Nel solo mese di novembre la disoccupazione negli Stati Uniti è aumentata di 533 mila unità . In pochi  mesi sono stati perduti oltre  due milioni di posti di lavoro. La crisi dell’industria automobilistica rischia di produrre, tra diretti e indiretti, oltre tre milioni di disoccupati. Lo Stato della California, ottava potenza economica del mondo, ha annunciato la bancarotta se non ci sarà  un intervento del governo federale. Il grande crack del liberismo comincia a preoccupare anche G.W.Bush. Il commander in chief si è accorto soltanto adesso che il suo Paese è in recessione. Il bilancio complessivo dell’amico americano del nostro Capo è disastroso per l’America e per il mondo. Il presidente eletto Obama dovrà  rimanere in panchina. Fino al 20 di gennaio del prossimo anno, giorno del giuramento, continua a decidere Bush. Fino ad oggi, non sembrano esserci ricette per invertire la tendenza negativa ma tutti riconoscono che la crisi è globale e muterà  nel profondo il modo di essere delle società . Il modello di sviluppo del meno Stato e più mercato è catastroficamente fallito nel suo luogo di eccellenza, gli Stati Uniti, travolgendo l’intero pianeta. E’ certo che la vita di milioni di persone rischia di avere un peggioramento radicale se non si afferma un diverso modo di produrre e consumare.
Berlusconi ha ragione quando sollecita uno scatto di ottimismo del Paese. Purtroppo l’ottimismo diviene merce rara quando il concreto agire del governo da Lui guidato rischia la schizofrenia.
Come si può essere ottimisti quando l’ottimo ministro Sacconi paventa il rischio “Argentina” e cioè il fallimento dello Stato, mentre Tremonti teme che la prossima asta dei titoli di Stato vada deserta?
Problematica la fiducia quando le scelte contenute nella Finanziaria in discussione in Parlamento non sembrano avere una visione complessiva dei problemi ma solo quella dei tagli indiscriminati nei settori dei consumi collettivi. L’esangue stato sociale italiano rischia un ulteriore indebolimento. Ad esempio, in Giappone la crisi è gravissima, ma il governo sceglie di investire di più in ricerca. In Italia le risorse per la ricerca, già  misere, vengono ulteriormente tagliate. E’ bastata la minaccia della organizzazione di una protesta della Conferenza Episcopale, perchè il governo, miracolosamente, trovasse 120 milioni di Euro per le scuole private. Per capirci: per tutti i progetti di ricerca d’interesse nazionale delle università  italiane sono previste risorse per 85 mila Euro. Con tutto il rispetto della libertà  d’insegnamento, che secondo la Costituzione non dovrebbe costituire oneri per lo Stato, per il futuro del Paese sembrerebbe più decisivo investire in ricerca lasciando a chi vuole, l’onere conseguente la preferenza della formazione dei propri figli nelle scuole private. Come si può chiedere uno sforzo collettivo per affrontare la crisi quando tutto il mondo della scuola continua a manifestare da mesi contro le scelte del governo di tagliare le risorse della scuola pubblica per ragioni di bilancio e contemporaneamente Tremonti trova quattrini per la scuola privata? Come credere al rigore nelle scelte di bilancio di Tremonti quando si addossano allo Stato gli oneri derivanti dalla vicenda Alitalia assicurando ai “patrioti” della CAI la parte attiva della compagnia di bandiera?
Addossare al governo Berlusconi la responsabilità  della crisi sarebbe sciocco. Sbagliato non vedere anche le possibilità  per l’Italia di affrontare positivamente la mareggiata nata negli Stati Uniti facendo leva sugli aspetti positivi della società  italiana. Per farlo bisogna cambiare le priorità  e rifondare il modello economico e culturale che ha contraddistinto l’Italia.
La sfida per la destra al governo e per il centrosinistra all’opposizione a Roma, ma al governo in tanta parte del governo locale, è quella di rispondere al panico che si sta diffondendo tra la gente con una forte capacità  innovativa nelle politiche dell’intervento pubblico. Ciò riguarda Roma ma anche Napoli o Firenze. Riguarda anche l’Umbria.
Il centrosinistra è al potere di gran parte del governo locale da molti decenni. Sui risultati complessivi di questa esperienza si possono riscontrare pareri diversi e contrastanti, non solo tra le forze politiche. Personalmente ritengo che l’uscita dal sottosviluppo degli anni cinquanta è stata possibile anche per l’azione di tanti amministratori locali e regionali. Soltanto un dato. Il tasso di emigrazione dell’Umbria del dopoguerra non era dissimile da quello della Calabria. Soltanto nel 1972 la popolazione della nostra regione tornò al livello del 1952.
Basta rileggere la storia economica di quegli anni e sarà  evidente come il lavoro che si è fatto in Umbria ha dato risultati positivi che non vi sono stati in altre regioni. Discutere del passato è certamente utile anche per affrontare il futuro. Una società  che vive in un eterno presente non va da nessuna parte. Essenziale è capire che la crisi del mondo inciderà  profondamente anche dalle nostre parti. Responsabilità  primaria delle classi dirigenti è attrezzarsi per gestire una fase che sarà  molto difficile. Già  oggi settori decisivi dell’industria umbra sono in difficoltà  seria. Anche i punti di eccellenza dello sviluppo si trovano a combattere con la crisi del credito e delle commesse. Le risorse disponibili per mantenere servizi pubblici adeguati tenderanno a diminuire in maniera significativa e il federalismo fiscale che si prefigura, difficilmente ci favorirà . Urgente è un cambio di passo di tutta la classe dirigente, anche di quella politica. Non sarà  facile. La fragilità  dei partiti deriva anche dalla personalizzazione della politica degli ultimi anni. Essenziale è un rinnovamento che non riguarda tanto gli uomini e le donne della politica, ma il modo come questi si rapportano con la gente che politica non fa, ma spesso la subisce. Il potere di casta piace sempre meno.

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