Il partito all’americana, il partito “leggero”, il partito “liquido” si è rivelato una catastrofe. Il Partito democratico, a poco più di un anno dalla sua scesa in campo, ha rischiato di frantumarsi, di sciogliersi come neve al sole. Un amalgama mal riuscito. E’ questa la definizione data da Massimo D’Alema di una formazione politica che era stata presentata come la più grande innovazione della storia dell’Italia repubblicana e forse di quella dell’Europa.
Nella direzione del PD del 19 dicembre il dibattito è stato aspro, per certi versi autentico, ma  non è riuscito ad individuare soluzioni capaci di rappresentare quella svolta necessaria a tranquillizzare un popolo di centrosinistra frastornato e smarrito. La discussione si è conclusa con l’approvazione di un documento che contiene formulazioni generiche a certificare più che una unità  del gruppo dirigente, una tregua tra le diverse correnti. La votazione ha dato un risultato “bulgaro”. Quasi all’unanimità . Il voto nasconde analisi e strategie alternative tra le diverse anime del partito. Si tratta soltanto di un armistizio per gestire una fase tremenda per la neonata creatura. Non c’è soltanto l’emergere di una questione morale che coinvolge amministratori del Pd in tutte le latitudini del Paese. Questione di per sè drammatica per il significato di omologazione di fette consistenti di ceto politico di area centrosinistra alla peggior pratica politica di antica memoria. Bene ha fatto Veltroni a non cadere nella trappola del complottismo, giusto rivendicare l’autonomia della magistratura anche quando sotto accusa sono dirigenti del PD. Utile sarebbe lavorare nello statuto del partito per introdurre incompatibilità  tra incarichi politici e quelli amministrativi o porre vincoli formali al carrierismo politico. La politica va fatta con professionalità  ma non può essere una professione a vita. Ogni tanto è saggio riposarsi o fare politica fuori delle istituzioni pubbliche. Non è il solito conflitto tra vecchio e nuovo ma l’esigenza di formalizzare il principio della politica come servizio, emarginando coloro che si servono della politica per il proprio tornaconto. Ho trovato stupefacente che il sindaco di una città  importante, Pescara, sia anche segretario regionale di un partito, il PD. Al di là  delle indagini, mi sembra paradossale il doppio incarico per l’evidente conflitto d’interessi che esso contiene.
Ciò che Veltroni non ha ancora chiaro è lo scarto tra i problemi dell’Italia e la qualità  del governo locale espresso dal centrosinistra. Per molti decenni l’amministrazione locale è stata il fiore all’occhiello della sinistra riformista o radicale che essa fosse. Le tre “regioni rosse”, i sindaci emiliani o toscani, l’Umbria di Pietro Conti, l’elenco sarebbe lungo da fare, rappresentarono per la sinistra l’orgoglio e la speranza.
Oggi anche a causa della crisi della finanza pubblica, il governo locale è spesso inadeguato e a volte a rimorchio dei potentati locali.
Sostengono in molti, giustamente, che fino a sentenza definitiva nessuno è colpevole e che non dovrebbe essere una comunicazione giudiziaria a costituire motivo per le dimissioni di un amministratore. Credo, ne sono convinto, che il PD sia una formazione politica di gente per bene come dice Veltroni. Ma essere per bene non significa necessariamente fare bene l’amministratore. E molte delle realtà  locali dimostrano in anni recenti che la classe dirigente amministrativa espressione anche del PD è spesso inadeguata e a volte pessima. Esemplare è il caso Campania. Un eletto dal popolo non risponde al partito ma al popolo. Purtroppo i sindaci e i presidenti sono eletti direttamente e per legge hanno il diritto di concludere il mandato. In genere i candidati vengono scelti da un partito e il partito ha il diritto di giudicare autonomamente la qualità  del lavoro del proprio iscritto. Quando necessario è appropriato sollecitare comportamenti dell’amministratore coerenti con l’interesse generale che, ovviamente, è quello di avere buone amministrazioni. Traducendo: Rosa Jervolino o Antonio Bassolino sono fuori dalle indagini per corruzione, ma se è dovuto intervenire il governo centrale a fare il miracolo di togliere la spazzatura a Napoli, le loro amministrazioni hanno dato pessima prova e ne dovrebbero prendere atto. Dimettersi non sarà  obbligatorio, ma opportuno certamente.
La politica per recuperare una qualche credibilità , ha bisogno di scelte innovative che segnalino la presa di coscienza del ceto politico dell’impossibilità  di continuare a comportarsi come se non vi fosse alcuna critica rispetto all’agire politico e al funzionamento delle istituzioni pubbliche. L’indignazione è molto diffusa e il qualunquismo è incrementato anche dai ritardi nel portare avanti le riforme necessarie a far funzionare meglio i servizi della pubblica amministrazione.
Il segretario regionale di Rifondazione sostiene la tesi del complotto del PD e del PDL per riportare a trenta i consiglieri regionali a discapito della rappresentanza delle diverse sensibilità  politiche. Sinceramente non mi sembra una tesi giusta. Il presidente Tippolotti ha ragione quando invita a non fare demagogia sulle indennità  dei consiglieri ma piuttosto prendere atto una volta per tutte che trenta consiglieri, otto assessori e un presidente sono più che sufficienti. Per molti anni l’assemblea è stata di trenta membri, compresi assessori e presidente. Non  mi sembra che la qualità  dei governi regionali di allora fosse inferiore a quella di adesso, ma potrei sbagliare.
Il consiglio regionale dell’Umbria, come tutte le assemblee, con il presidenzialismo ha perso di ruolo. Non c’è una grande mole di lavoro da svolgere. Nell’anno corrente sono state approvate 21 leggi, il 17% in meno del 2007. Basta passare per Palazzo Cesaroni per constatare che l’attività  essenziale sono i dibattiti sulle mozioni o sulle interrogazioni. Il problema della rappresentanza è un problema vero, da non sottovalutare. Ma ciò non può che essere risolto con l’impegno dei partiti più deboli a rafforzare il loro rapporto con il popolo e magari introdurre una profonda innovazione anche nei propri gruppi dirigenti.

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