In gran parte delle democrazie occidentali il candidato a capo del governo è il leader del partito che vince le elezioni. Il leader in genere è eletto in un congresso. Questo vale per le democrazie parlamentari mentre per i Paesi a regime presidenzialista o semi-presidenzialista si procede attraverso il dispositivo delle primarie. Per la Francia il meccanismo è di recente utilizzo mentre per gli Stati Uniti si tratta di un metodo di lunga durata. Il primo Stato a utilizzarlo fu il South Carolina nel 1896. Negli Stati Uniti le primarie sono regolate da leggi dei diversi Stati, leggi che la Corte Suprema può accettare o modificare. Le regole sono diverse da Stato a Stato ma tutte hanno la costante dell’obbligo d’iscrizione alle liste elettorali e agli “albi” pubblici dei partiti. Gli storici concordano nel ritenere che le primarie fossero la scelta volta a combattere gli apparati dei partiti e la corruzione delle oligarchie politiche. Di fronte a formazioni dei partiti poco democratiche si dà  la parola agli elettori nella scelta dei candidati alle cariche pubbliche. Il partito democratico italiano ha, dalla sua fondazione, scelto le primarie come costante per decidere i propri candidati ad alcuni ruoli. Si è dato uno statuto che prevede che candidato a capo del governo, nelle primarie di coalizione, debba essere il segretario. Come succede spesso in questo pur decisivo partito, di la delle regole scritte, si procede per innovazioni incessanti. Continua a mancare un centro di gravità  permanente. Al momento non conosco il risultato dell’assemblea nazionale del PD convocata per modificare lo statuto allo scopo di consentire al sindaco Renzi di partecipare alle prossime mitiche primarie. Spero che tutto sia andato positivamente. La cosa ha del paradossale, comunque. Sono settimane, mesi ormai che il centrosinistra è in tormento perenne su una questione che potrebbe rivelarsi inutile. Non si conosce con quale legge elettorale si andrà  a votare. Incerte sono le alleanze e lo stesso centrosinistra non si sa più da quali forze sarà  composto. Programmi, idee, valori da sottoporre all’elettorato manco a parlarne. E tutto ciò in una situazione che giorno dopo giorno si fa sempre più incerta e drammatica per molti milioni di persone. L’esplodere della questione lavoro non significa soltanto altra disoccupazione ma segnala un’altra fase della deindustrializzazione del Paese. L’ondata di scandali, ruberie varie e di privilegi di casta, dovrebbe allarmare per lo stato della democrazia italiana. Il sono tutti uguali, quindi tutti a casa, non riguarda soltanto la chiacchiera da bar, ma è un sentimento che si fa strada in strati sempre più vasti di una popolazione sconfortata. Delusa da una politica che non riesce a compiere scelte che dimostrino un barlume di autoriforma. Deve essere gestita una contraddizione difficile da risolvere. Senza una politica al servizio della nazione e, quindi, diversa da quella che leggiamo sui giornali, non si esce dalla crisi. Una parte consistente, non tutti, di chi svolge un ruolo politico è incapace di guardare all’interesse generale preso com’è dalla protezione del proprio interesse personale. Si può pensare tutto il male possibile del governo dei tecnici, ma certo era un’occasione straordinaria per consentire ai partiti un’autoriforma che allontanasse il marcio che si è stratificato, a tutte le latitudini politiche, in questi anni di berlusconismo rampante. L’autoriforma non c’è stata e ancora una volta è l’azione della magistratura a far emergere corruzione e illegittimi privilegi. No. Non sono tutti uguali, ma anche chi ha taciuto per anni sul degrado d’istituzioni e delle forze politiche ha immense responsabilità . Si sono accorti solo ora che alcune Regioni hanno utilizzato l’autonomia per divenire “statarelli” con il proprio “governatore”? Nei miei viaggi non ho mai incontrato un’ambasciata dello Stato della California o della Baviera, ho visto in giro per il mondo le sedi di rappresentanza di Campania, Lombardia e via dicendo. L’ondata antiregionalista mischia cose giuste e cose sbagliate. Se è giusto voler ricondurre a sobrietà  queste istituzioni, è sbagliato considerare sprechi gli interventi regionali a vantaggio di manifestazioni culturali o di tutela di tradizioni popolari. La Regione dell’Umbria, ad esempio, è stata la fondatrice e ha sostenuto in parte finanziariamente, “Umbria Jazz”. Si poteva con qualche ragione sostenere che noi con il jazz c’entriamo poco. La storia però ci dice che quel festival ha consentito un ritorno economico e d’immagine mondiale di una regione insignificante dal punto di vista economico. E’ morto la scorsa settimana uno dei più famosi storici del mondo: Eric Hobsbawm. Lo storico inglese era un appassionato di jazz e ne ha scritta una storia. E’ un libro molto bello che, nella premessa, ricorda che il boom mondiale di questa musica, marginalizzata per tanto tempo, inizia con l’esplodere dei festival, tra questi Hobsbawm evidenzia “Umbria Jazz”. Che sarebbe la nostra comunità  senza i numerosi festival musicali o senza la straordinaria Festa dei Ceri di Gubbio? L’ideologia che vuole che tutto sia ricondotto al libero mercato, come tutte le ideologie, è fallace. La cultura è un bene da salvaguardare anche attraverso l’intervento pubblico. Un’amministrazione comunale o una Regione hanno la responsabilità  non solo della manutenzione delle strade o della sanità . Hanno anche quella di assicurare che le comunità  amministrate siano messe in grado di apprezzare la cultura locale, nazionale e mondiale. Le autonomie locali devono essere riformate ripristinando controlli e sobrietà , ma non ridotte a semplici terminali della spesa decisa dallo Stato centrale.
Corriere dell’Umbria 7 ottobre 2012

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