Che sindaci e presidenti di regioni hanno aperto un contenzioso
con il governo Prodi non deve provocare meraviglia. Sarebbe stato
grave il contrario. Se, in nome di un interesse di coalizione, gli
amministratori locali non avessero richiesto al governo centrale
una riflessione ulteriore rispetto alle scelte fatte nella
finanziaria per tutto ciò che riguarda la spesa pubblica locale
sarebbero stati pessimi amministratori.
La protesta c’è stata anche durante il governo Berlusconi e fanno
bene sindaci e presidenti a difendere gli interessi dei propri
amministrati. Scaricare in periferia i costi sociali prodotti da
minori trasferimenti di risorse, è pratica antica di molti governi
centrali. Padoa Schioppa non ha inventato niente. Il non aver
contrattato con Bruxelles un rientro più morbido nei parametri di
bilancio europei è stato un grave errore. Un errore che ha
prodotto quelle che Mao Tse-dun avrebbe chiamato “le
contraddizioni nel popolo”. Nel nostro caso si tratta di
contraddizioni all’interno della classe dirigente del centro
sinistra. Una classe dirigente litigiosa per vizio antico e poco
incline alla solidarietà  se non quando si tratta di difendere la
propria collocazione all’interno di organigrammi di valenza
storica.
La finanziaria per il 2007 a detta di Prodi produce un inversione
di tendenza nella distribuzione del reddito in Italia dopo anni di
spostamento di ricchezza dai ceti poveri a quelli ricchi. Al
riguardo i pareri sono diversi. E se Rifondazione ed Epifani per
la CGIL dicono di sì, altri, anche a sinistra, sostengono il
contrario. La rimodulazione delle fasce dell’IRPEF non è tale da
spostare in maniera significativa la distribuzione della ricchezza
nazionale. E’ noto che una parte significativa dei redditi sfugge,
attraverso l’evasione fiscale, ad ogni tipo di tassazione. D’altra
parte, se, ad esempio, un operaio avrà  un vantaggio fiscale di 200
euro l’anno, rischia di dover pagare molto di più i servizi
erogati dai comuni attraverso municipalizzate o aziende miste
locali. L’alzata di scudi dei sindaci va letta anche in questa
chiave.
La drammaticità  della situazione dei conti pubblici italiani nasce
da un debito pubblico enorme, ma si enfatizza quando si analizza
la qualità  della spesa. Non considerando il costo del debito,
l’ammontare della spesa pubblica italiana non è dissimile da
quella degli altri Paesi europei. Ad esempio, la spesa sanitaria
incide nel PIL in una percentuale (sei per cento) decisamente più
bassa che in Germania o in Francia. E in tutta onestà  nessuno può
negare che la qualità  dell’intervento pubblico non è imputabile
soltanto all’amministrazione centrale. Da questo punto di vista,
sindaci e presidenti di regione qualche problema lo hanno.
L’efficacia della spesa, il rapporto costo-benefici, non è il
massimo in nessuna amministrazione centrale, regionale e comunale.
Ci sarebbe un lavoro da fare e impegni da prendere da parte del
ceto dirigente politico amministrativo anche locale. L’enfasi di
tanti leader sull’esigenza di innovazione si è tradotta in una
morta gora in cui alle vecchie inefficienze se ne aggiungono altre
in modo sistematico. La favoletta della “regione leggera” si è
trasformata, nell’ultimo decennio, in un appesantimento deciso
dell’apparato pubblico regionale e sub-regionale.
L’onorevole Bocci, segretario regionale della Margherita, in una
recente intervista, ha detto con chiarezza che sono finiti i tempi
dei rinvii per ciò che riguarda la riforma della struttura degli
enti regionali. Bene, siamo tutti in attesa di vedere come si
riformano comunità  montane, finanziarie regionali, aziende
sanitarie e via, via elencando enti e collocazioni personali.
Sulla rapidità  dell’operazione invocata da Bocci, qualche dubbio è
legittimo. La tendenza alla precarizzazione del lavoro non è
ancora transitata nella professione politica. Tutto il lavoro è
diventato flessibile meno quello di coloro che si sacrificano per
amministrare i beni pubblici. Riformare, accorpare, rimuovere
entità  consolidate non sarà  indolore e non esistono più le
capacità  di mediazione di partiti capaci di riportare gli
interessi dei singoli all’interno di un interesse generale che, in
questo caso, è quello di riqualificare la presenza pubblica nella
nostra comunità . E’ convinzione comune che per la classe dirigente
politica al potere in Umbria le vacanze sono finite. Berlusconi è
in ribasso. Senza una decisa accelerazione dei processi di riforma
della macchina pubblica il cemento politico e sociale che ha
consentito, a sinistra e centrosinistra, di governare l’Umbria per
tanti decenni non reggerà . Molti sostengono che la carenza di
risorse finanziare obbliga a scelte che se non compiute
determineranno una crisi dagli esiti incontrollabili. Esagerano?
Prevarrà  ancora per anni quella sorta di tradizionalismo di massa
che ha consentito al ceto politico di perpetuarsi in ogni
stagione? Chi vivrà  vedrà .
Per intanto c’è da registrare la convention di Orvieto. “Per il
partito democratico” è titolata. Tutti i leader dell’Ulivo sono
presenti e nelle tre relazioni introduttive si è cercato di dare
una qualche forma al progetto di unificazione in un solo partito
di DS e Margherita. Per iniziare. Costruire una nuova formazione
politica attraverso fusione di corpi politici preesistenti non è
cosa semplice e non sempre l’elettorato apprezza. Famoso fu il
flop dell’unificazione socialista negli anni ’60. Sui lavori di
Orvieto una sola osservazione. Definirsi democratici costituisce
un’identità  così forte da ampliare i consensi elettorali? C’è
qualcuno in Italia che non si dichiara democratico a prescindere?
Certo anche chiamarsi Margherita per un partito non è esaltante,
ma pur apprezzando lo sforzo di mettere insieme tutti i
riformisti, sembrerebbe utile dare maggiore sostanza sia al
riformismo che alla parola democrazia. Quella che viviamo da tanti
anni è una democrazia annichilita dalla leaderite acuta e dal
consolidarsi di partiti che non sono altro che comitati
elettorali. E’ il caso di invertire questa orrida tendenza.
Corriere dell’Umbria 8 ottobre 2006

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