Riconosciuti maestri nell’arte della commedia, sia cinematografica che teatrale, gli italiani stanno vivendo in una sorta di tragicommedia che non promette niente di buono per il futuro dell’Italia.
Oggi il Capo della Lega parlerà  a Pontida e gli analisti politici si aspettano un altro penultimato di Bossi. Che dirà  Bossi? Niente di non conosciuto e ripetuto da anni ossessivamente e sistematicamente smentito il giorno dopo. Referendum e voto amministrativo hanno dimostrato che la granitica alleanza Lega PDL fa acqua da tutte le parti. L’onda padana si è trasformata in una risacca. Pontida non segnerà  i destini del Paese.
Più decisivo è ciò che ci ha comunicato sabato scorso l’agenzia di rating più importante al mondo: Moody’s. L’Italia rischia il declassamento del proprio rating: debito pubblico enorme; crescita insignificante; produttività  insufficiente. Moody’s certifica il fallimento della politica economica del governo Berlusconi. O No?
Essere declassati significa pagare di più gli interessi sul nostro debito e ciò comporta l’esigenza di trovare nuove risorse per rimunerare l’emissione dei nostri titoli sovrani. La speculazione finanziaria sta affilando le armi per colpire.
Il professor Prodi, che di queste cose se ne intende, sostiene che la manovra correttiva dei conti pubblici nei prossimi tre anni dovrà  essere di 60 miliardi di Euro. Draghi ritiene che se si parte subito, da ottobre prossimo, la manovra potrà  essere più leggera, ma l’impegno sarà  comunque di forte impatto economico e sociale. In mancanza di provvedimenti tesi ad innestare una nuova crescita del prodotto interno si dovrà  incidere soltanto sui servizi al cittadino e sui salari, stipendi e pensioni.
Di fronte a questo scenario, che cosa hanno in testa i mitici partecipanti al Governo del fare? Tralasciando le eleganti elaborazioni del ministro Brunetta, gli altri ministri sembrano figuranti in uno spettacolo dove i protagonisti sono altri.
La pressione di Berlusconi per obbligare Tremonti ad allargare i cordoni della borsa non sembra ottenere i risultati sperati. La spesa pubblica non può aumentare, le tasse non possono essere ridotte se non all’interno di una riforma che sia capace di allargare la platea contributiva. Per farlo ci vuole tempo e la volontà  politica di aggregare interessi diversi da quelli che hanno dominato il Paese nel ventennio berlusconiano. Una maggioranza parlamentare che non rispecchia più gli interessi e le idealità  prevalenti nel Paese, non è in grado di andare oltre al galleggiamento nell’autoconservazione.
Sostenere che i risultati dei referendum e delle amministrative non avranno conseguenze politiche è una mistificazione. Tra maggio e giugno è venuto in evidenza che anche in Italia è implosa l’ideologia liberista. Essa ha segnato una lunga fase della storia del mondo producendo il disastro che assilla tanta parte del popolo a tutte le latitudini e di tutti i ceti. Le nuove povertà  coinvolgono ormai gruppi sociali un tempo sicuri del loro futuro. Per la cecità  e l’egoismo delle classi dirigenti del Paese, almeno a due generazioni è stato assicurato soltanto un futuro di precarietà  o di emigrazione.
I mille movimenti che hanno per un anno riempito le piazze italiane per richiedere un nuovo modo di intendere l’interesse pubblico e le priorità  del Paese, hanno trovato nei quesiti referendari il modo di esprimere la volontà  di riconquistare la politica come strumento di cambiamento della società . Protagonisti fondamentali sono stati i giovani e le donne.
Il messaggio è stato netto: un’altra politica è possibile rispetto a quella che ci hanno propinato per così tanti anni le caste di ogni settore e coloro che vivono da decenni di politica. Sbaglierebbe il centrosinistra se pensasse che il segnale riguardi soltanto la destra politica. Il berlusconismo ha intriso anche molti di coloro che in nome della modernità  hanno considerato i beni pubblici come un patrimonio da svendere in un mercato truccato e che hanno inteso l’agire politico come la carriera per una vita di privilegi. Come è stato per altre tornate referendarie, anche questa volta il voto apre una nuova stagione per la politica. Tornare agli avanspettacoli vissuti per decenni nei salottini dei talk show sarebbe un suicidio per la democrazia italiana. Pensare ai risultati del referendum come ad un episodio da archiviare per tornare agli schemi della politica corrente non sarà  possibile. I partiti devono rifondarsi avendo ben chiaro che il rifiuto delle oligarchie non è contro la politica ma contro una politica personalizzata e piegata agli interessi dei singoli. Deleghe in bianco non sono più possibili e la partecipazione dei cittadini o degli iscritti al partito non è quella che si esaurisce in un seggio elettorale.
Anche per i movimenti che hanno costruito il successo di giugno si pone il problema di come costruire un assetto democratico complessivo. In questo assetto dovranno svolgere un ruolo anche i partiti. Diversi certo, ma la democrazia necessità  anche di formazioni politiche costruite attorno a valori, progetti e comportamenti trasparenti come collant per un governo della cosa pubblica esercitato nell’interesse generale. I quesiti votati in maniera plebiscitaria ci indicano la strada di come ripensare questo interesse. Il libero mercato non è la soluzione per gestire nell’interesse di tutti beni pubblici come l’acqua o l’ambiente. Il vincolo dell’uguaglianza di fronte alla legge non è un vincolo risolvibile da un voto del Parlamento.
La crisi del governo della destra potrà  trascinarsi e ciò a prezzi altissimi per la saldezza del Paese. Responsabilità  enormi spettano alle forze alternative al berlusconismo per costruire una proposta che riesca ad essere credibile. Non sarà  facile ma forse i cambiamenti avvenuti in questi mesi in tante parti del Mediterraneo saranno di grande aiuto per aggregare le forze necessarie ad affrontare le difficoltà  dell’Italia.

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