Il decreto su alcune liberalizzazioni ha suscitato un’ondata di scioperi già  effettuati, quello dei tassisti, e annunciati, quello degli avvocati. Si aspettano le reazioni di farmacisti, banche e assicurazioni. Provate a spiegare, ad un amico straniero, perchè il ministro Bersani è diventato famoso con l’atto deliberato dal consiglio dei ministri della settimana scorsa. Per farvi capire dovrete spiegare perchè è rivoluzionario che un cittadino possa comperare aspirine ad un super mercato o che non bisognerà  più andare dal notaio per certificare la vendita di un’auto. Che un correntista bancario possa accettare o no modifiche contrattuali sembra un’ovvietà  in tutto il mondo. In Italia, fino al decreto Bersani non lo era, e chiudere un conto in banca era un’impresa lunga e costosa. L’amico americano o inglese vi guarderà  allibito e voi per farvi capire dovrete fare una lezione di storia che ripercorrerà  la corporativizzazione della società  italiana dal medio evo ad oggi. Il professor Segatori ha tratteggiato il percorso storico proprio su questo giornale giovedì scorso e c’è poco d’altro da aggiungere. Se non una preoccupazione: le lobbies sono molto forti in Parlamento, mentre i cittadini-consumatori non hanno gran peso se non nei periodi elettorali e le elezioni sono lontane. Speriamo che almeno in questa circostanza i bravi riformisti nostrani facciano il loro mestiere.
Luglio è il mese del Documento di programmazione economica finanziaria. Il DPEF elenca le grandezze macroeconomiche che il governo intende realizzare nel triennio successivo attraverso le finanziarie annuali. Non ci sono provvedimenti, ma l’individuazione delle aree di intervento. Allarma sindacati e non solo, che il governo Prodi intende agire essenzialmente per tagliare sanità , previdenza, e sui trasferimenti alle regioni e enti locali. Che la situazione dei conti pubblici trovata da Padoa Schioppa sia ancor peggiore di quella valutata prima delle elezioni è cosa vera. E’ anche vero però che il programma elettorale dell’Ulivo aveva come cardine la salvaguardia del sistema di welfare. La spesa sanitaria italiana è ancora al di sotto di quella della Germania, Francia, ed è nella media europea. Le tariffe per i servizi pubblici locali tendono da anni a salire e il sistema pensionistico ha subito ridimensionamenti da almeno dieci anni. Che si vuol fare? Debbono essere ancora i ceti più deboli a pagare per il risanamento del Paese? Prodi non aveva escluso “il lacrime e sangue”?
Non si capisce perchè non si è trattato con Bruxelles sui tempi del rientro nei parametri europei. Lo sfondamento del 3% è opera dal governo Berlusconi. Almunia, presidente della commissione europea, ha consentito per anni la finanza creativa di Tremonti e forse era possibile per Prodi trattare con l’Europa un anno in più per il rientro nei parametri stessi.
Il fine giugno e l’inizio luglio è il periodo dei “direttori generali” della sanità . Non siamo ancora alla decisione formale, ma in dirittura d’arrivo certamente. Le polemiche sono naturalmente tutte interne alla maggioranza. Non si tratta di sapere quanti ai diesse, alla Margherita o a Rifondazione. La prassi è consolidata: tre, due, uno. Le beghe nascono attorno a dove e chi. Ci assicurano che il criterio della scelta sarà  quello della massima professionalità  nell’interesse della collettività . Sia consentito qualche dubbio. Non si conoscono le valutazioni sul lavoro svolto dai direttori uscenti. Come trasparenza non è male. Eppure non sarebbe complicato verificare la qualità  dei servizi delle varie strutture sanitarie. Non è complicato guardare le innovazioni prodotte o il grado di soddisfazione degli utenti della sanità  o l’impegno del personale dell’area. Se si fosse proceduto così si sarebbe superata l’impressione che tutto sia deciso, non dai partiti che già  apparirebbe chiaro, ma dalle diverse strutture lobbistiche che operano anche nella nostra comunità .
Si mormora che pinco pallino è appoggiato dal sindaco o che tizio è un uomo del parlamentare, del presidente o dell’assessore. Sono sussurri, chiacchiericcio che poco ha a che fare con l’interesse della comunità  o con l’esigenza di costruire una classe dirigente più adeguata a quella che conosciamo.
A proposito di classe dirigente. Continua l’ormai lungo ridimensionamento nella gestione della cosa pubblica dei dirigenti perugini del partito di Fassino. Anche ad una sommaria analisi dei punti di comando dell’apparato pubblico, risulta evidente una contrazione della presenza di “perugini”. L’ultimo episodio è stato il rinnovo della giunta della Provincia di Perugia. Non un singolo assessore della città  del grifo e del leone.
Se si osservano enti strumentali o elettivi ci si accorge che Perugia è sì la capitale dell’Umbria, ma quanto a leader ne sa esprimere pochissimi. La cosa qualche riflessione dovrebbe produrla. In una politica che, grazie ai sistemi elettorali si è feudalizzata, rimane difficile operare bene, quando i territori sono rappresentati in modo squilibrato. Rivendicare astrattamente una maggior presenza sarebbe una fesseria. Concretamente c’è invece da analizzare perchè una comunità , quella perugina, non riesce più a produrre una classe dirigente di valenza regionale. E ciò non riguarda soltanto il mondo della politica. Anche nel mondo della produzione la frantumazione localistica ha penalizzato alcuni territori e privilegiato altri al di là  dei meriti o demeriti propri. Perugia ha la sua forza proprio nella capacità  di attrarre intelligenze e risorse. Bisognerebbe metterle a frutto senza chiusure localistiche, ma rivendicando equilibrio nella distribuzione del potere pubblico.
L’egemonia non si ottiene per decreto e in una società  “feudale” quando manca il Principe dominano i feudatari e a volte i vassalli.
Corriere dell’Umbria 9 luglio 2006

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