Bersani ha vinto il congresso del PD. O meglio ha preso il 55% dei voti degli iscritti ma diventerà  segretario soltanto se alle primarie del 25 ottobre riuscirà  a confermare il risultato. Se invece, in quella circostanza, dovesse avere più voti Franceschini si verificherebbe una situazione molto complessa: gli iscritti scelgono Bersani, gli elettori Franceschini. Come si fa a dirigere un partito in questa situazione? Non essendoci alcun vincolo di iscrizione ad un ipotetico registro degli elettori del PD, basta essere un elettore e pagare 2 Euro per votare, alle urne può andare chiunque e tutto può succedere. Il 25 ottobre potrebbe anche accadere che Pinco prende il 41% dei voti, Caio il 30% e Tizio il 29%. Che succede in questo caso? Il PD avrebbe un segretario di minoranza o si ricomincia il gioco dell’oca?
Bersani ha detto che, se diventerà  segretario, cercherà  di far modificare la legge elettorale. Sostiene che un Paese che elegge il segretario di un partito attraverso le primarie non può funzionare se gli elettori non possono nemmeno scegliere i propri parlamentari. Bene. Bravo. Consiglierei a Bersani di verificare, a livello delle singole regioni, quello che stanno combinando i suoi compagni di partito nelle modifiche alle leggi elettorali delle regioni. Potrebbe scoprire che i rappresentanti riformisti nelle assemblee regionali si muovono in tutt’altra direzione da quella auspicata dal segretario in pectore. Per un minimo di coerenza, almeno sui sistemi elettorali, sarebbe auspicabile lo stesso orientamento tra Roma e la periferia. Forse è tempo per il PD di riconsiderare quanto è successo nel recente passato attorno alle tematiche istituzionali, magari correggendo le assurdità  compiute in questo campo. L’elenco delle balordaggini sarebbe lungo. Un esempio?
E’ storicamente accertato che l’idea delle liste bloccate, che escludono la preferenza, non è stata partorita nella testa di qualche scienziato della destra berlusconiana, ma è nata nella civilissima terra di Toscana amministrata da sempre dal centrosinistra. In quella istituzione, i consiglieri regionali non vengono eletti, ma nominati dai partiti. Il governo Berlusconi non ha fatto altro che copiare la legge elettorale della Regione Toscana adattandola alle elezioni politiche del 2006. Si può affermare che la “la porcata” di Calderoli è figlia legittima di quanto fatto per formare il consiglio regionale toscano? Credo proprio di sì. La verità  è sempre rivoluzionaria e aiuta magari a correggere gli errori.
In Umbria la preferenza nell’attuale legge elettorale è prevista, ma attraverso il meccanismo del listino alcuni divengono consiglieri regionali senza alcun consenso elettorale, basta essere nel listino e, oplà , è fatta. A quanto sembra l’orientamento prevalente, tra le forze politiche del consiglio regionale, sarebbe quella di mantenere il listino anche nella nuova legge elettorale. Dicono che per fare quadrare il cerchio si potrebbe prevedere anche l’automatica elezione per i capi lista. Così i “nominati” in consiglio dai partiti aumenterebbero.
Sono certo chiacchiere malevole frutto di cattiva informazione. Saremo chiamati ancora una volta a votare per uno schieramento e il nostro voto servirà  anche a far entrare nell’assemblea di Palazzo Cesaroni il miracolato o la miracolata del partito?
La discussione in Umbria sulle modifiche alla normativa elettorale è molto aspra. Gianluca Rossi, capogruppo del Partito Democratico in consiglio, ha risposto con durezza alle dichiarazioni di Leoluca Orlando dell’Italia dei Valori. Rossi sostiene giustamente che le regole del gioco devono essere concordate con l’opposizione. Nel metodo ha ragione Rossi, rimane il merito e nel merito le questioni sono più complesse. Ad esempio, in vigore il presidenzialismo anche in Umbria, non ha alcun senso rivendicare ampi premi di maggioranza in nome della governabilità . Non esistono altri sistemi elettorali in Europa in cui questo premio esiste. Sarebbe comunque scorretto in presenza di soglie di sbarramento da superare per ottenere consiglieri. Più che della governabilità  la questione che ci si deve porre è quella della rappresentanza dell’assemblea regionale. L’intollerabile frantumazione delle forze politiche non può portare ad un modello di bipartitismo. Una semplificazione estrema del sistema politico non funzionerebbe. Che la sinistra, anche per sua responsabilità , non sia presente in Parlamento ha reso più fragile la democrazia repubblicana.
Una democrazia che si va trasformando, si è già  trasformata per molti aspetti. E il mutamento non ha affatto migliorato il rapporto tra il cittadino e le istituzioni. Siamo tutti diventati spettatori di un reality show in cui ciò che è vero o falso viene determinato dallo spettacolo televisivo. La demagogia e il peronismo d’accatto non sono patrimonio esclusivo del cavaliere di Arcore. Certo Lui ha raggiunto livelli ormai intollerabili ma le sparate dell’onorevole Di Pietro contro il presidente della Repubblica sono l’altra faccia della medaglia. Di una pessima medaglia.
I danni prodotti in questi mesi dall’afasia del PD sono evidenti. La coscienza che senza un PD seriamente impegnato nella costruzione di un’alternativa al berlusconismo non si va da nessuna parte è diffusa anche in forze che non votano questo partito. Questa consapevolezza dovrebbe impegnare i suoi dirigenti ad ogni livello a recuperare un rapporto con il popolo che si è molto infiacchito per responsabilità  collettiva. Si tratta di un lavoro di lunga lena che potrà  iniziare soltanto quando si uscirà  da una “guerra civile” da cui tutti usciranno più deboli.
Il PD ha la responsabilità  primaria di ricostruire un tessuto unitario nel centrosinistra. Forzature dettate da interessi di gruppo o di partito sulle modifiche alla legge elettorale allontanano ogni prospettiva di unità  innovata. Si potrà  anche fare un accordo per gestire l’Ente Regione per altri cinque anni, ma non si riuscirà  ad andare oltre ad una spartizione di potere che interessa chi vive di politica e non altri.

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