La crisi della spesa pubblica e delle politiche di welfare non è prerogativa italiana. In tutto il mondo occidentale quaranta anni di politiche liberiste hanno lasciato società  spesso in frantumi in cui i ricchi sono diventati più ricchi e i meno abbienti si sono visti ridurre oltre la capacità  d’acquisto di salari e pensioni, anche parti significative del sostegno pubblico. Un intervento composto da una rete di servizi, di interventi dello stato e in genere dell’amministrazione pubblica che assicuravano una crescita e una tenuta sociale altrimenti precaria. Dopo tanti anni di meno stato e più mercato il quadro è quello di una disoccupazione di massa e di ridimensionamento di tutto ciò che è servizi al cittadino. La precarietà  regna sovrana.
Le società  occidentali risultano tutte impoverite e comunque prive di prospettive per le nuove generazioni.
La crisi finanziaria nata negli Stati Uniti ha provocato lo spostamento di ingenti risorse pubbliche verso un sistema finanziario malato implementando i deficit pubblici e senza incidere sui redditi di coloro che hanno provocato il disastro. La ricchezza da speculazione finanziaria continua a sfuggire ad ogni fiscalità  mentre i redditi da impresa o da lavoro continuano a sostenere i bilanci pubblici.
In ogni Paese la crisi ha tentato di trovare soluzioni diverse.
Se nel Nord Europa la crisi del welfare non ha comportato il ridimensionamento della scuola o della sanità  o degli investimenti in ricerca e innovazione, in Italia, ma non solo, la scelta è stata quella di tagli pesanti in tutti i settori dei servizi al cittadino. Scuola pubblica, ricerca, sanità , cultura, spesa pubblica locale subiscono un ridimensionamento epocale.
Ormai le manifestazioni di piazza di tutti i settori della società  costituiscono una costante. Queste manifestazioni non sono organizzate dai partiti di opposizione. In genere si tratta di appuntamenti della CGIL o di auto convocazioni di pezzi di società  civile che guardano con sospetto tutto ciò che è riconducibile alla politica che si svolge nei palazzi del potere. Un potere che non sembra ascoltare il popolo: preferisce continuare nei suoi riti, nei suoi derby televisivi, nel suo guardarsi l’ombelico.
Ci sono rituali che compie la destra nella sua difesa a priori del Sultano, ci sono consuetudini che riguardano il centrosinistra.
Se c’è una certezza nella vita è quella che il ceto politico di centrosinistra ama molto il gioco dell’oca. Periodicamente si ricomincia. Prendiamo il PD. L’iper sindaco Chiamparino per incoraggiare il segretario, definisce il PD un  partito senza  futuro. Non ricordo quanti, ma si tratta di mesi e non di anni da quando Bersani è stato eletto, tramite primarie, segretario di quel partito. Non apprezzo molto il meccanismo delle primarie per eleggere il segretario di un partito. Non sono un iscritto, se lo fossi riterrei paradossale che il capo del mio partito venga eletto da chi iscritto non è. Comunque Bersani è stato eletto. Possibile che nella confusione che viviamo l’area veltroniana prefiguri l’esigenza di procedere ad una nuova fase congressuale con annessa elezione di un nuovo segretario? Che senso ha proporre una legge per rendere le primarie obbligatorie per tutti i partiti? Con un Parlamento dominato dalla destra ha senso provocare una discussione interna al PD su un provvedimento legislativo che non ha alcuna possibilità  di essere discusso?
E’ in piccolo come la riforma “epocale” della giustizia presentata con trombe e tamburi da Berlusconi. Questa legislatura durerà  altri due anni. Una riforma costituzionale richiede, con i doppi passaggi nella Camera e al Senato, tempi lunghi. Al termine del percorso parlamentare è certo il referendum confermativo. Come è noto questo non richiede il quorum per essere valido. Sommessamente voglio ricordare che il 25 e 26 giugno del 2008, sedici milioni di italiani bocciarono sonoramente la controriforma della Costituzione voluta dalla destra berlusconiana. Il centrosinistra non ha mai valutato e valorizzato il significato di quel referendum. Unico, da anni, a raggiungere il 51% degli elettori. Un voto che dimostrò quanto il popolo apprezzava la nostra Costituzione che i riformisti scordarono il giorno dopo. Per fortuna altri non lo hanno dimenticato e, al momento in cui scrivo, le piazze italiane si vanno riempiendo di giovani e meno giovani che sventolano non bandiere di partito, ma la Carta Costituzionale.
Difficile dire quello che potrà  succedere se lo scarto tra Paese reale e il potere formale continuerà  ad aumentare. La tenuta sociale è un valore da salvaguardare. Per farlo c’è bisogno di una svolta radicale nell’individuazione delle priorità  del Paese. Non è una priorità  il ridimensionamento del ruolo della magistratura. Già  il Parlamento produce poco, impegnarlo per anni nella lotta per annichilire i pubblici ministeri sapendo poi che un referendum potrebbe bocciare la controriforma della Costituzione, sembrerebbe una sciocchezza. Anche cambiare il segretario del PD, attraverso un’altra stagione di primarie, non sembra che sia cosa che interessi la maggioranza del popolo. Meglio impegnare le forze per affrontare una difficile crisi ormai non soltanto economica. Sta diventando crisi democratica. Declino democratico da bloccare attraverso l’apertura di un confronto politico capace di coinvolgere le tante risorse presenti tra i giovani, nelle imprese, nel ricco mondo della cultura. Donne, giovani, imprese e cultura sono i mondi che stanno subendo le scelte sbagliate delle classi dirigenti. E’ ormai tempo di andare oltre l’autoreferenziale del ceto politico ma anche oltre le pigrizie e i timori di tanti settori della società . In gioventù, di fronte alle difficoltà , i vecchi maestri ci sollecitavano affinchè associassimo al pessimismo dell’intelligenza, l’ottimismo della volontà , uno degli insegnamenti di Antonio Gramsci.
Forse questa è la stagione che richiede da parte di tutti la capacità  di utilizzare questo metodo.

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