Nella prima repubblica c’erano i “signori delle tessere”.  Oggi vengono chiamati cacicchi, capi bastone o più elegantemente capi feudo. La sostanza è che la scomparsa dei partiti di massa ha lasciato in campo formazioni politiche frantumate nei territori e  sostanzialmente condizionate da leader locali che rispondono a questo o quel dirigente nazionale e quasi mai all’interesse generale di avere amministratori capaci ed eticamente affidabili. La catastrofe degli ultimi mesi non riguarda soltanto l’economia. Riguarda in Italia anche l’emergere nel centrosinistra, PD e sinistra, di un processo di deterioramento accelerato di un ceto amministrativo al potere da molti lustri in Regioni, comuni e province. Ormai sono quattro le regioni commissariate dal segretario del partito democratico. Alcune per ragioni di indagini giudiziarie, Abruzzo e Campania, due per ragioni più politiche, Sardegna e Toscana. Gli episodi sono noti e mi sembra saggio che il PD non gridi al complotto della magistratura ma cerchi di risolvere con rigore le questioni. Purtroppo non sempre sembra in grado di farlo. Che l’inquisito sindaco di Pescara utilizzi un cavillo legale per non dimettersi a me sembra una sconfitta per il partito democratico e per il centrosinistra. Che la sindaca di Napoli, persona sicuramente per molti versi apprezzabile, si senta legittimata a registrare un colloquio con dirigenti del partito napoletano, appare raccapricciante. Che il sindaco di Firenze ritenga opportuno incatenarsi di fronte alla sede di Repubblica, appare come una “grillata” senza senso. E questo al di là  di un giudizio negativo sulla campagna scandalistica che il giornale in questione ha svolto contro l’amministrazione fiorentina. Siamo stati rassicurati giovedì che il Sindaco di Firenze non lascerà  la politica come minacciato mercoledì, ma si sacrificherà  con un posto da parlamentare nel Parlamento Europeo. Se non si analizzano i motivi oggettivi che hanno portato alla feudalizzazione della politica si può rivendicare quanto si vuole l’unità  e la solidarietà  di partito come fa Veltroni ma si perpetuerà  una società  feudale che in assenza del Principe sarà  segnata da lotte tra le diverse Signorie e da tanti capitani di ventura.
L’intreccio tra affari e politica non è una novità  di questi anni e non è peculiarità  italiana. Caratteristica del nostro Paese è l’ampiezza del fenomeno e l’incidenza del potere economico su quello politico. Questo ultima specificità  riguarda anche amministrazioni in cui non esiste affatto un problema etico. E sono certo che sono la stragrande maggioranza delle amministrazioni locali. Ma la fragilità  della politica è causa del condizionamento delle scelte dell’interesse economico sui programmi e i progetti pubblici. A  volte le esigenze dell’imprenditoria entrano in conflitto con l’interesse generale, ad esempio, quando si tratta della salvaguardia dei beni pubblici come il territorio e l’ambiente. Troppo spesso le scelte amministrative non riescono a mediare tra i due interessi.
E ciò, ripeto, al di là  della corruzione e del rispetto formale della legislazione concernente gli appalti pubblici.
La tesi che lo sviluppo economico deve essere perseguito ad ogni costo è ormai una tesi sbagliata che tra l’altro produce una distorsione grave all’agire politico. L’enormità  del crack economico può essere l’occasione per riprogettare uno sviluppo diverso da quello che si è avuto negli ultimi decenni.
Il presidente eletto Barack Obama in un discorso in Virginia ha detto con nettezza che la sua amministrazione avrà  come priorità  l’esigenza di creare tre milioni di nuovi posti di lavoro privilegiando gli investimenti sull’innovazione nelle produzioni energetiche e costruendo un sistema sanitario pubblico che vada oltre la vergogna di avere 50 milioni di americani senza alcuna assistenza pur spendendo più del doppio di quello che spendono i sistemi sanitari europei. Il piano di Obama impegnerà  il 5 per cento del Prodotto interno lordo e prevede anche tagli alle tasse per i ceti meno abbienti. Esattamente il contrario di ciò che hanno fatto per decenni i repubblicani che con perseveranza hanno reso i ricchi più ricchi e i poveri più poveri rovinando con la loro politica classista gli Stati Uniti. Barack Obama non c’è andato leggero nella denuncia delle responsabilità  del disastro quando ha detto:”Siamo arrivati a questo punto a causa dell’era di profonda irresponsabilità  che ha spaziato dai saloni dei consigli di amministrazione alle sale del potere di Washington”.
Anche nel nostro Paese abbiamo vissuto un’era di profonda irresponsabilità  delle classi dirigenti?  Credo proprio che la risposta debba essere affermativa. Siamo stati irresponsabili nelle politiche economiche e fiscali, lo siamo stati anche nelle politiche istituzionali. Ogni anni si annunciano riforme istituzionali e alcune se ne sono fatte. Pessime quasi sempre perchè mai inserite in un quadro generale coerente con il dettato costituzionale e con l’esigenza di rendere più efficace l’intervento pubblico. Ad esempio, non esiste Paese al mondo in cui vi siano tanti sistemi elettorali come in Italia, venticinque per l’esattezza. Si prevede l’elezione diretta del sindaco o del presidente di regione senza porsi il problema del ruolo e del funzionamento delle assemblee. Così procedendo si creano tanti piccoli Cesari intoccabili e tante strutture inutili come sono le assemblee prive di qualsiasi potere amministrativo. Nella democrazia americana che tanto affascina le classi dirigenti italiane il presidente risponde al Congresso. Un presidente di regione in Italia non risponde a nessuno perchè se messo in minoranza, ha il potere di far sciogliere il consiglio regionale. E i consiglieri in genere sono molto affezionati al loro ruolo. Non è ridicolo?
Si preannuncia il federalismo fiscale senza far di conto rispetto all’esigenza di riqualificazione della spesa pubblica e della semplificazione della struttura pubblica. L’improvvisazione, unita alla mancanza di sensibilità  costituzionale, non può che produrre la decadenza della democrazia.

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