da Francesco Mandarini | Set 10, 2006
L’incidenza della spesa pubblica sul prodotto interno lordo
italiano è inferiore a quella di Francia, Germania, di tutti i
Paesi Scandinavi e del nord dell’Europa. Questo sostanzialmente
significa che si può avere un intervento pubblico significativo e
nel contempo avere delle buone performance economiche. Il problema
italiano non è tanto di quantità ma di qualità della spesa.
Nonostante tutta la chiacchiera di questi anni sull’innovazione,
ancora oggi gran parte delle amministrazioni pubbliche sono
inefficienti e bloccate da corporativismi che il ceto politico non
sembra in grado o non voglia combattere. Una politica di rigore
non obbligatoriamente deve essere rivolta a ridurre la spesa
sociale, ma potrebbe incidere sul mal funzionamento anche
semplicemente abolendo tutto ciò che impedisce un miglioramento
del rapporto tra cittadino e Stato. A costo zero.
Stupisce che Fassino, capitano di lungo corso, non comprenda che
tagliare pensioni, sanità e spesa pubblica locale non solo è
moralmente discutibile visto lo stato dei nostri pensionati, ma
non risolve i problemi dello sviluppo del Paese. Il rigore
bisognerebbe riservarlo ad altri settori della società italiana
all’interno di un programma riformatore che incida sulle cause
strutturali della “cattiva” spesa pubblica.
La presidente Lorenzetti, nel presentare i progetti di riforma
endoregionale, ha dichiarato: “L’obbiettivo è quello di snellire,
ridurre, semplificare”.
Scelta saggia che richiederà grande determinazione. I problemi da
affrontare sono molti e prima di tutto c’è il problema di coloro
che dovrebbero acconsentire a snellire, ridurre, semplificare. La
presidente conosce bene lo stato delle cose esistente anche in
Umbria e certo è consapevole delle resistenze che incontrerà la
riforma. Alcuni esempi.
E’ stato ripetutamente scritto come la personalizzazione della
politica abbia portato alla formazione di un ceto politicoamministrativo
molto particolare a tutti i livelli.
E’ dato per scontato che, finita la mediazione dei partiti
rispetto alle carriere personali, ognuno che vuol partecipare
alle scelte politiche si sente impegnato ad ottenere un incarico
pubblico che in genere è adeguatamente retribuito. Ridurre non può
che significare accorpare enti e strutture e ciò non può che
incidere sulla carriera di questo o di quello. La politica oggi è
costruita attraverso legami personali ritenuti indispensabili per
procedere negli “avanzamenti” di carriera. Complesso sarà
penalizzare, chiudendo una struttura pubblica, un amico di
cordata. E sì, magari per gli scopi più nobili ognuno la sua
piccola o grande cordata in questi anni ha dovuto costruirla.
Questo è un problema non di poco conto.
Anche il rapporto con i territori non è cosa da poco. L’enfasi
posta sulla rappresentanza territoriale ha costruito un potere di
veto di tipo “signoria” del 16° secolo.
Ridimensionare le comunità montane o rivedere la struttura
sanitaria entra in conflitto con ciò che ormai è considerato un
diritto acquisito da questo o quel comune.
Se si analizzano con puntualità gli enti di emanazione regionale
si può tranquillamente affermare che uno dei criteri che ha
prevalso è stato quello della ripartizione partitica, ma anche
quello della distribuzione territoriale degli incarichi. I
perugini sembrano indifferenti ai problemi di potere.
Suddivisione questa assolutamente squilibrata a vantaggio di
alcune zone, ma questo è un altro problema.
Al riguardo le ultime notizie dal “palazzo” riferiscono di uno
studio interno all’assessorato alla sanità . L’esperto ha
analizzato scientificamente il lavoro dei direttori generali
uscenti e incredibilmente l’unico manager che ha ottemperato
pienamente al piano sanitario regionale non è stato confermato
nell’incarico. Evidentemente l’interessato non apparteneva ad
alcuna squadra ne rappresentava alcun territorio.
Riformare e innovare è sempre stata cosa difficile in Italia ed
anche in Umbria. Nelle prime legislature la regione tentò le
strade più diverse per darsi una struttura amministrativa moderna
ed efficiente. Molti e a volte clamorosi gli errori commessi in
quegli anni lontani. L’unica cosa che aiutava gli amministratori
di allora era la rete di protezione dei partiti. Una rete che
impediva che l’interesse del singolo o di un territorio prevalesse
su quello generale e, quindi, si procedeva con grande sobrietà
nell’assegnare incarichi e prebende. Molti degli compiti venivano
svolti gratuitamente. Erano altre stagioni.
Non esistevano uffici di gabinetto e solitamente l’amministratore
aveva rapporti diretti con gli amministrati. La politica aveva un
costo decisamente minore di oggi e in genere vi erano gruppi
dirigenti regionali che cercavano di evitare di essere
rappresentanti “territoriali”.
Adesso è tutto più difficile. Dare consigli sarebbe inutile. La
capacità di ascolto non è una dote diffusa e poi bisogna avere
fiducia. Al di là della volontà dei singoli i problemi di bilancio
obbligheranno a cambiare una macchina pubblica che non può che
essere trasformata. L’Umbria ha leader che possono essere adeguati
alla bisogna? La speranza è noto che è l’ultima a morire.
Corriere dell’Umbria 10 settembre 2006
da Francesco Mandarini | Set 10, 2006
L’incidenza della spesa pubblica sul prodotto interno lordo
italiano è inferiore a quella di Francia, Germania, di tutti i
Paesi Scandinavi e del nord dell’Europa. Questo sostanzialmente
significa che si può avere un intervento pubblico significativo e
nel contempo avere delle buone performance economiche. Il problema
italiano non è tanto di quantità ma di qualità della spesa.
Nonostante tutta la chiacchiera di questi anni sull’innovazione,
ancora oggi gran parte delle amministrazioni pubbliche sono
inefficienti e bloccate da corporativismi che il ceto politico non
sembra in grado o non voglia combattere. Una politica di rigore
non obbligatoriamente deve essere rivolta a ridurre la spesa
sociale, ma potrebbe incidere sul mal funzionamento anche
semplicemente abolendo tutto ciò che impedisce un miglioramento
del rapporto tra cittadino e Stato. A costo zero.
Stupisce che Fassino, capitano di lungo corso, non comprenda che
tagliare pensioni, sanità e spesa pubblica locale non solo è
moralmente discutibile visto lo stato dei nostri pensionati, ma
non risolve i problemi dello sviluppo del Paese. Il rigore
bisognerebbe riservarlo ad altri settori della società italiana
all’interno di un programma riformatore che incida sulle cause
strutturali della “cattiva†spesa pubblica.
La presidente Lorenzetti, nel presentare i progetti di riforma
endoregionale, ha dichiarato: “L’obbiettivo è quello di snellire,
ridurre, semplificareâ€.
Scelta saggia che richiederà grande determinazione. I problemi da
affrontare sono molti e prima di tutto c’è il problema di coloro
che dovrebbero acconsentire a snellire, ridurre, semplificare. La
presidente conosce bene lo stato delle cose esistente anche in
Umbria e certo è consapevole delle resistenze che incontrerà la
riforma. Alcuni esempi.
E’ stato ripetutamente scritto come la personalizzazione della
politica abbia portato alla formazione di un ceto politicoamministrativo
molto particolare a tutti i livelli.
E’ dato per scontato che, finita la mediazione dei partiti
rispetto alle carriere personali, ognuno che vuol partecipare
alle scelte politiche si sente impegnato ad ottenere un incarico
pubblico che in genere è adeguatamente retribuito. Ridurre non può
che significare accorpare enti e strutture e ciò non può che
incidere sulla carriera di questo o di quello. La politica oggi è
costruita attraverso legami personali ritenuti indispensabili per
procedere negli “avanzamenti†di carriera. Complesso sarÃ
penalizzare, chiudendo una struttura pubblica, un amico di
cordata. E sì, magari per gli scopi più nobili ognuno la sua
piccola o grande cordata in questi anni ha dovuto costruirla.
Questo è un problema non di poco conto.
Anche il rapporto con i territori non è cosa da poco. L’enfasi
posta sulla rappresentanza territoriale ha costruito un potere di
veto di tipo “signoria†del 16° secolo.
Ridimensionare le comunità montane o rivedere la struttura
sanitaria entra in conflitto con ciò che ormai è considerato un
diritto acquisito da questo o quel comune.
Se si analizzano con puntualità gli enti di emanazione regionale
si può tranquillamente affermare che uno dei criteri che ha
prevalso è stato quello della ripartizione partitica, ma anche
quello della distribuzione territoriale degli incarichi. I
perugini sembrano indifferenti ai problemi di potere.
Suddivisione questa assolutamente squilibrata a vantaggio di
alcune zone, ma questo è un altro problema.
Al riguardo le ultime notizie dal “palazzo†riferiscono di uno
studio interno all’assessorato alla sanità . L’esperto ha
analizzato scientificamente il lavoro dei direttori generali
uscenti e incredibilmente l’unico manager che ha ottemperato
pienamente al piano sanitario regionale non è stato confermato
nell’incarico. Evidentemente l’interessato non apparteneva ad
alcuna squadra ne rappresentava alcun territorio.
Riformare e innovare è sempre stata cosa difficile in Italia ed
anche in Umbria. Nelle prime legislature la regione tentò le
strade più diverse per darsi una struttura amministrativa moderna
ed efficiente. Molti e a volte clamorosi gli errori commessi in
quegli anni lontani. L’unica cosa che aiutava gli amministratori
di allora era la rete di protezione dei partiti. Una rete che
impediva che l’interesse del singolo o di un territorio prevalesse
su quello generale e, quindi, si procedeva con grande sobrietÃ
nell’assegnare incarichi e prebende. Molti degli compiti venivano
svolti gratuitamente. Erano altre stagioni.
Non esistevano uffici di gabinetto e solitamente l’amministratore
aveva rapporti diretti con gli amministrati. La politica aveva un
costo decisamente minore di oggi e in genere vi erano gruppi
dirigenti regionali che cercavano di evitare di essere
rappresentanti “territorialiâ€.
Adesso è tutto più difficile. Dare consigli sarebbe inutile. La
capacità di ascolto non è una dote diffusa e poi bisogna avere
fiducia. Al di là della volontà dei singoli i problemi di bilancio
obbligheranno a cambiare una macchina pubblica che non può che
essere trasformata. L’Umbria ha leader che possono essere adeguati
alla bisogna? La speranza è noto che è l’ultima a morire.
Corriere dell’Umbria 10 settembre 2006
da Francesco Mandarini | Lug 9, 2006
Il decreto su alcune liberalizzazioni ha suscitato un’ondata di scioperi già effettuati, quello dei tassisti, e annunciati, quello degli avvocati. Si aspettano le reazioni di farmacisti, banche e assicurazioni. Provate a spiegare, ad un amico straniero, perchè il ministro Bersani è diventato famoso con l’atto deliberato dal consiglio dei ministri della settimana scorsa. Per farvi capire dovrete spiegare perchè è rivoluzionario che un cittadino possa comperare aspirine ad un super mercato o che non bisognerà più andare dal notaio per certificare la vendita di un’auto. Che un correntista bancario possa accettare o no modifiche contrattuali sembra un’ovvietà in tutto il mondo. In Italia, fino al decreto Bersani non lo era, e chiudere un conto in banca era un’impresa lunga e costosa. L’amico americano o inglese vi guarderà allibito e voi per farvi capire dovrete fare una lezione di storia che ripercorrerà la corporativizzazione della società italiana dal medio evo ad oggi. Il professor Segatori ha tratteggiato il percorso storico proprio su questo giornale giovedì scorso e c’è poco d’altro da aggiungere. Se non una preoccupazione: le lobbies sono molto forti in Parlamento, mentre i cittadini-consumatori non hanno gran peso se non nei periodi elettorali e le elezioni sono lontane. Speriamo che almeno in questa circostanza i bravi riformisti nostrani facciano il loro mestiere.
Luglio è il mese del Documento di programmazione economica finanziaria. Il DPEF elenca le grandezze macroeconomiche che il governo intende realizzare nel triennio successivo attraverso le finanziarie annuali. Non ci sono provvedimenti, ma l’individuazione delle aree di intervento. Allarma sindacati e non solo, che il governo Prodi intende agire essenzialmente per tagliare sanità , previdenza, e sui trasferimenti alle regioni e enti locali. Che la situazione dei conti pubblici trovata da Padoa Schioppa sia ancor peggiore di quella valutata prima delle elezioni è cosa vera. E’ anche vero però che il programma elettorale dell’Ulivo aveva come cardine la salvaguardia del sistema di welfare. La spesa sanitaria italiana è ancora al di sotto di quella della Germania, Francia, ed è nella media europea. Le tariffe per i servizi pubblici locali tendono da anni a salire e il sistema pensionistico ha subito ridimensionamenti da almeno dieci anni. Che si vuol fare? Debbono essere ancora i ceti più deboli a pagare per il risanamento del Paese? Prodi non aveva escluso “il lacrime e sangue”?
Non si capisce perchè non si è trattato con Bruxelles sui tempi del rientro nei parametri europei. Lo sfondamento del 3% è opera dal governo Berlusconi. Almunia, presidente della commissione europea, ha consentito per anni la finanza creativa di Tremonti e forse era possibile per Prodi trattare con l’Europa un anno in più per il rientro nei parametri stessi.
Il fine giugno e l’inizio luglio è il periodo dei “direttori generali” della sanità . Non siamo ancora alla decisione formale, ma in dirittura d’arrivo certamente. Le polemiche sono naturalmente tutte interne alla maggioranza. Non si tratta di sapere quanti ai diesse, alla Margherita o a Rifondazione. La prassi è consolidata: tre, due, uno. Le beghe nascono attorno a dove e chi. Ci assicurano che il criterio della scelta sarà quello della massima professionalità nell’interesse della collettività . Sia consentito qualche dubbio. Non si conoscono le valutazioni sul lavoro svolto dai direttori uscenti. Come trasparenza non è male. Eppure non sarebbe complicato verificare la qualità dei servizi delle varie strutture sanitarie. Non è complicato guardare le innovazioni prodotte o il grado di soddisfazione degli utenti della sanità o l’impegno del personale dell’area. Se si fosse proceduto così si sarebbe superata l’impressione che tutto sia deciso, non dai partiti che già apparirebbe chiaro, ma dalle diverse strutture lobbistiche che operano anche nella nostra comunità .
Si mormora che pinco pallino è appoggiato dal sindaco o che tizio è un uomo del parlamentare, del presidente o dell’assessore. Sono sussurri, chiacchiericcio che poco ha a che fare con l’interesse della comunità o con l’esigenza di costruire una classe dirigente più adeguata a quella che conosciamo.
A proposito di classe dirigente. Continua l’ormai lungo ridimensionamento nella gestione della cosa pubblica dei dirigenti perugini del partito di Fassino. Anche ad una sommaria analisi dei punti di comando dell’apparato pubblico, risulta evidente una contrazione della presenza di “perugini”. L’ultimo episodio è stato il rinnovo della giunta della Provincia di Perugia. Non un singolo assessore della città del grifo e del leone.
Se si osservano enti strumentali o elettivi ci si accorge che Perugia è sì la capitale dell’Umbria, ma quanto a leader ne sa esprimere pochissimi. La cosa qualche riflessione dovrebbe produrla. In una politica che, grazie ai sistemi elettorali si è feudalizzata, rimane difficile operare bene, quando i territori sono rappresentati in modo squilibrato. Rivendicare astrattamente una maggior presenza sarebbe una fesseria. Concretamente c’è invece da analizzare perchè una comunità , quella perugina, non riesce più a produrre una classe dirigente di valenza regionale. E ciò non riguarda soltanto il mondo della politica. Anche nel mondo della produzione la frantumazione localistica ha penalizzato alcuni territori e privilegiato altri al di là dei meriti o demeriti propri. Perugia ha la sua forza proprio nella capacità di attrarre intelligenze e risorse. Bisognerebbe metterle a frutto senza chiusure localistiche, ma rivendicando equilibrio nella distribuzione del potere pubblico.
L’egemonia non si ottiene per decreto e in una società “feudale” quando manca il Principe dominano i feudatari e a volte i vassalli.
Corriere dell’Umbria 9 luglio 2006
da Francesco Mandarini | Lug 9, 2006
Il decreto su alcune liberalizzazioni ha suscitato un’ondata di scioperi già effettuati, quello dei tassisti, e annunciati, quello degli avvocati. Si aspettano le reazioni di farmacisti, banche e assicurazioni. Provate a spiegare, ad un amico straniero, perché il ministro Bersani è diventato famoso con l’atto deliberato dal consiglio dei ministri della settimana scorsa. Per farvi capire dovrete spiegare perché è rivoluzionario che un cittadino possa comperare aspirine ad un super mercato o che non bisognerà più andare dal notaio per certificare la vendita di un’auto. Che un correntista bancario possa accettare o no modifiche contrattuali sembra un’ovvietà in tutto il mondo. In Italia, fino al decreto Bersani non lo era, e chiudere un conto in banca era un’impresa lunga e costosa. L’amico americano o inglese vi guarderà allibito e voi per farvi capire dovrete fare una lezione di storia che ripercorrerà la corporativizzazione della società italiana dal medio evo ad oggi. Il professor Segatori ha tratteggiato il percorso storico proprio su questo giornale giovedì scorso e c’è poco d’altro da aggiungere. Se non una preoccupazione: le lobbies sono molto forti in Parlamento, mentre i cittadini-consumatori non hanno gran peso se non nei periodi elettorali e le elezioni sono lontane. Speriamo che almeno in questa circostanza i bravi riformisti nostrani facciano il loro mestiere.
Luglio è il mese del Documento di programmazione economica finanziaria. Il DPEF elenca le grandezze macroeconomiche che il governo intende realizzare nel triennio successivo attraverso le finanziarie annuali. Non ci sono provvedimenti, ma l’individuazione delle aree di intervento. Allarma sindacati e non solo, che il governo Prodi intende agire essenzialmente per tagliare sanità , previdenza, e sui trasferimenti alle regioni e enti locali. Che la situazione dei conti pubblici trovata da Padoa Schioppa sia ancor peggiore di quella valutata prima delle elezioni è cosa vera. E’ anche vero però che il programma elettorale dell’Ulivo aveva come cardine la salvaguardia del sistema di welfare. La spesa sanitaria italiana è ancora al di sotto di quella della Germania, Francia, ed è nella media europea. Le tariffe per i servizi pubblici locali tendono da anni a salire e il sistema pensionistico ha subito ridimensionamenti da almeno dieci anni. Che si vuol fare? Debbono essere ancora i ceti più deboli a pagare per il risanamento del Paese? Prodi non aveva escluso “il lacrime e sangue�
Non si capisce perché non si è trattato con Bruxelles sui tempi del rientro nei parametri europei. Lo sfondamento del 3% è opera dal governo Berlusconi. Almunia, presidente della commissione europea, ha consentito per anni la finanza creativa di Tremonti e forse era possibile per Prodi trattare con l’Europa un anno in più per il rientro nei parametri stessi.
Il fine giugno e l’inizio luglio è il periodo dei “direttori generali†della sanità . Non siamo ancora alla decisione formale, ma in dirittura d’arrivo certamente. Le polemiche sono naturalmente tutte interne alla maggioranza. Non si tratta di sapere quanti ai diesse, alla Margherita o a Rifondazione. La prassi è consolidata: tre, due, uno. Le beghe nascono attorno a dove e chi. Ci assicurano che il criterio della scelta sarà quello della massima professionalità nell’interesse della collettività . Sia consentito qualche dubbio. Non si conoscono le valutazioni sul lavoro svolto dai direttori uscenti. Come trasparenza non è male. Eppure non sarebbe complicato verificare la qualità dei servizi delle varie strutture sanitarie. Non è complicato guardare le innovazioni prodotte o il grado di soddisfazione degli utenti della sanità o l’impegno del personale dell’area. Se si fosse proceduto così si sarebbe superata l’impressione che tutto sia deciso, non dai partiti che già apparirebbe chiaro, ma dalle diverse strutture lobbistiche che operano anche nella nostra comunità .
Si mormora che pinco pallino è appoggiato dal sindaco o che tizio è un uomo del parlamentare, del presidente o dell’assessore. Sono sussurri, chiacchiericcio che poco ha a che fare con l’interesse della comunità o con l’esigenza di costruire una classe dirigente più adeguata a quella che conosciamo.
A proposito di classe dirigente. Continua l’ormai lungo ridimensionamento nella gestione della cosa pubblica dei dirigenti perugini del partito di Fassino. Anche ad una sommaria analisi dei punti di comando dell’apparato pubblico, risulta evidente una contrazione della presenza di “peruginiâ€. L’ultimo episodio è stato il rinnovo della giunta della Provincia di Perugia. Non un singolo assessore della città del grifo e del leone.
Se si osservano enti strumentali o elettivi ci si accorge che Perugia è sì la capitale dell’Umbria, ma quanto a leader ne sa esprimere pochissimi. La cosa qualche riflessione dovrebbe produrla. In una politica che, grazie ai sistemi elettorali si è feudalizzata, rimane difficile operare bene, quando i territori sono rappresentati in modo squilibrato. Rivendicare astrattamente una maggior presenza sarebbe una fesseria. Concretamente c’è invece da analizzare perché una comunità , quella perugina, non riesce più a produrre una classe dirigente di valenza regionale. E ciò non riguarda soltanto il mondo della politica. Anche nel mondo della produzione la frantumazione localistica ha penalizzato alcuni territori e privilegiato altri al di là dei meriti o demeriti propri. Perugia ha la sua forza proprio nella capacità di attrarre intelligenze e risorse. Bisognerebbe metterle a frutto senza chiusure localistiche, ma rivendicando equilibrio nella distribuzione del potere pubblico.
L’egemonia non si ottiene per decreto e in una società “feudale†quando manca il Principe dominano i feudatari e a volte i vassalli.
Corriere dell’Umbria 9 luglio 2006
da Francesco Mandarini | Lug 2, 2006
La classe dirigente politica non ha più alcuna capacità di intendere ciò che la gente comune pensa rispetto alle esigenze del Paese.
Anche il voto referendario di domenica scorsa è stato una sorpresa per tutti, commentatori politici compresi. Dopo undici anni ha votato per un referendum oltre il 50% degli aventi diritto. Eppure essendo un referendum confermativo non c’era bisogno di alcun quorum.
Una campagna elettorale inesistente in cui solo il sindacato aveva raccolto l’appello dei comitati per il No guidati dal presidente emerito Oscar Luigi Scalfaro. I ciarlieri leader dell’Ulivo si erano tenuti al coperto e le poche manifestazioni dei partiti erano state, a Roma come a Bologna o Milano, un flop. Non trattandosi del solito concorso elettorale per la conquista di un qualche seggio, le periferie, anche quelle che più rosse non si può, non avevano visto la scesa in campo dell’esercito dei professionisti della politica e dell’amministrazione. Forse è proprio per questo che il No ha ottenuto il 62% dei consensi? I pochi interventi fatti dai leader dell’Unione o da qualche gigante del pensiero del riformismo italiano, stimolavano ad un voto per il Ni: si voti No perchè la riforma della Costituzione, che bisogna fare, è meglio che la facciamo noi che siamo i veri riformisti. Incapaci di ogni analisi, testardamente dopo il voto, i “soliti noti” hanno la faccia di riproporre un tavolo di trattativa per cambiare la Costituzione. Trattare cosa e con chi? Questo è il dilemma. Non se ne può più. In questo caso ha ragione Bertinotti. Una pausa di riflessione farebbe bene a tutti. La vittoria del No è certamente una sconfitta per Bossi, Fini e Berlusconi, ma è anche una sberla per coloro che nel centrosinistra hanno in testa le stesse idee sul primariato forte, sullo svuotamento del parlamento a vantaggio del Capo.
Il voto dice chiaramente che il popolo italiano preferisce l’attuale Costituzione e non ci può essere nè bicamerale nè assemblea costituente legittimata a modificare l’essenza di una repubblica che è e deve rimanere una repubblica parlamentare. Così ha deciso il popolo con il suo No alla riforma della destra. Dopo il voto qualche dubbio sarà venuto ai fautori del presidenzialismo regionale? Non credo, il dubbio a certe latitudini non è merce alla moda.
La Costituzione è emendabile figuriamoci, ma la storia della “grande riforma” di craxiana memoria è da considerarsi chiusa con il voto di domenica. Prodi ha detto che l’Ulivo diminuirà i parlamentari? Bene, predisponga il disegno di legge.
Forse è anche il caso di affrontare in generale il problema dei costi della politica. L’esercito, ben pagato, degli addetti ai lavori è abnorme per un Paese che vuol dirsi moderno. Tra consulenti, staff, addetti vari si contribuisce certamente all’occupazione intellettuale. Purtroppo qualche problema per la spesa corrente degli enti si crea. Le spese per il funzionamento tendono ad aumentare in maniera preoccupante.
Tutte le regioni italiane hanno aumentato il numero dei consiglieri e attraverso le più diverse leggi elettorali la casta politica perpetua il suo dominio sulla società italiana. Non è tempo di andare ad una sola legge elettorale per le elezioni amministrative e per quelle regionali?
Anche nei sistemi federali più avanzati esiste un solo sistema elettorale, non uno per regione come in Italia. Dove il popolo elegge direttamente il presidente, l’assemblea è eletta con voto disgiunto. Governo e assemblea sono poteri separati. Chiedere conferma ai tanti consulenti giuridici.
Grazie alla creatività del centrosinistra, in accordo in questo con il centrodestra, ogni oligarchia locale si è scelto il miglior sistema per durare nel tempo e le carriere divengono così eterne. Uno sguardo alla nostra piccola Umbria basta per trovare la conferma di quanto detto. Il rinnovamento per il rinnovamento non è cosa saggia di per se. Ma ascoltare da dirigenti autorevoli, organigrammi proiettati al 2020 che riguardano persone già in campo da una trentina d’anni una certa impressione la fa. Non sarà una delle ragioni che porta tanti giovani ad impegnarsi nel volontariato piuttosto che all’interno di un partito? A venti anni ci si può impegnare per un progetto politico al servizio della gente. Fare il galoppino per questo o per quel politico manca di attrattiva specialmente per un giovane democratico.
Sconvolge a molti il fatto che non si valuta più un dirigente per il risultato del suo lavoro. Chi li ha conosciuti sa che i processi autocritici sono certo da evitare, ma almeno avevano il merito della trasparenza. Non si pensa che una valutazione oggettiva del bilancio di un’attività , sia essa politica che amministrativa, deve essere fatta prima di scegliere per un incarico qualsiasi? Altrimenti in base a quali criteri si premia o si rimuove un dirigente? Molti ritengono scandaloso che l’appartenenza ad un partito sia uno dei criteri per la scelta. Al riguardo c’è da discutere e approfondire. Ma forse siamo ad una fase ancora diversa. I partiti non sono più centri di democrazia organizzata. Sono sempre più agglomerati di interessi locali e personali. Il rischio è quello che non si scelga con il criterio di appartenenza politica, ma piuttosto con un metro ancor meno trasparente: quello della amicizie o inimicizia personali. Non si può che essere preoccupati. Le difficoltà derivanti dallo stato della finanza pubblica si mescolano a disillusioni e aspettative le più diverse. Sarebbe grave se, partiti che hanno responsabilità pluriennale del governo della cosa pubblica, procedessero nelle scelte sulla base delle volontà di consorterie, di salotti, di simpatie personali o di interesse del territorio rappresentato da questo o da quello.
Corriere dell’Umbria 2 luglio 2006
da Francesco Mandarini | Lug 2, 2006
La classe dirigente politica non ha più alcuna capacità di intendere ciò che la gente comune pensa rispetto alle esigenze del Paese.
Anche il voto referendario di domenica scorsa è stato una sorpresa per tutti, commentatori politici compresi. Dopo undici anni ha votato per un referendum oltre il 50% degli aventi diritto. Eppure essendo un referendum confermativo non c’era bisogno di alcun quorum.
Una campagna elettorale inesistente in cui solo il sindacato aveva raccolto l’appello dei comitati per il No guidati dal presidente emerito Oscar Luigi Scalfaro. I ciarlieri leader dell’Ulivo si erano tenuti al coperto e le poche manifestazioni dei partiti erano state, a Roma come a Bologna o Milano, un flop. Non trattandosi del solito concorso elettorale per la conquista di un qualche seggio, le periferie, anche quelle che più rosse non si può, non avevano visto la scesa in campo dell’esercito dei professionisti della politica e dell’amministrazione. Forse è proprio per questo che il No ha ottenuto il 62% dei consensi? I pochi interventi fatti dai leader dell’Unione o da qualche gigante del pensiero del riformismo italiano, stimolavano ad un voto per il Ni: si voti No perché la riforma della Costituzione, che bisogna fare, è meglio che la facciamo noi che siamo i veri riformisti. Incapaci di ogni analisi, testardamente dopo il voto, i “soliti noti†hanno la faccia di riproporre un tavolo di trattativa per cambiare la Costituzione. Trattare cosa e con chi? Questo è il dilemma. Non se ne può più. In questo caso ha ragione Bertinotti. Una pausa di riflessione farebbe bene a tutti. La vittoria del No è certamente una sconfitta per Bossi, Fini e Berlusconi, ma è anche una sberla per coloro che nel centrosinistra hanno in testa le stesse idee sul primariato forte, sullo svuotamento del parlamento a vantaggio del Capo.
Il voto dice chiaramente che il popolo italiano preferisce l’attuale Costituzione e non ci può essere né bicamerale né assemblea costituente legittimata a modificare l’essenza di una repubblica che è e deve rimanere una repubblica parlamentare. Così ha deciso il popolo con il suo No alla riforma della destra. Dopo il voto qualche dubbio sarà venuto ai fautori del presidenzialismo regionale? Non credo, il dubbio a certe latitudini non è merce alla moda.
La Costituzione è emendabile figuriamoci, ma la storia della “grande riforma†di craxiana memoria è da considerarsi chiusa con il voto di domenica. Prodi ha detto che l’Ulivo diminuirà i parlamentari? Bene, predisponga il disegno di legge.
Forse è anche il caso di affrontare in generale il problema dei costi della politica. L’esercito, ben pagato, degli addetti ai lavori è abnorme per un Paese che vuol dirsi moderno. Tra consulenti, staff, addetti vari si contribuisce certamente all’occupazione intellettuale. Purtroppo qualche problema per la spesa corrente degli enti si crea. Le spese per il funzionamento tendono ad aumentare in maniera preoccupante.
Tutte le regioni italiane hanno aumentato il numero dei consiglieri e attraverso le più diverse leggi elettorali la casta politica perpetua il suo dominio sulla società italiana. Non è tempo di andare ad una sola legge elettorale per le elezioni amministrative e per quelle regionali?
Anche nei sistemi federali più avanzati esiste un solo sistema elettorale, non uno per regione come in Italia. Dove il popolo elegge direttamente il presidente, l’assemblea è eletta con voto disgiunto. Governo e assemblea sono poteri separati. Chiedere conferma ai tanti consulenti giuridici.
Grazie alla creatività del centrosinistra, in accordo in questo con il centrodestra, ogni oligarchia locale si è scelto il miglior sistema per durare nel tempo e le carriere divengono così eterne. Uno sguardo alla nostra piccola Umbria basta per trovare la conferma di quanto detto. Il rinnovamento per il rinnovamento non è cosa saggia di per se. Ma ascoltare da dirigenti autorevoli, organigrammi proiettati al 2020 che riguardano persone già in campo da una trentina d’anni una certa impressione la fa. Non sarà una delle ragioni che porta tanti giovani ad impegnarsi nel volontariato piuttosto che all’interno di un partito? A venti anni ci si può impegnare per un progetto politico al servizio della gente. Fare il galoppino per questo o per quel politico manca di attrattiva specialmente per un giovane democratico.
Sconvolge a molti il fatto che non si valuta più un dirigente per il risultato del suo lavoro. Chi li ha conosciuti sa che i processi autocritici sono certo da evitare, ma almeno avevano il merito della trasparenza. Non si pensa che una valutazione oggettiva del bilancio di un’attività , sia essa politica che amministrativa, deve essere fatta prima di scegliere per un incarico qualsiasi? Altrimenti in base a quali criteri si premia o si rimuove un dirigente? Molti ritengono scandaloso che l’appartenenza ad un partito sia uno dei criteri per la scelta. Al riguardo c’è da discutere e approfondire. Ma forse siamo ad una fase ancora diversa. I partiti non sono più centri di democrazia organizzata. Sono sempre più agglomerati di interessi locali e personali. Il rischio è quello che non si scelga con il criterio di appartenenza politica, ma piuttosto con un metro ancor meno trasparente: quello della amicizie o inimicizia personali. Non si può che essere preoccupati. Le difficoltà derivanti dallo stato della finanza pubblica si mescolano a disillusioni e aspettative le più diverse. Sarebbe grave se, partiti che hanno responsabilità pluriennale del governo della cosa pubblica, procedessero nelle scelte sulla base delle volontà di consorterie, di salotti, di simpatie personali o di interesse del territorio rappresentato da questo o da quello.
Corriere dell’Umbria 2 luglio 2006