Non sarà  ricordato come un anno di grande allegrie. L’anno si chiude con altri morti in Iraq e in Pakistan. La guerra continua in molte parti del mondo e non se ne vede la fine.
Continua l’incertezza delle prospettive economiche: l’implosione della bolla immobiliare negli States spalma in tutto il mondo gli effetti negativi rendendo precarie le prospettive di crescita. Studiosi e commentatori politici argomentano diffusamente sulle ragioni del declino dell’Italia. L’impressione è che il regresso riguarda molte latitudini. Se noi italiani siamo un popolo depresso, figuriamoci l’allegria del popolo americano che in tutte le statistiche relative alla qualità  dei servizi sociali sono agli ultimi posti delle statistiche mondiali. Secondi per la mortalità  infantile, ad esempio. Per non parlare del dollaro che ha perso oltre il 30% del suo valore rispetto all’Euro e il 50% contro la sterlina. Non dovrebbe essere, quello americano, un popolo euforico.
In genere in tutto il mondo, emerge il dato che il dominio di un libero mercato senza regole non sia la ricetta capace di risolvere i problemi dello sviluppo di società  equilibrate dal punto di vista del diritto di tutti ad un futuro dignitoso.
E’ costume consolidato che, nell’ultima settimana dell’anno, i gestori della cosa pubblica rendano conto del lavoro svolto e prospettino le priorità  del lavoro futuro. Sindaci, presidenti e amministratori in genere svolgono il rito con accenti diversi, ma sarebbe sbagliato non apprezzare questa forma di trasparenza democratica.
Anche Prodi ha svolto la sua conferenza stampa di fine anno. Con vigore e fermezza ha rivendicato il valore dei risultati ottenuti dal governo di centrosinistra. Non è cosa da poco che in diciotto mesi si siano rimessi in ordine i conti pubblici disastrati da cinque anni di finanza allegra del governo Berlusconi. Certo la gente comune non ha tratto benefici immediati da questo risultato. Con un poco di fantasia si può immaginare cosa avrebbe fatto Fabrizio Cicchitto se fosse stato Berlusconi a invertire la tendenza all’esplosione dei conti pubblici. Certamente avrebbe organizzato una festa di popolo con tante veline e numerosi vip e con il cavaliere insediato in un trono tempestato di diamanti.
Il presidente Prodi ha individuato per il prossimo anno una priorità . Per favorire la domanda interna non c’è altra strada che lavorare per aumentare salari e stipendi attraverso forme di diminuzione della pressione fiscale sui redditi da lavoro. Non è soltanto questione di giustizia sociale. Una nazione avanzata con una domanda interna scadente non può reggere alla concorrenza dovuta alla globalizzazione. Non lo sostiene soltanto la sinistra. Lo argomenta la scienza economica anche “liberal”.
Prodi ha aggiunto che il programma, con cui l’Unione ha chiesto il voto agli italiani, rimane valido e andrà  realizzato nella sua interezza con la gradualità  necessaria.
Non la pensa così Lamberto Dini. L’inflessibile ex direttore della Banca d’Italia, come se fosse presidente del consiglio, coadiuvato dal leggendario Willem Bordon, ha svolto la sua conferenza stampa di fine anno. Con determinazione il senatore Dini ha preannunciato la presentazione di un programma di governo che dovrà  essere accolto al cento per cento dagli altri, pena la caduta del governo.
Incredibile la presunzione. Forte di un micro partito con aderenti che, per numero, possono essere comodamente sistemati in una “cinquecento” ultimo tipo, Dini straccia il programma con cui si è presentato al corpo elettorale e pretende che i rappresentanti di milioni di elettori accettino le sue straordinarie e ultimative proposte di governo. Che un parlamentare non abbia vincoli di mandato non esclude la coerenza nei comportamenti nè il rispetto dovuto a coloro che votando per una coalizione chiedono la realizzazione del programma prospettato.
La categoria del tradimento non è una categoria della politica. Il tradimento può avere anche una sua drammatica grandezza.
La scelta del Senatore liberal democratico rientra piuttosto nella categoria del trasformismo politico. Una categoria di cui è ricca la tradizione italiana, ma che ha avuto un boom negli ultimi anni grazie alle follie istituzionali frutto dei vari referendum “elettorali” e delle conseguenti leggi elettorali. Se fossero in vigore i meccanismi dell’ostracismo dell’antica democrazia greca molti politici italiani sarebbero destinati all’esilio. Purtroppo una parte della classe dirigente italiana preferisce la cultura del mercato calcistico. Cambiar si deve dicono tutti. Il problema è come e con quali tempi.
La Costituzione Italiana ha compiuto, il 27 dicembre, sessanta anni di vita. Una vita difficile. Applicata in molte parti con grandi ritardi, subisce da decenni un attacco brutale da parte di molti. Inaspettatamente nel 2006, attraverso un massiccio voto referendario, il popolo italiano ha confermato la struttura essenziale della Costituzione Repubblicana. Da questo dato positivo bisogna ripartire per riformare un sistema politico malato di leaderite e di carrierismo. Si possono riformare le istituzioni in una situazione politica così confusa come quella italiana?
Non bisogna essere pessimisti. La nostra Costituzione fu elaborata e approvata all’esplodere della guerra fredda. Nelle piazze e in Parlamento comunisti, socialisti e democristiani si combatterono con un’asprezza inaudita. Eppure i lavori dell’Assemblea Costituente procedettero con rapidità  e la Costituzione fu approvata da tutti ad esclusione della destra fascista. Altra classe dirigente? Indubitabile, ma non bisogna disperare.

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