Sono sempre stato convinto che la riforma regionale del 1970 sia stata una delle tante riforme mancate. Occorrerebbe un saggio per approfondire l’argomento, ma già  tanti studiosi hanno dimostrato quanto detto sopra. Basta ricordare come i nuovi enti nacquero completamente squilibrati nelle risorse e nelle competenze. Quando un bilancio è formato da una spesa vincolata per oltre il settanta percento per l’assistenza e la sanità , non poteva che essere difficile organizzare una comunità . Le regioni rischiavano di essere soltanto una grande ASL. Avvenne che alcuni dei presidenti di quella stagione Bassetti, Fanti, Lagorio e Pietro Conti, assieme a consigli e giunte adeguati, utilizzarono ogni spazio politico per migliorare la mediocre riforma. Riuscirono a strappare, attraverso una dura battaglia politica dentro i partiti di allora, competenze aggiuntive. Successivamente, per le regioni che furono capaci di progettare con intelligenza, la sponda delle risorse della comunità  europea consentì una creatività  amministrativa e una programmazione regionale che in molte parti del Paese, compresa l’Umbria, è stata per lungo tempo efficace. Per molte ragioni l’attività  legislativa regionale non è stata di grande qualità : il potere legislativo vero era rimasto a Roma. Comunque il ceto politico decentrato andava via, via assumendo rilievo e importanza. I leader romani avevano bisogno dell’appoggio dei vari “feudatari” regionali. Il nuovo che avanzava richiedeva anche la formazione di un ceto politico organizzato in team di vassalli e valvassori legati al territorio. Inseguendo il federalismo alla padana, il centrosinistra al termine di una legislatura travagliata, nel 2001, fece approvare la riforma del Titolo Quinto della Costituzione con una maggioranza di due voti. Una boiata pazzesca direbbe Fantozzi, non solo perchè nella riforma costituzionale è prevista l’elezione diretta del presidente della giunta, argomento almeno controverso in una repubblica che rimane parlamentare e non presidenzialista, ma a prescindere da questo non secondario problema si prevede un livello di autonomia dell’ente, esorbitante. Soltanto essendo responsabili sia delle spese sia delle entrate si può essere autonomi nell’interesse generale. Dovrebbero essere chiare le competenze regionali rispetto allo Stato e agli altri organi pubblici locali e/o nazionali. E’ così in tutte le nazioni a struttura federale. In Italia, essendo quella regionale una finanza derivata, l’amministratore può esclusivamente scegliere come spendere una parte, secondaria, del bilancio annuale e trattare con il governo centrale il trasferimento dei fondi con forme di controllo “a posteriori” che fino a poche settimane fa non hanno dato risultati apprezzabili. Scomparso il commissario di governo che controllava con durezza ogni delibera di giunta, soltanto la Corte dei Conti a cose fatte è chiamata a un controllo della spesa. Qualche perplessità  viene naturale di fronte a quanto sta emergendo in tante regioni italiane. Mettendo da parte, e non è facile, le cialtronerie e le ruberie legalizzate di tanti consiglieri di ogni latitudine, viene spontaneo il dubbio che pochi in questi anni hanno analizzato il funzionamento “normale” delle regioni dopo la geniale riforma della Costituzione. Con lo scudo dell’autonomia statutaria, in molte regioni si è andati all’assalto della diligenza della spesa pubblica. Vertiginoso è stato l’aumento di chi vive con un qualche incarico politico. C’è un problema? Un’emergenza? Si costituisce un ente, con conseguente consiglio di amministrazione e presidente ben pagato. Giunte pletoriche e nonostante lo svuotamento dei poteri delle assemblee, consigli regionali elefantiaci. Queste le costanti dell’attività  regionale in molte aree del Paese. Perchè è esplosa negli anni l’ipertrofia del costo per il funzionamento della politica? Non sarà  la conseguenza della personalizzazione della politica stessa? Leader, leaderini e mezze tacche hanno bisogno di manifesti, di spot televisivi, di cene conviviali per assicurarsi il consenso per un seggio, un seggiolino, uno strapuntino nella struttura pubblica. Non in tutte le regioni è andata così, per fortuna. Ci sono aree in cui i bilanci sono in ordine e le comunità  sono civilmente amministrate da un ceto politico di livello apprezzabile. In certi casi, indennità  e benefit di presidenti o consiglieri non dovrebbero suscitare scandalo, ma l’ondata iniziata nel Lazio della Polverini sta provocando un’indignazione popolare che tende a coinvolgere tutto e tutti. La destra politica utilizza la tesi di craxiana memoria del “siamo tutti uguali”. Il centrosinistra deve rispondere del proprio silenzio rispetto a quanto succedeva da anni in alcune regioni. Anche tra il ceto politico di centrosinistra non mancano episodi di sgradevole boria e arroganza di tanti addetti ai lavori. Le carriere infinite non sono un’esclusiva dei berluscones e la sobrietà  non sembra a molti una qualità  ma il retaggio di un agire politico troppo antico. Che la conferenza dei presidenti di regione chieda al governo centrale d’intervenire con decreto per eliminare sprechi e disparità  provocate dalle scelte dei consigli e delle giunte regionali, è paradossale ma comprensibile. Non tutte le regioni sono in grado di autoriformarsi e in uno stato d’eccezione come l’attuale l’intervento del governo dei tecnici appare l’unica salvezza. Lo stato d’eccezione sarà  la nostra condizione per lungo tempo? Sembrerebbe di sì. La disponibilità  di Mario Monti a una conferma nell’incarico anche dopo le prossime elezioni ha scompaginato i programmi delle forze politiche. Paradossalmente è quel che resta del PDL che potrebbe trarre vantaggio dalla scelta montiana. Partito in liquidazione coatta potrà  sempre propagandare che al governo rimarrà  un liberista di provata fede che non ha mai rimproverato al Cavaliere le sue scadenti performance governative.
Corriere dell’Umbria 30 settembre 2012

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