate parlano di partite giocate nel Pd emiliano. Probabilmente c’è del vero in entrambe. Ma intanto è certo che Renzi ha saputo giungere allo sterminio politico della minoranza, di cui ha dimostrato l’irrilevanza. Forse, l’irrigidimento apparentemente irragionevole e incomprensibile su riforme palesemente sbagliate è stato strumentale anche a questo obiettivo.
Della minoranza Pd avremmo voluto condividere obiettivi e ambasce. Potevano nascerne esperienze politiche significative. Per come si arriva al traguardo, non è così. Anzi, troviamo si adatti bene agli ex dissidenti una storica battuta cara a molti di noi: andate senza meta, ma da un’altra parte.
Villone Il Manifesto del 24 Settembre 2015
da Francesco Mandarini | Lug 28, 2015
Maurizio Mori apparteneva alla generazione che dopo la disfatta del nazi-fascismo ha costruito la democrazia repubblicana dell’Italia. E’ stato un privilegio e un vantaggio straordinario essere stato formato alla vita e alla politica da personalità come quella di Maurizio. Le caratteristiche essenziali della generazione che aveva iniziato a battersi per la democrazia sotto il fascismo morente erano principalmente frutto di una profonda cultura politica rigorosa e spinta da una curiosità vivacissima per tutto ciò che l’umanità aveva prodotto nei secoli. Maurizio aveva molte passioni come la medicina e la politica. La principale, oltre al viaggiare, credo, fosse il cinema. Ci incontravamo spesso in un cinema e bastava uno sguardo per capire il suo giudizio su ciò che avevamo appena visto. Figlio della “chiesa-comunità” del Pci umbro, per una fase avevo avuto perplessità per il membro della Quarta Internazionale, affermato organizzatore della salute in fabbrica. Le scorie dello stalinismo, pur marginali nei gruppi dirigenti, perduravano nel PCI e Trotskij non era nel nostro pantheon purtroppo. Come militante, educato da Ilvano Rasimelli e da Gino Galli, compresi da subito il disastro prodotto dallo stalinismo. Con Forini e Mantovani scherzavamo sul fatto che il nostro destino in URSS sarebbe stato una “vacanza” in Siberia. Bastarono pochi incontri anche casuali per apprezzare le capacità umane e politiche di Maurizio. Come amministratore ho poi potuto valutare con orgoglio come la “squadra” di medicina che realizzava progetti per la salubrità degli ambienti di lavoro era riconosciuta tra le più efficaci a livello nazionale. Esemplare tutta l’esperienza del ternano. Mori fu tra i protagonisti di questo lavoro. Nella crisi esplosa con la liquidazione del Pci scegliemmo, Maurizio ed io, strade diverse ma continuò la nostra amicizia politica. Si era rafforzata negli anni anche in ragione della crisi della stagione del nuovismo d’accatto. Come comunisti incorreggibili, assieme ad altri compagni di Segno Critico, prendemmo la decisione di “inventare” ,come inserto del Manifesto, Micropolis. A conferma della volontà condivisa di tentare ogni strada per mettere insieme idee e proposte per una sinistra umbra rinnovata. Sappiamo che il tentativo è fallito nonostante la nostra passione politica che ha consentito l’uscita di Micropolis per venti anni. La sinistra umbra come quella italiana è ridotta all’insignificanza. L’ annientamento di tutte le sigle della sinistra-sinistra, il fallimento del progetto dell’Altra Europa, lasciano in campo macerie che è difficile ricomporre. L’illusione che, nonostante tutto, il PD poteva costituire un’ipotesi in cui la sinistra aveva un senso si è sfarinato come un pupazzo di neve. Che fare? Intanto un discorso di verità è obbligatorio. Il Pd di Renzi è un agglomerato politico che interpreta passivamente la volontà reazionaria del capitale finanziario. Non una nuova democrazia cristiana ma una nuova destra magari non cialtronesca come la Lega, ma una destra politica che sta annichilendo la democrazia italiana. Di questo dobbiamo parlare con lo zoccolo duro ex PCI che si è illusa rispetto al progetto del “rottamatore”. La vera rottamazione di Renzi è stata quella dei diritti dei lavoratori e quella della spirito e delle norme costituzionali. Il PD è nella stessa situazione della socialdemocrazia europea. Sia in Francia che in tutte le formazioni socialdemocratiche del nord europeo ha vinto alla grande l’ideologia neoliberista. Esemplare ciò che sono riusciti a decidere per la crisi greca. Da vergognarsi tutti. In un editoriale Renato Covino ha sollecitato i compagni a prendere coscienza che ricostruire la sinistra avrà tempi lunghi. Non esistono scorciatoie. Renato ha ragione. E’ vero anche che a volte la storia può avere delle accelerazioni inaspettate che in ogni caso richiedono di avere idee da mettere in campo. Il giorno prima della morte, con Mantovani e Covino, ci trovammo davanti a Maurizio, sofferente ma cosciente di dover rincuorarci. Lo fece a suo modo dicendoci con voce serena: ben scavato vecchia talpa. Speriamo Maurizio di fare bene anche per onorare l’affetto e la stima che ci hai trasmesso in tanti anni di impegno comune.
Francesco Mandarini
Micropolis 27 Luglio 2015
da Francesco Mandarini | Lug 4, 2015
Il crescendo di battibecchi e astio in Europa può sembrare a un osservatore esterno l’inevitabile risultato dell’accanito finale di partita giocato tra la Grecia e i suoi creditori. Infatti, i leader europei stanno finalmente cominciando a rivelare la vera natura dell’attuale disputa sul debito, e la risposta non è piacevole: riguarda potere e democrazia molto più che denaro ed economia.
Ovviamente, le teorie economiche dietro al programma che la “troika” (la Commissione Europea, la Banca Centrale Europea e il Fondo Monetario Internazionale) impose alla Grecia cinque anni fa sono state spaventose, risultando in un declino del 25% del PIL del Paese. Non riesco a pensare a nessun’altra depressione economica, mai nella storia, che sia stata così deliberata e abbia avuto conseguenze tanto catastrofiche: il tasso di disoccupazione giovanile della Grecia, ad esempio, supera oggi il 60%.
E’ stupefacente il fatto che la troika abbia rifiutato di accettare la responsabilità di tutto ciò, o di ammettere quanto pessime siano state le previsioni e i modelli economici. Ma è ancora più sorprendente il fatto che i leader dell’Europa non abbiano neppure imparato. La troika sta ancora chiedendo che la Grecia raggiunga un’eccedenza primaria (ad esclusione del pagamento degli interessi) del 3.5% del PIL entro il 2018.
Gli economisti di tutto il mondo hanno condannato quell’obiettivo come punitivo, perché perseguirlo risulterà inevitabilmente in un declino ancora più profondo. Infatti, anche se il debito della Grecia fosse ristrutturato al di là di ogni immaginazione, il Paese rimarrebbe in depressione se gli elettori scegliessero di perseguire gli obiettivi della troika nell’inaspettato referendum che si terrà questo fine settimana.
In termini di trasformazione di un grande deficit primario in un surplus, pochi paesi hanno compiuto qualcosa di simile a ciò che i greci hanno realizzato negli ultimi cinque anni. E, anche se i costi in termini di sofferenze umane sono stati estremamente alti, le recenti proposte del governo greco erano andate molto incontro alle richieste dei suoi creditori.
Dovremmo essere chiari: quasi nulla dell’enorme quantità di denaro prestato alla Grecia è effettivamente arrivato in Grecia. È servito per pagare i creditori del settore privato – incluse le banche tedesche e francesi. La Grecia non ha ottenuto che un’inezia, ma ha pagato un alto prezzo per preservare il sistema bancario di quei paesi. Il Fondo Monetario Internazionale e gli altri creditori “ufficiali” non hanno bisogno dei soldi che sono stati chiesti. Se tutto continuasse ad andare come al solito, i soldi ricevuti verrebbero con molta probabilità solamente prestati di nuovo alla Grecia.
Ma, di nuovo, non si tratta di denaro. Si tratta di usare le “scadenze” per forzare la Grecia a inginocchiarsi, e ad accettare l’inaccettabile – non solo misure di austerità, ma altre politiche regressive e punitive. Ma perché l’Europa farebbe questo? Perché i leader dell’Unione Europea sono contrari al referendum e si rifiutano perfino di estendere di pochi giorni la scadenza del pagamento greco della prossima rata al FMI del 30 Giugno? Il punto dell’Europa non è la democrazia?
A Gennaio, i cittadini della Grecia hanno votato per un governo impegnato a terminare l’austerity. Se il governo avesse semplicemente portato a termine le sue promesse elettorali, avrebbe già rigettato la proposta. Ma ha voluto dare ai greci la possibilità di avere peso in questa faccenda, così critica per il benessere futuro del loro paese.
La preoccupazione per la legittimazione popolare è incompatibile con le politiche dell’eurozona, che non è mai stata un progetto molto democratico. I governi della maggior parte dei suoi membri non hanno mai cercato l’approvazione dei loro cittadini nel consegnare la loro sovranità monetaria alla Banca Centrale Europea. Quando il governo svedese lo fece, gli svedesi dissero no. Capirono che la disoccupazione sarebbe aumentata se le politiche monetarie del paese fossero state decise da una banca centrale concentrata unicamente sull’inflazione (e anche che ci sarebbe stata attenzione insufficiente alla stabilità finanziaria). L’economia ne avrebbe sofferto, perché il modello economico alla base dell’eurozona era basato su relazioni di potere che danneggiavano i lavoratori.
È ormai abbastanza certo che ciò a cui stiamo assistendo ora, 16 anni dopo che l’eurozona ha istituzionalizzato quelle relazioni, è l’antitesi della democrazia: molti leader europei vogliono vedere la fine del governo di sinistra del primo ministro Alexis Tsipras. Dopo tutto, è estremamente sconveniente avere in Grecia un governo che è così contrario a quelle politiche che hanno fatto tanto per aumentare la diseguaglianza in così tanti paesi avanzati, e che è così impegnato nel mettere un freno al potere sfrenato della ricchezza. Sembrano credere che alla fine riusciranno ad abbattere il governo greco costringendolo con la forza ad accettare un accordo che contravviene il suo mandato.
È difficile dare consigli ai greci su come votare il 5 Luglio. Nessuna delle alternative – l’approvazione o il rifiuto dei termini della troika – sarà facile, e entrambe portano enormi rischi. La vittoria del sì significherebbe depressione quasi senza fine. Forse un paese esaurito – che ha venduto tutti i suoi beni, e la cui gioventù brillante è emigrata – potrebbe finalmente ottenere una cancellazione del debito; forse, dopo essere avvizzita fino a diventare un’economia di reddito medio, la Grecia potrebbe finalmente ottenere assistenza dalla Banca Mondiale. Tutto ciò potrebbe accadere nella prossima decade, o forse in quella successiva.
Al contrario, una vittoria del no almeno aprirebbe la possibilità che la Grecia, con la sua forte tradizione democratica, possa prendere il proprio destino nelle sue mani. I greci potrebbero ottenere l’opportunità di plasmare un futuro che, anche se forse non così prospero come nel passato, porti più speranze dell’irragionevole tortura del presente.
Io so come voterei.”
Joseph STIGLIZ premio Nobel