da Francesco Mandarini | Mar 31, 2015
Ricordo ancora nitidamente la prima volta che celebrai un compleanno di Pietro Ingrao: era il 1965, lui compiva cinquant’anni (un’età che mi parve avanzatissima) ed era mezzo secolo fa. Con Sandro Curzi, ambedue non da molto usciti dalla irrequieta Federazione Giovanile, gli regalammo il suo primo paio di mocassini, con una dedica che lo sollecitava ad essere meno prudente: «Cammina coi tempi, cammina con noi». Lo ricordo bene perché eravamo in piena battaglia «ingraiana», proprio alla vigilia del fatidico XI congresso del Pci, quando i compagni che si riconoscevano nelle sue idee (non una corrente, per carità), uscirono un po’ più allo scoperto per sostenerle; e lui stesso operò quella che fu definita una inedita rottura. Disse con chiarezza nel suo intervento congressuale: «Sarei insincero se tacessi che il compagno Longo non mi ha persuaso rifiutando di introdurre nella vita del nostro partito il nuovo costume di una pubblicità del dibattito, cosicché siano chiari a tutti i compagni non solo gli orientamenti e le decisioni che prevalgono e tutti impegnano ma anche il processo dialettico di cui sono il risultato». Fu, come è noto, applauditissimo, ma tuttavia successivamente emarginato dal vertice del partito e «relegato» (allora Botteghe Oscure contava più di Montecitorio) alla presidenza del gruppo parlamentare e poi della Camera dei Deputati. E noi dispersi in ruoli minori, fuori dal palazzo. Lo ricordo bene perché in fondo fu allora che cominciò la storia de «il manifesto», che pure vide la luce solo quattro anni più tardi. Senza Pietro, che come sempre nella sua vita ha fatto prevalere sulle sue scelte politiche la preoccupazione di non abbandonare il «gorgo», quello entro cui si addensava il popolo comunista. Non per paura, sia chiaro, ma per via di quello che era il modo di sentire profondo di tutto il partito, il timore di sacrificare l’opinione collettiva alla propria individuale. Noi del manifesto alla fine lo facemmo, ma anche perché le nostre responsabilità nel Pci erano infinitamente minori e dunque il nostro gesto non avrebbe potuto certo avere le stesse conseguenze di quello di Ingrao. Ma non crediate che sia stato facile neppure per noi, fu anzi una scelta molto molto sofferta e talvolta è capitato anche decenni dopo di interrogarsi se non avremmo dovuto restare a combattere dentro anziché metterci nelle condizioni di essere messi fuori. (Per favore non reagite, voi giovani, dicendo: ma che tempi, non si poteva neppure dichiarare un dissenso! È vero, non era bello. E però le opinioni nonostante tutto pesavano più di adesso, la nostra radiazione fu un trauma per tutto il partito. Ora si può dire di tutto, ma perché non conta più niente). Oggi Pietro Ingrao di anni ne compie 100, e noi de il manifesto, se contiamo anche l’incubazione, 50. Col tempo si è forse smarrito il senso di cosa sia stato l’ingraismo, e anzi mi chiedo se tra i giovani della redazione del giornale c’è ancora qualcuno che sa di cosa si sia trattato. Non fu, badate, solo una battaglia per la democratizzazione del partito, il famoso diritto al dissenso. C’era molto di più: si è trattato del tentativo più serio del pensiero comunista di fare i conti con il capitalismo nei suoi punti più alti, di individuare le nuove, moderne contraddizioni e su queste — più che su quelle antiche dell’Italietta rurale — far leva, non per «inseguire mille rivoli rivendicativi» (per usare l’espressione di allora), ma per costruire un vero modello di sviluppo alternativo. Si trattava della rottura con l’idea di uno sviluppo lineare, col mito della «modernità acritica», che fu alla base della cultura neocapitalista (e craxiana) di quegli anni. E, ancora, il tentativo di capire che la crisi italiana non rappresentava una anomalia (un vizio tutt’ora diffuso), ma poteva essere capita solo nel nesso con il capitalismo avanzato quale si stava sviluppando nel mondo. Dal giudizio sulla fase discendevano due diverse linee strategiche e per questo il confronto non fu solo teorico, ma strettamente intrecciato con il che fare politico: se bisognava agire per rendere l’Italia «normale», e cioè allinearla alla modernità europea, o invece incidere su quel nesso anche per risolvere i vecchi problemi e preparare un’alternativa anche alla «normalità» capitalistica. La destra del Pci ovviamente si oppose a questa prospettiva. Quando il Pci, dopo la Bolognina, fu avviato allo scioglimento, proprio su questa necessaria innovazione costruimmo — questa volta ufficialmente assieme a Pietro Ingrao — il senso della famosa «Mozione 2» che alla liquidazione del partito si opponeva. Non in nome della conservazione ma, al contrario, del cambiamento, che non faceva però venir meno le ragioni dell’alternativa al sistema ma anzi le rafforzava. Le vecchie categorie non bastavano più e Ingrao è sempre stato attento a non ripetere litanie ma a individuare ogni volta le potenzialità nuove offerte dallo sviluppo storico, i soggetti antagonisti, a capire come si formano e si aggregano per diventare classe dirigente in grado di prospettare una società alternativa. Oggi e qui. Come sapete, perdemmo. Su quel nostro dibattito degli anni 60 — che trovò poi una sistemazione nel 1970 proprio nelle «Tesi per il comunismo» del Manifesto (che non dissero che il comunismo era maturo nel senso di imminente, come qualcuno equivocò — e ironizzò -, ma che non sarebbe stato più possibile dare soluzione ai problemi posti dalla crisi nel quadro del sistema capitalistico sia pure ammodernato). Questo fu l’XI congresso del Pci, quello spartiacque delle cui emozioni, passioni, sofferenze Pietro Ingrao ha dato eco nel suo libro «Volevo la luna». Nell’anniversario del suo centesimo anno di vita avrei forse dovuto parlare di Pietro Ingrao ricordandone di più i suoi aspetti umani, la sua personalità, il modo come ha dipanato la sua esistenza, e non invece andar subito dritta al nocciolo politico della sua vita di comunista. L’ho fatto per due ragioni: perché troppo spesso ormai nel celebrare gli anniversari si tende a ridurre tutto ai tratti del carattere di chi si ricorda, alle sue qualità morali, e sempre meno a riflettere sulle loro scelte politiche. E poi perché Pietro in particolare, invecchiando, — e forse anche per via di come sono andate le cose nella sinistra italiana — ha finito per ricordarsi sottotono, persino con qualche vezzo civettuolo, più come poeta che come dirigente politico. Che è invece stato e di primo piano. Poeta non ha in realtà mai smesso di essere, basti pensare al suo modo di esprimersi, mai politichese, sempre attento a illuminare l’immaginazione e non a ripetere catechismi. Vi ricordate la sua sorprendente uscita nell’intervento al primo dei due congressi di scioglimento del Pci, il XIX nel 1990, quando se ne uscì col suo clamoroso «viventi non umani», per chiedere attenzione alla natura e alle sue speci? Non era forse una poesia, che come tale suonò, del resto, in quel grigio e mesto dibattito di fine partita? Pietro non usava il politichese perché ascoltava. Sembra banale, ma quasi nessuno ascolta. E siccome ascoltava è stato anche ascoltato da generazioni assai più giovani, quelle che dei nostri dibattiti all’XI congresso del Pci, e del Pci stesso, non sapevano niente. Penso al Forum sociale europeo di Firenze nel 2002, per esempio, dove il suo discorso sulla pace conquistò ragazzi che non sapevano neppure chi fosse. Ascoltava perché della democrazia ha sempre sottolineato un elemento ormai in disuso, soprattutto il protagonismo delle masse, la partecipazione. Può sembrare curioso, ma molto del pensiero politico di Ingrao è stato segnato dalla sua adolescenziale formazione cinematografica. Nei molti anni in cui per via del mio incarico nella promozione del cinema italiano ho avuto con i big di Hollywood molti incontri e spesso la discussione scivolava sull’Italia e sul come era stato possibile che ci fossero tanti comunisti. Un po’ scherzando e un po’ sul serio ho sempre finito per ricorrere ad un paradosso: «Badate — dicevo — il comunismo italiano è così speciale perché oltreché a Mosca ha le sue radici qui a Hollywood, che dunque ne porta le responsabilità». E poi raccontavo loro la storia, tante volte sentita da Pietro, della formazione di un pezzo non secondario di quello che poi diventò il gruppo dirigente del Pci nel dopoguerra: Mario Alicata, lui stesso, e anche altri che pur fuori dai vertici sul partito avevano avuto una fortissima influenza, Visconti, Lizzani, De Santis. Tutti allievi del Centro sperimentale di cinematografia. Raccontavo loro, dunque, di Ingrao che mi aveva detto di come la sua generazione, già a metà degli anni ’30, avesse avuto il suo ceppo proprio nel cinema. E, segnatamente, nel grande cinema — e nella letteratura — americani del New Deal, tortuosamente conosciuti proprio al Centro grazie a una fortuita circostanza: l’arrivo, come insegnante, di un singolare personaggio, Ahrnheim, ebreo tedesco sfuggito al nazismo e chissà come approdato proprio lì, prima che le leggi razziali fossero introdotte anche in Italia. «Proprio quelle pellicole — mi disse Pietro in occasione di un’intervista (per il settimanale Pace e guerra che allora dirigevo) su una importante mostra allestita a Milano sugli anni ’30 — mostravano cariche di socialità, in cui c’era la classe operaia, la solidarietà sociale, la lotta. Proprio grazie a quei film, che erano mezzi di comunicazione fra i movimenti sociali e l’americano qualunque, così diversi dalla cultura antifascista italiana degli anni ’20 — elitaria, ermetica — che avevamo amato, ma non ci aveva aiutato; proprio quei film che ci aprivano una finestra sull’intellettuale impegnato, noi ci siamo politicizzati. Sono stati il primo passo verso la politica». Questo nesso fra cultura e politica è stato un tratto che ha distinto il comunismo italiano. E Pietro Ingrao ne è stato uno dei più significativi interpreti. Grazie e tanti auguri, Pietro.
da Francesco Mandarini | Dic 4, 2014
Il senso politico dell’inchiesta di Roma è piuttosto trasparente. Al di là dei risvolti penali della vicenda, affiora una radiografia impietosa delle tendenze degenerative che da tempo sconvolgono la vita politica in Italia. Nel deperimento di una politica organizzata e dal forte profilo identitario, operano nelle città degli scaltri comitati d’affare. L’elezione diretta di una carica monocratica, e la gestione di ingenti flussi di denaro ancora in dotazione alle amministrazioni, suggeriscono ai poteri occulti di investire con spregiudicatezza per decidere l’orientamento e la composizione dei ceti politici.Il presidenzialismo municipale, congiunto allo spegnimento delle forme di una vita di base partecipata,ha approfondito il peso delle risorse private nelle carriere politiche, nella adozione delle politiche urbanistiche, ambientali, dei servizi.Emerge la scissione tra una politica dell’apparenza, dove predominano la personalizzazione della leadership e i richiami alla mitologia della società civile, e una trama più invisibile di influenza che vede l’attivismo di comitati e cricche che gestiscono appalti, fondi, nomine. Non solo per diventare sindaco «unto dal popolo», ma anche per conquistare un seggio in consiglio, servono denaro, sostegno mediatico, contatti strategici per vincere la grande battaglia delle preferenze.E il seggio vale come base sicura per accumulare una visibile potenza privata, utile nelle sedi della contrattazione. Il pacchetto delle tessere, e la dotazione di preferenze stabili da spostare anche in soccorso di candidati amici sono una risorsa preziosa da far valere nel momento della definizione delle liste per il parlamento o la regione.
La politica senza partiti strutturati e codici ideologici di riferimento è sempre più appannaggio di potenze private. Le primarie, inventate come rito iperdemocratico, in realtà non fanno che amplificare la rilevanza di denaro e media nella selezione delle classi politiche locali e nazionali. I gazebo impongono ruvidi calcoli di interesse che strapazzano ogni valutazione politica affidata ai militanti, agli iscritti.
I non-partiti leggeri, liquidi, estroversi, in nome dello scettro da restituire agli elettori sovrani, costruiscono in realtà dei meccanismi di opacità, se non di malaffare, che approfondiscono la subalternità della politica al denaro. Il singolo designato alla carica elettiva, ha alle spalle coalizioni di interesse che lo hanno appoggiato nelle preferenze e subito chiedono il conto. Nella sua solitudine, l’amministratore vaga in balia di potenze che lo manovrano, lo indirizzano, talvolta lo inducono in tentazione.
Rimedi facili non ce ne sono. Per cominciare, bisognerebbe restituire identità alla politica, come passione ideale. Ma ogni evocazione di una salda componente ideologica nell’impegno pubblico, subito attira addosso l’accusa di nostalgia novecentesca.
Servirebbe anche l’abolizione delle primarie aperte al passante indistinto: i gazebo sono di fatto la resa ad un partito della nazione sconfinato, privo di differenze, sordo al senso della parzialità. Dovrebbe esserci anche un preciso radicamento dei partiti nel conflitto sociale della post-modernità. Ma è difficile che ciò avvenga se il conflitto viene maledetto come una malattia e gli imprenditori sono celebrati come «gli eroi del nostro tempo». Finché i partiti sono «scalabili» con operazioni scaltre, sorrette dalle munizioni ingenti dei signori dei media e del denaro, non ci sono rimedi reali alla compenetrazione affaristica di governo, amministrazione, imprese.
Con l’abolizione del finanziamento pubblico, i soggetti politici residui diventano sempre più poveri,mentre gli eletti navigano nell’opulenza. Questa frattura tra organizzazione esangue e peones, così remunerati da sperimentare un vero mutamento di status, è una delle cause dell’elevata competizione interna ai partiti e anche del deterioramento della qualità del ceto politico.
Ogni riforma della politica diventa sterile invocazione se non percepisce quanto esteso e radicato è il male.
Michele Prospero
Dal “Il Manifesto” del 4 dicembre2014
da Francesco Mandarini | Ott 31, 2014
Al termine di una delle prime esposizioni pubbliche delle sue ricerche, Sigmund Freud si guadagnò un commento piuttosto velenoso: «C’è del nuovo e del buono nelle sue teorie, dottor Freud, peccato che il buono non sia nuovo e il nuovo non sia buono!». L’astio conservatore che ispirò questo giudizio rivelava brutalmente l’intento di denigrare ogni innovazione e celebrare le salde verità della tradizione accademica. Nondimeno si faceva forza di una contraddizione, sempre possibile, sul piano logico come su quello storico, tra il «nuovo» e il «buono». Contraddizione che l’ideologia progressista lasciava svanire in un ottimismo raramente disinteressato e assai efficace nel mascherare gli squilibri, gli orrori di nuovo conio, le esclusioni e le discriminazioni compiute durante il cammino verso il «Progresso». Questa ideologia, un tempo terreno prediletto d’incontro tra la così detta borghesia «illuminata» e il socialismo del movimento operaio, è stata sottoposta alle catastrofiche prove della storia e a una ineludibile critica teorica e politica, che alla fine ha preteso che la «Modernità» si facesse «riflessiva», attenta ai guasti che aveva prodotto e al blocco delle sue stesse prospettive. Il «progressismo» ingenuo e trionfalista divenne così un ferro vecchio che nessuno voleva più nominare, sebbene fosse rimasto, sottotraccia, l’ultima linfa identitaria della «sinistra». La rivoluzione neoliberista le avrebbe sottratto anche questo labile ancoraggio. Quando fu fatta passare l’idea che dall’ arricchimento dei ricchi tutti avrebbero tratto un qualche vantaggio, che l’accentuarsi delle diseguaglianze sarebbe stato motore di sviluppo e il potere incontrastato delle élites il trionfo dell’efficienza, il campo del «Progresso» era interamente occupato. A suggello di questa occupazione i cervelloni del Corriere della sera, poterono infine decretare che «il liberismo è di sinistra». Ben consapevoli che con l’inversione dei termini il risultato non cambia. La sinistra liberista si accingeva a occupare la scena all’insegna della «novità».
Il «progressismo» era però alquanto screditato e per riesumarne il nuovo spirito animale bisognava ricorrere ad altre parole: «innovazione», «cambiamento», «futuro», «nuovo», perfino «rivoluzione» accompagnata da qualche aggettivo glamour. E sospingere negli inferi della «conservazione» voci critiche, posizioni conflittuali e resistenze. Ma per fare questo una ulteriore acrobazia retorica si rendeva necessaria. Fin dagli albori della Modernità, «conservazione» ha significato la conservazione di gerarchie e privilegi e «tradizione» la trasmissione indisturbata dei medesimi. Si trattava a questo punto di equiparare i diritti acquisiti ai privilegi di questa o quella categoria, gli operai di fabbrica ai signori col sangue blu. Operazione facilitata dal fatto che quei diritti erano stati nel frattempo indeboliti e soprattutto negati a una vasta platea di cittadini, la nuova plebe del precariato e dei diversamente inoccupati (che, di riforma in riforma, plebe è sempre rimasta). Fatto sta che altri «privilegi», quelli spettanti (per tradizione o per usurpazione) alle alte sfere della gerarchia economica e sociale non dovevano essere toccati. Perché esigere una cosa del genere ci avrebbe confinato nelle fila della «conservazione» più arcaica, ostacolando il progresso (pardon, l’innovazione) fondata sulla mitologia della «competitività» e del «merito». In poche mosse la dialettica tra innovazione e conservazione veniva così ridisegnata ad uso e consumo della propaganda governativa.
Ora, tra le «novità» del tempo presente possiamo annoverare l’erosione dei redditi e delle condizioni di vita, il blocco della mobilità sociale verso l’alto, la devastazione dell’ambiente, il potere incontrollabile del capitale finanziario, la pervasività dei dispositivi di controllo sulla vita quotidiana, la crescita smisurata della popolazione carceraria, la barbarie postmoderna e «giovanissima» che imperversa in diverse aree del modo e molte altre sgradevoli «innovazioni». Esiste un «nuovo» capace di contrastare queste «novità»? Un «buon nuovo»? Se esiste non sembra prosperare tra gli innovatori per professione e per vocazione. Dediti, piuttosto, a un sostanziale ritorno al passato. Il lavoro con pochi diritti e a basso salario è già esistito, la «governabilità» senza intralci anche, l’identificazione tra Partito e Nazione, disgraziatamente, pure. Il gioco consiste nello spacciare il negativo prodotto nel presente, e secondo i suoi parametri «innovativi», come retaggio del passato. Attenendosi al vecchio adagio secondo cui tutti i mali deriverebbero dal fatto di non aver applicato le «riforme» con sufficiente decisione e non dal contenuto di quelle «riforme» stesse.
«Tutto è cambiato», declama l’uomo del futuro, «il posto fisso non esiste più» (ce ne eravamo accorti da almeno due decenni), ragion per cui il suo Jobs act, promette di ampliare e stabilizzare il lavoro a tempo indeterminato (e cioè la finzione di un «posto fisso» a certe improbabili condizioni). Serve un chiarimento: se, tendenzialmente, il lavoro standard a tempo indeterminato continuerà inevitabilmente a contrarsi (vuoi per processi connessi all’automazione, vuoi per l’affermarsi di diverse forme di vita, vuoi per obsolescenza storica del lavoro sotto padrone e l’accresciuta autonomia del lavoro vivo) allora la redistribuzione della ricchezza andrebbe ripensata su basi più universalistiche e sganciate dalla specifica condizione lavorativa; se invece «il posto fisso» esiste ancora ed è considerato addirittura la condizione normale e auspicabile, privarlo di diritti e di garanzie sarebbe semplicemente criminale. Almeno se ci si pone dal punto di vista della difesa dei lavoratori e non da quello di chi si giova della loro più estrema ricattabilità, senza dare, neanche a queste condizioni, alcuna garanzia di nuova occupazione.
Nel frattempo si aumenta enormemente la pressione fiscale sui lavoratori autonomi (questi sì davvero nuovi nelle loro grame condizioni di vita) a partire dallo stratosferico reddito di 15.000 euro all’anno. Per un campione del postfordismo di «sinistra», quale si vorrebbe il nostro presidente del consiglio, non c’è male.
Passando in rassegna la più avanzata frontiera dell’immaginazione politica contemporanea troveremo poi il bonus bebè rateizzato, lo sconto penale sul rientro dei capitali «esodati», senza dimenticare gli ateliers nationaux delle Grandi opere, la pro¬messa di 800mila posti di lavoro e altre inaudite «innovazioni» del medesimo tenore. La «luce in fondo al tunnel» è addirittura abbagliante.
Il ritorno innovativo all’antico fu chiamato, in un tempo feroce ma di formidabile fioritura culturale, Rinascimento. In un altro tempo di ritorno delle signo¬rie e delle servitù, delle teste coronate e dei loro privilegi, di spietata repressione di ogni dissenso e conflitto, fu invece battezzato Restaurazione. Questa seconda denominazione sembra purtroppo la più adatta a designare il panorama della crisi e del suo governo che ci circonda.
Marco Bascetta
Dal Manifesto del 31 Ottobre 2014
da Francesco Mandarini | Ott 10, 2014
Matteo Renzi non perde occasione di ripeterlo: se l’Italia vuole rimanere competitiva deve seguire l’esempio della Germania e fare “le riforme” (alla tedesca). Non è ovviamente l’unico a sostenere questa posizione. L’idea che la Germania sia uno dei pochi paesi in Europa ad “avercela fatta”, e che rappresenti dunque un modello per il resto del continente, è un fatto che viene dato per assodato dalla maggior parte dei politici e commentatori, al punto che oggi quel processo di “germanizzazione dell’Europa” (e, nel caso specifico, dell’Italia) in corso viene salutato da molti come un fatto positivo se non addirittura inevitabile. Trattasi però di una pericolosa illusione: il “modello tedesco”, lungi dall’essere una best practice da esportare nel resto d’Europa, rappresenta un serio pericolo non solo per gli altri paesi ma anche per la stessa Germania.
A dirlo non è qualche “gufo” del Sud Europa, ma nientedimeno che Marcel Fratzscher, presidente di uno dei principali istituti di ricerca economica tedeschi, il DIW, in un libro intitolato appunto Die Deutschland-Illusion (“L’illusione tedesca”; a tal proposito si veda anche questo articolo di Vincenzo Comito). Secondo Fratzscher, il mito del modello tedesco si basa su una serie di false illusioni, prima fra tutte l’idea che l’enorme avanzo commerciale accumulato dalla Germania in seguito all’introduzione dell’euro (a fronte di un disavanzo commerciale altrettanto grande nei paesi della periferia) sia da imputare alla maggiore “produttività” ed “efficienza” dell’economia tedesca, a sua volta il risultato della famosa riforma del mercato del lavoro (detta “Hartz”) introdotta da Schröder nel 2003-5 – quella a cui si è ispirato Renzi per il suo “Jobs Act” –, a cui andrebbe il merito di aver ridotto la disoccupazione e rilanciato la crescita nel paese. Questa in sostanza la narrazione autocelebrativa del “miracolo tedesco”, che però ha ben poco a che vedere con la realtà, dice Fratzscher. Tanto per cominciare bisogna sfatare il mito della Germania come “locomotiva d’Europa”: a ben vedere, dal 2000 ad oggi il tasso di crescita del paese è stato un misero 1.1%, ponendo la Germania al 13esimo posto tra i 18 membri dell’eurozona. La riforma Hartz, poi, ha sì diminuito la disoccupazione ma lo ha fatto allargando enormemente il bacino dei lavoratori precari, part-time e sottopagati (alla riforma va il merito di aver introdotto i cosiddetti minijob e midijob), col risultato che il monte ore totale è rimasto praticamente invariato. (Per un’analisi dettagliata dei deleteri effetti sociali della riforma, si veda questo recente studio della fondazione Rosa Luxemburg).
La riforma ha anche e soprattutto avuto l’effetto di “congelare” i salari tedeschi, comprimendo la domanda interna e permettendo al paese di acquisire un vantaggio competitivo rispetto ai suoi partner commerciali europei, che non sono riusciti a imporre le stesse condizioni ai loro lavoratori: è unicamente a questo – ricorda Fratzscher – che va imputato il successo commerciale della Germania, e non a un aumento del tasso di produttività, che è da anni uno dei più bassi del continente (tanto per capirci, in seguito all’introduzione dell’euro, il tasso di produttività greco è cresciuto molto più rapidamente di quello tedesco). E ovviamente il boom delle esportazioni tedesche è stato reso possibile solo dal fatto che gli altri paesi del continente non hanno seguito la stessa politica salariale, ma hanno invece mantenuto un livello di domanda tale da poter assorbire le esportazioni tedesche (accumulando dunque un disavanzo commerciale). Questo è perfettamente normale: all’interno di un’area monetaria, il surplus di certi paesi corrisponde necessariamente al deficit di altri (se io ho un surplus nei tuoi confronti, tu non puoi averlo nei miei). Ma c’è di più: se è vero che l’alto livello della domanda in alcuni di questi paesi era in parte il risultato di bolle speculative (soprattutto nel settore immobiliare) – secondo la lettura moralistica che i tedeschi danno della crisi, il risultato di una naturale tendenza all’eccesso dei paesi periferici, da espiare per mezzo dell’austerità –, è altrettanto vero che il settore finanziario tedesco ha attivamente contributo alla creazione di queste bolle. In sostanza, le banche tedesche hanno preferito reinvestire i profitti delle esportazioni all’estero piuttosto che in Germania, esportando enormi quantità di capitali verso i paesi della periferia, alimentando boom immobiliari in molti di essi (in particolare in Spagna e Irlanda) – e, soprattutto, permettendo ai consumatori di questi paesi di continuare ad importare prodotti tedeschi. È quello che gli americani chiamano vendor-financing: ti vendo qualcosa ma te ne finanzio l’acquisto.
Questa politica – nota Fratzscher – ha rappresentato un problema tanto per i paesi in deficit (le cui economie sono crollate allo scoppio di queste bolle, nel 2008) quanto per la Germania, che infatti da anni registra un tasso di investimento, sia pubblico che privato, tra i più bassi in Europa, a cui è da imputarsi la crescita anemica del tasso di produttività tedesco. Come ha scritto di recente Philippe Legrain, ex assistente economico del presidente della Commissione europea, il caso della Germania dimostra che un avanzo commerciale delle dimensioni di quello tedesco – che ormai ha superato anche quella della Cina – non è il segno di una maggiore “competitività” o “efficienza” del sistema tedesco ma al contrario il sintomo di un’economia profondamente “disfunzionale”, in cui la ricchezza viene progressivamente redistribuita dal lavoro al capitale (e dalle piccole e medie imprese alle grandi imprese esportatrici) e in cui gli investimenti e la domanda interni – fattori determinanti per la crescita della produttività e di una competitività “sana” – vengono sacrificati sull’altare della bilancia commerciale. (Guarda caso nessuno si ispira al “modello cinese”, anch’esso fortemente export-oriented).
Più in generale, lo stato dell’economia europea mette in evidenza quanto sia fallace l’idea che il cosiddetto “modello tedesco” – basata sulla compressione dei salari e della domanda interna al fine di incrementare le esportazioni, perché di questo si tratta, null’altro – possa rappresentare un modello per l’Europa nel suo complesso. Risulta evidente, infatti, che tale modello può funzionare solo se c’è qualcuno che si fa carico di trainare le esportazioni, stimolando la domanda interna. Se tutti i paesi dell’eurozona seguono la stessa politica di deflazione interna (sia sul fronte fiscale che salariale, comprimendo dunque sia la domanda pubblica che quella privata), come stanno facendo da vari anni a questa parte, il risultato è inevitabilmente un crollo della domanda aggregata in tutta l’area monetaria e conseguentemente una diminuzione delle esportazioni dell’eurozona nel suo complesso. Il riequilibrio della bilancia dei pagamenti intra-euro, dovuto a una drammatica riduzione dei deficit commerciali dei paesi della periferia, è infatti imputabile perlopiù al crollo della domanda e dei salari – e dunque all’aggravarsi della recessione – in quei paesi, piuttosto che a un aumento delle esportazioni. In altre parole, il beneficio (limitato) di un incremento delle esportazioni per i paesi della periferia viene completamente azzerato dagli effetti devastanti sull’economia di un’ulteriore riduzione della domanda in un periodo di recessione, accelerando così la spirale deflazionistica, specialmente se prendiamo in considerazione il fatto che le esportazioni rappresentano una percentuale relativamente bassa dell’attività economica di quei paesi (a differenza della Germania).
In questo senso, è lecito domandarsi se lo scopo della riforma del mercato del lavoro su cui sta spingendo il governo sia realmente quello di una semplice “sburocratizzazione” del mercato del lavoro italiano, o se sia piuttosto finalizzata a facilitare quella politica di deflazione salariale che l’asse Berlino-Francoforte-Bruxelles continua ad indicare – in barba a ogni evidenza del contrario – come l’unica via d’uscita dalla crisi per paesi come il nostro (si veda per esempio l’editoriale di qualche giorno fa di Hans-Werner Sinn nel Financial Times, in cui l’influente economista tedesco afferma che “la deflazione non è un pericolo per il Sud Europa ma un presupposto necessario per il recupero della competitività”). Soprattutto se si considera che la moderazione salariale fu l’obiettivo centrale della riforma tedesca a cui si ispira apertamente il nostro Presidente del Consiglio.
A nulla sembra valere il fatto che il volume degli scambi intra-europei ha registrato un crollo vertiginoso negli ultimi quattro anni, a danno anche della Germania (che non a caso ha segnato un tasso di crescita negativo nell’ultimo trimestre). È vero che finora il settore delle esportazioni tedesco è riuscito a riorientarsi verso il mercato extra-europeo, ma è opinione diffusa che di fronte a una stagnazione della domanda a livello globale una politica di questo tipo non è sostenibile nel medio termine neanche per la Germania (che infatti ha visto la sua fetta delle esportazioni globali passare dal 9.1% del 2007 all’8% nel 2013, più o meno la stessa percentuale che registrava ai tempi della riunificazione). E di certo non è immaginabile che tutti i paesi dell’eurozona registrino un avanzo commerciale nei confronti del resto del mondo, in una corsa al ribasso su costi e salari, impossibile da vincere, con paesi come la Cina.
L’Europa e la Germania, concordano Fratzscher e Legrain, hanno una sola speranza per rimanere realmente “competitive” sul mercato globale: rilanciare la domanda interna e gli investimenti (sia pubblici che privati) e puntare su quei settori ad elevato valore aggiunto che sono gli unici che hanno il potenziale di coniugare crescita economica, competitività e sostenibilità ambientale e sociale. Prima che la “malattia tedesca” contagi irreversibilmente il resto del continente.
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da Francesco Mandarini | Set 11, 2014
L’imprevisto si è materializzato nella casamatta del crescente potere renziano, investendo gli «uomini nuovi» che già si preparavano a guidare l’amministrazione di un territorio simbolo della sapienza amministrativa che fu. Un brutto colpo all’immagine di una squadra costruita per mostrare i cavalieri e le dame della tavola rotonda votati al servizio del Paese.
Governo, partito e leadership nazionale sono stati colpiti dall’effetto domino dell’inchiesta sulle «spese pazze» degli amministratori dell’Emilia Romagna. Si vedrà se le accuse dei giudici (che riguardano tutti i gruppi emiliani, generosi in profumi, gioielli, cene e forni a micronde), troveranno riscontri processuali. Intanto però l’evidenza di un malaffare, o quantomeno di un malcostume, che ha già travolto il ventre molle della maggior parte dei consigli regionali, non ha alcun bisogno di conferme.
E a proposito di conferme, ancora una volta (e nonostante il tanto sventolato rinnovamento del partito, frutto di una costante e colpevole costruzione mediatica), quelli saliti sul carro del vincitore reagiscono alla bufera giudiziaria che li riguarda nel modo peggiore. Strillando contro «la giustizia a orologeria». Rinnovando ai politici indagati la fiducia del Pd. Tutto secondo il collaudato stile del «complotto delle toghe» contro i «rappresentanti del popolo». È penoso assistere a questo spettacolo che ormai va in scena da oltre vent’anni, secondo le solite modalità. Ed è penoso vedere che il renzismo, osannato da quasi tutti i media, soffre della stessa fobia anti-giudici.
Eppure lo scontro tra magistrati e politici, che in questo momento tornano a incrociare le spade anche sulla riforma della giustizia, non è certo l’unico terreno comune tra il presidente del consiglio e il suo più forte sostenitore — il pregiudicato — provvisoriamente ai domiciliari e politicamente collocato tra i banchi dell’opposizione.
Sulle riforme istituzionali, come su quelle del mercato del lavoro, la scintilla della profonda sintonia ha avuto modo di accendersi emanando tutta la sua forza incendiaria, durante questi primi sei mesi di renzismo onnivoro. Però molto fumo e poco arrosto. I cantori del nuovo corso plaudono alla ripresa di ruolo della politica contro le odiate burocrazie che «gufano e rosicano», mentre sentiamo dire che non rinnovare i contratti e iniettare massicce dosi di precarietà nelle deboli vene del mercato del lavoro sarebbe la rivoluzione di sinistra e non, purtroppo, la replica (in peggio) dell’agenda Monti. E poi tagli di 20 miliardi alla spesa pubblica e applicazione forzata dei Trattati europei (da ieri sorvegliati dal finlandese Katainen, quello che voleva scambiare i prestiti alla Grecia avendo in pegno il Partenone).
Per farsi un’idea della scena — triste — bastava osservare il teatrino televisivo di Vespa che, insieme a miss Italia, inaugura da vent’anni il rito del rientro dalle vacanze. Non si era mai visto Sallusti, il direttore del giornale di Arcore, alternare sorrisi a sguardi ammirati verso il giovane premier, che ritornava sui soliti refrain («ma se uno si mette a leggere i giornali che dicono che tutto va male…»), che si gongolava («l’altra sera al vertice europeo è venuto fuori il Renzi che è in me…»).
Basterebbe questa battuta per far capire, soprattutto agli elettori del Pd, che sta avvenendo qualcosa di profondamente distorto nella politica e nella cultura del Paese. Ma il primo a capirlo dovrebbe essere lo stesso premier: cambiare a sinistra si può e si deve. Cambiare invece rinnovando il berlusconismo che ha ammalato l’Italia, non si può e non si deve.
Norma Rangeri
Il Manifesto dell’11 Settembre2014
da Francesco Mandarini | Set 5, 2014
Si dice che continui la luna di miele tra il governo e il paese. Renzi se ne vanta, con quella vanità gonfia di vuoto che Musil definiva biblica. Fosse vero, si riproporrebbe un classico problema. Sa questo popolo giudicare? O forse ama essere irriso, deriso, abbindolato? Era meglio persino Monti (ci si passi l’iperbole), il nostro cancellier Morte (parola del Financial Times, che ebbe modo di assimilarlo al rigorista che spianò la strada a Hitler). In pochi mesi Monti rase al suolo la parte più indifesa del paese, ma almeno non vestiva panni altrui. Renzi non fa praticamente altro che infinocchiare il prossimo, con quella sua faccia di bronzo da bambino viziato e prepotente.
Le balle più odiose riguardano ovviamente la riduzione delle tasse (gli 80 euro per i quali si ribloccano i salari del pubblico impiego). Nonché la difesa di ceti medi e lavoro dipendente. In realtà il governo colpisce duro entrambi.
Nei diritti (è vero, l’art. 18 è un simbolo: poi c’è la sostanza, come dimostra questa novità del manager scolastico che arbitrerà le carriere dei colleghi a propria discrezione). Nelle tutele (persino l’Ocse segnala che la «riforma» Poletti esagera con la precarietà). Nei già esangui redditi. Tornano i tagli lineari, vergognosi in sé, e tanto più perché valgono a sostenere l’indifferenza tra bisogni essenziali (la salute, la formazione, la vita stessa) e sprechi veri, a cominciare dalla scandalosa spesa militare. E torna – per la quinta volta – il blocco degli scatti nelle retribuzioni dei dipendenti pubblici. Non una porcheria: un vero e proprio furto.
Hanno lor signori idea di che significhi di questi tempi in Italia per milioni di famiglie, specie al Sud, perdere mille euro l’anno? Certo, per chi ne guadagna quindici¬mila al mese o più, è una bazzecola. Per molti invece è un dramma, come dimostra quel 5% di famiglie (l’anno scorso era appena l’1%) costrette a indebitarsi con banche e finanziarie per comprare libri e corredo scolastico. Anche di quella che continua a chiamarsi scuola dell’obbligo.
Il peggio è la motivazione fornita cinicamente dalla ministra Madia. «Non ci sono risorse». Il che può tradursi in un solo modo: «Per questo governo sono intangibili rendite e patrimoni, pur in larga misura accumulati con l’illegalità» (leggi: elusione ed evasione fiscale).
Ora finalmente chiediamoci: che razza di governo è mai questo? Chiediamocelo senza guardare alle etichette, badando alle cose che fa e progetta, dalla politica economica alle scelte internazionali, dalla controriforma del lavoro a quella della Costituzione.
Chiediamocelo noi. Ma se lo chiedano prima di tutti seriamente sindacati e politici. La Cgil minaccia mobilitazioni in difesa del pubblico impiego. Vedremo. Parte del Pd mugugna e medita di dar battaglia sull’art. 81 della Costituzione. Vedremo. Ma all’una e all’altra suggeriamo di guardarsi finalmente dall’errore che ci ha portati a questo stato.
Non c’è più tempo per traccheggiare. Ne va della loro residua credibilità, ma soprattutto della vita di milioni di persone.
Antonio Burgio
Il Manifesto del 5 settembre 2014