RIPENSARE L’UMBRIA IN CHIAVE EUROPEA

La Rai Radiotelevisione Italiana è un servizio pubblico. La convenzione tra
azienda e Stato Italiano prevede l’obbligo per la televisione pubblica di fornire
informazione, cultura e quanto di altro esiste nel mondo della comunicazione
non scritta. Per utilizzare questo servizio i cittadini hanno l’obbligo di pagare un
canone annuale. La Rai è giustamente criticata per la qualità dei suoi
programmi e il servilismo nei confronti del potere che si percepisce in certi
salotti televisivi fa da pendant alla volgarità di certi programmi di
intrattenimento. La Rai, insomma, non è la BBC. Tuttavia su un punto il
giudizio è da sempre positivo e bipartisan:la qualità tecnica e d’innovazione
delle strutture Rai sono di primo livello. Un programma ripreso dai tecnici e
organizzato dai coordinatori della televisione pubblica può essere scadente e
spesso lo è per i contenuti, ma perfetti per la qualità tecnica. La nostra
televisione è famosa nel mondo per questo motivo. Eppure il fatto istituzionale
e politico più rilevante per l’Europa degli ultimi decenni, la firma a Roma della
costituzione europea, non è stato ripreso dalla Rai. Il servizio pubblico è stato
escluso per volontà del capo del governo e i poveri giornalisti Rai hanno dovuto
commentare immagini costruite da un privato. Le riprese televisive sono state
affidate dall’ineffabile cavaliere ad una società privata. Berlusconi oltre il
barbiere e il cuoco personale ha anche un regista di fiducia. E’ per questo che
abbiamo potuto ammirare la classe superiore dello spot della firma del trattato
costituzionale europeo diretto da Franco Zeffirelli. Ammirevole che il capo del
governo non abbia affidato l’appalto dell’evento a Mediaset, ma ci è stato
spiegato che le società del premier non hanno bisogno di ulteriore aiuto:nel
primo semestre del 2004 l’utile della Fininvest pre-imposte è aumentato del 90
per cento. Non male con la crisi che attanaglia gran parte delle imprese italiane.
Invita alla riflessione il fatto che una cerimonia che ha visto impegnati i leader
istituzionali di tutta Europa sia stata congegnata come un noioso sceneggiato
televisivo in cui la retorica l’ha fatta da padrona.
L’Europa dei popoli? Roma venerdì era una città surreale, la gente è stata
tenuta lontana da tutto il centro storico. Solo arroganti auto blu ne
attraversavano le strade. Evidentemente il popolo era previsto seduto davanti
alla televisione. Ragioni di sicurezza c’è stato spiegato ed anche la motivazione
ci descrive i pessimi tempi che viviamo.
Al di là di tutto, che l’Europa comunitaria sia una grande opportunità lo
sappiamo bene noi umbri. Che la nostra regione utilizza fondi comunitari sono
ormai moltissimi anni. I diversi progetti comunitari hanno contribuito in modo
sostanziale allo sviluppo economico e sociale dell’Umbria e non è stato soltanto
una questione di risorse economiche non soltanto una questione di aiuti
comunitari per le zone disagiate. Il rapporto con Bruxelles ha obbligato tutta la
struttura pubblica e in parte quella privata a modificare le metodologie di
intervento. Lo stesso rapporto con i governi centrali ha mutato di segno. Non
più generiche richieste di intervento, ma un impegno forte alla elaborazione di
progetti e di scelte programmatiche all’interno di obbiettivi di innovazione
concordati con le autorità di Bruxelles e poi con il governo di Roma.
Per molti anni l’Umbria è stata una regione con vaste aree di sottosviluppo o di
crisi nei settori della siderurgia e di altri comparti industriali. Ancora oggi zone
significative soffrono di mancato o insufficiente sviluppo. E’ cosa nota che
2
l’aumento dell’occupazione che pur si è avuto negli ultimi anni, non ha affatto
risolto il vecchio problema di una disoccupazione intellettuale molto
significativa. L’Umbria non è più terra di emigrazione? E’ vero per ciò che
riguarda il lavoro tradizionale. Rimane però una regione dove per molti giovani
laureati l’unica speranza è un impiego pubblico….a tempo determinato. Anche
questa precaria occupazione è una sorta di vincita all’enalotto. Altrimenti si
emigra.
Le punte di eccellenza che pur ci sono di imprese innovative, non riescono ad
assorbire l’offerta di lavoro qualificato di tanti ragazzi e ragazze laureate.
Questo è un enorme problema non facilmente risolvibile. Scorciatoie non ce ne
sono.
E’ tempo di ripensare l’Umbria senza arroccarsi nel già fatto.
Anche da questo punto di vista lo spazio Europeo è una chance, ma è anche un
rischio. Con il 2006 i parametri che hanno consentito all’Umbria di ottenere
molti aiuti comunitari non saranno più efficaci. Con l’allargamento a 25 Paesi si
perdono le caratteristiche che ci hanno permesso di accedere a risorse
significative. Che fare? Importante è considerare l’alta scolarizzazione presente
in Umbria come una risorsa e non come solo un problema di disoccupati da
sistemare. D’altra parte nella struttura pubblica la carta della “rottamazione”
del personale non sembra risponda all’esigenza di riqualificazione e il turnover
del personale dovrà fare i conti con organici già sostanziosi.
La risposta va ricercata in altri settori. Il sostegno alle imprese innovative è
uno dei punti chiave del Patto per lo Sviluppo costruito tra le istituzione e le
forze sociali? Così si dice. Non ci è dato sapere i risultati raggiunti dall’accordo
e pur comprendendo la pazienza necessaria per ottenere risultati in certe cose,
non sarebbe male una messa a punto delle cose fatte e quelle da fare.
Un poco di ottimismo è consentito. Non tutto è negativo. Ad esempio, in
queste ore giunge la notizia che il nostro Paese non dovrà rinunciare alla
cultura e alle competenze dell’onorevole Buttiglione. Ormai è deciso, il filosofo
prestato alla politica non va più a Bruxelles come commissario. Rimane come
ministro in Italia nel compatto governo Berlusconi.

RIPENSARE L’UMBRIA IN CHIAVE EUROPEA

La Rai Radiotelevisione Italiana è un servizio pubblico. La convenzione tra
azienda e Stato Italiano prevede l’obbligo per la televisione pubblica di fornire
informazione, cultura e quanto di altro esiste nel mondo della comunicazione
non scritta. Per utilizzare questo servizio i cittadini hanno l’obbligo di pagare un
canone annuale. La Rai è giustamente criticata per la qualità  dei suoi
programmi e il servilismo nei confronti del potere che si percepisce in certi
salotti televisivi fa da pendant alla volgarità  di certi programmi di
intrattenimento. La Rai, insomma, non è la BBC. Tuttavia su un punto il
giudizio è da sempre positivo e bipartisan:la qualità  tecnica e d’innovazione
delle strutture Rai sono di primo livello. Un programma ripreso dai tecnici e
organizzato dai coordinatori della televisione pubblica può essere scadente e
spesso lo è per i contenuti, ma perfetti per la qualità  tecnica. La nostra
televisione è famosa nel mondo per questo motivo. Eppure il fatto istituzionale
e politico più rilevante per l’Europa degli ultimi decenni, la firma a Roma della
costituzione europea, non è stato ripreso dalla Rai. Il servizio pubblico è stato
escluso per volontà  del capo del governo e i poveri giornalisti Rai hanno dovuto
commentare immagini costruite da un privato. Le riprese televisive sono state
affidate dall’ineffabile cavaliere ad una società  privata. Berlusconi oltre il
barbiere e il cuoco personale ha anche un regista di fiducia. E’ per questo che
abbiamo potuto ammirare la classe superiore dello spot della firma del trattato
costituzionale europeo diretto da Franco Zeffirelli. Ammirevole che il capo del
governo non abbia affidato l’appalto dell’evento a Mediaset, ma ci è stato
spiegato che le società  del premier non hanno bisogno di ulteriore aiuto:nel
primo semestre del 2004 l’utile della Fininvest pre-imposte è aumentato del 90
per cento. Non male con la crisi che attanaglia gran parte delle imprese italiane.
Invita alla riflessione il fatto che una cerimonia che ha visto impegnati i leader
istituzionali di tutta Europa sia stata congegnata come un noioso sceneggiato
televisivo in cui la retorica l’ha fatta da padrona.
L’Europa dei popoli? Roma venerdì era una città  surreale, la gente è stata
tenuta lontana da tutto il centro storico. Solo arroganti auto blu ne
attraversavano le strade. Evidentemente il popolo era previsto seduto davanti
alla televisione. Ragioni di sicurezza c’è stato spiegato ed anche la motivazione
ci descrive i pessimi tempi che viviamo.
Al di là  di tutto, che l’Europa comunitaria sia una grande opportunità  lo
sappiamo bene noi umbri. Che la nostra regione utilizza fondi comunitari sono
ormai moltissimi anni. I diversi progetti comunitari hanno contribuito in modo
sostanziale allo sviluppo economico e sociale dell’Umbria e non è stato soltanto
una questione di risorse economiche non soltanto una questione di aiuti
comunitari per le zone disagiate. Il rapporto con Bruxelles ha obbligato tutta la
struttura pubblica e in parte quella privata a modificare le metodologie di
intervento. Lo stesso rapporto con i governi centrali ha mutato di segno. Non
più generiche richieste di intervento, ma un impegno forte alla elaborazione di
progetti e di scelte programmatiche all’interno di obbiettivi di innovazione
concordati con le autorità  di Bruxelles e poi con il governo di Roma.
Per molti anni l’Umbria è stata una regione con vaste aree di sottosviluppo o di
crisi nei settori della siderurgia e di altri comparti industriali. Ancora oggi zone
significative soffrono di mancato o insufficiente sviluppo. E’ cosa nota che
2
l’aumento dell’occupazione che pur si è avuto negli ultimi anni, non ha affatto
risolto il vecchio problema di una disoccupazione intellettuale molto
significativa. L’Umbria non è più terra di emigrazione? E’ vero per ciò che
riguarda il lavoro tradizionale. Rimane però una regione dove per molti giovani
laureati l’unica speranza è un impiego pubblico”¦.a tempo determinato. Anche
questa precaria occupazione è una sorta di vincita all’enalotto. Altrimenti si
emigra.
Le punte di eccellenza che pur ci sono di imprese innovative, non riescono ad
assorbire l’offerta di lavoro qualificato di tanti ragazzi e ragazze laureate.
Questo è un enorme problema non facilmente risolvibile. Scorciatoie non ce ne
sono.
E’ tempo di ripensare l’Umbria senza arroccarsi nel già  fatto.
Anche da questo punto di vista lo spazio Europeo è una chance, ma è anche un
rischio. Con il 2006 i parametri che hanno consentito all’Umbria di ottenere
molti aiuti comunitari non saranno più efficaci. Con l’allargamento a 25 Paesi si
perdono le caratteristiche che ci hanno permesso di accedere a risorse
significative. Che fare? Importante è considerare l’alta scolarizzazione presente
in Umbria come una risorsa e non come solo un problema di disoccupati da
sistemare. D’altra parte nella struttura pubblica la carta della “rottamazione”
del personale non sembra risponda all’esigenza di riqualificazione e il turnover
del personale dovrà  fare i conti con organici già  sostanziosi.
La risposta va ricercata in altri settori. Il sostegno alle imprese innovative è
uno dei punti chiave del Patto per lo Sviluppo costruito tra le istituzione e le
forze sociali? Così si dice. Non ci è dato sapere i risultati raggiunti dall’accordo
e pur comprendendo la pazienza necessaria per ottenere risultati in certe cose,
non sarebbe male una messa a punto delle cose fatte e quelle da fare.
Un poco di ottimismo è consentito. Non tutto è negativo. Ad esempio, in
queste ore giunge la notizia che il nostro Paese non dovrà  rinunciare alla
cultura e alle competenze dell’onorevole Buttiglione. Ormai è deciso, il filosofo
prestato alla politica non va più a Bruxelles come commissario. Rimane come
ministro in Italia nel compatto governo Berlusconi.

Cecità 

Lo scempio continua. Un’altra decisiva tappa è stata compiuta con
l’approvazione della modifica di un terzo degli articoli della
Costituzione repubblicana. Il sistema politico e le forme della
democrazia che le modifiche votate in Parlamento dalla destra
intendono costruire, non hanno più niente a che fare con quello
previsto e in parte realizzato nel nostro Paese dal 1948 ad oggi.
Il riformismo dei berluscones produce risultati terrificanti: il
parlamento si trasforma formalmente in una dèpendance del primo
ministro, il presidente della repubblica diviene una figura
marginale senza alcun potere istituzionale. La democrazia si
trasformerà  in un orpello apparente senza alcuna capacità  di
incidere nella vita dei cittadini. Sarà  una democrazia manovrata
da un oligarca tutto facente. Il premier concentrerà  in sè sia il
potere esecutivo che quello legislativo. Nessun contropotere sarà 
legittimo. Una sistematina anche alla magistratura e il gioco è
fatto. Il sogno del loggia P2 diviene realtà . Gelli può essere
soddisfatto del lavoro svolto dai suoi vecchi associati,
Berlusconi e Cicchitto.
Si dovrà  pur fare uno sforzo per capire come e perchè è potuto
succedere che un Paese come l’Italia si ritrovi in questa
situazione. Qualcuno ha sbagliato?
Soltanto nel mese di settembre l’onorevole Violante dottamente ci
spiegava i motivi che avevano portato un pezzo fondamentale
dell’Ulivo ad astenersi sull’articolo uno della legge
costituzionale voluta dalla Casa delle Libertà . La tentazione al
colloquio e alla collaborazione sulle riforme della destra è stata
interrotta soltanto dalla determinazione di Prodi. I nostri
costituzionalisti avrebbero proseguito sulla loro strada di
emendamenti. Non casuale la volontà  bipartisan. I padri della
controriforma costituzionale sono numerosi anche se alcuni non si
riconoscono più nel mostro uscito dal parlamento il 15 ottobre.
I facitori della nuova repubblica sono molti e molti sono stati
coloro che in tanti anni hanno costruito le loro strategie
politiche partendo dalla destrutturazione della Costituzione
repubblicana. Non tutti i protagonisti appartengono alla destra
italiana o alla lega bossiana.
Per capire di cosa parliamo consigliamo la lettura di un articolo
uscito su “Repubblica” il 18 ottobre a firma Giuliano Amato. Lo
chiamano il dottor sottile, non si sa bene perchè, ma
l’appellativo è carino e si adatta ad un personaggio che ha
attraversato indenne le tragedie della prima repubblica e che ha
un ruolo primario nello schieramento di centrosinistra.
L’Onorevole Amato ci ricorda che fu sua la proposta di modifica
del Titolo Quinto della Costituzione che, ricorderete, l’Ulivo
votò alla fine della passata legislatura. A quel tempo Amato era
ministro per le riforme istituzionali del governo D’Alema. La
modifica introduceva il federalismo nella carta costituzionale.
Oggi, a frittata fatta, il dottor sottile ci ha ripensato.
Attraverso una colta analisi delle esperienze di federalismo nel
mondo e visti i rischi che si corrono, egli ritiene che è molto
meglio che si torni a lavorare sul nostro bel modello di Stato
2
regionale dimenticando il federalismo. Forse la scelta federalista
di allora era dovuta alla risposta alle spinte leghiste, sospetta
Amato? Se è così afferma, abbiamo commesso una leggerezza.
Stupefacente. E no, onorevole Amato, non si è trattato di una
leggerezza. Si deve parlare di un drammatico errore. Uno sbaglio
non isolato ma coerente con una linea di politica istituzionale
piegata da anni alla ideologia della destra liberista. Pervicace è
stata la volontà  dei riformisti di ridimensionare il peso delle
assemblee elettive a vantaggio del capo dell’amministrazione.
Determinati sono stati nel mandare in pezzi ogni forma organizzata
della democrazia di massa. Scomparsa la politica come
organizzatrice di valori e ideali, in campo rimane soltanto un
sistema piegato alle esigenze di potere dei vari leader e
leaderini locali e nazionali.
I partiti sono diventati banali strumenti di organizzazione del
consenso ai diversi candidati alle cariche pubbliche. Questa è
stata una scelta precisa. E oggi Berlusconi trae i vantaggi dalla
leaderite che distingue il ceto politico.
Questa è la filosofia ancora prevalente nelle scelte concrete dei
Diesse, dello Sdi e della Margherita. L’inossidabile certezza che
il sistema elettorale maggioritario vigente è la panacea di tutti
i mali, annichilisce coloro che ritengono che la politica sia
altra cosa dal sistema del notabilato. Il rischio di precipitare
in una situazione tipo sudamerica anni ’60, paventato da D’Alema,
non dipende da un eventuale ritorno al sistema elettorale
proporzionale. In realtà  è stato il sistema maggioritario a
produrre la frantumazione del parlamento in partiti e partitini. O
no? Il plebiscito come metodo di organizzazione del consenso è
figlio di una idea che svuota la politica di ogni capacità  di
rappresentanza sociale assegnando ad oligarchie ristrette la
scelta della classe dirigente.
Una politica senza qualità  è il risultato anche del prosciugamento
del ruolo delle assemblee elettive. Le mitiche regioni rosse
(Toscana, Emilia e Umbria) si sono incontrate per veder i modi per
approvare i loro statuti. Impugnati dal governo presso la Corte
Costituzionale, tali statuti prevedono tutti un sistema di governo
presidenzialista. Il massiccio aumento dei consiglieri regionali
immaginato dalle leggi in itinere non fa che enfatizzare la cecità 
di un ceto politico sempre più autoreferenziale.
Referendum, referendum avvertono i riformisti nostrani contro lo
sbrego della Costituzione dei berluscones. Bene. Siamo curiosi di
conoscere quali argomenti si sosterranno nella campagna
referendaria a sostegno del No all’obbrobrio votato dalla Casa
delle Libertà . Ad esempio, come motivare la contrarietà  al
premierato forte quando in tutti gli statuti regionali votati in
questi mesi, i riformisti diessini e rutelliani hanno sostenuto
una forma di governo rigidamente presidenzialista? Oggettivamente
un presidente di regione ha più poteri del premier nazionale.
E’ il presidente che sceglie i “suoi” assessori non una organismo
terzo, perchè non dovrebbe farlo il capo del governo nazionale?
L’assemblea di una regione o di un comune è depotenziata nè più nè
meno del parlamento sognato da Berlusconi. Non è così? Si, certo
3
che è così e sarà  complicato spiegare perchè si può scegliere
direttamente il sindaco o il presidente di regione e non il primo
ministro. Sarà  complesso essere contro i plebisciti personali
della politica alla Berlusconi avendo steso tappeti rossi per Illy
in Friuli e per Soru in Sardegna. Ancora oggi basta ascoltare
qualche leader locale o nazionale del centrosinistra per capire
che la politica non passa per progetti generali, ma per le facce
più o meno gradevoli dei leader e leaderini imperanti a destra e a
sinistra.
Non sarà  una carta vincente che la destra giocherà  in termini
populistici, quella della riduzione del numero dei parlamentari
prevista dalle modifiche costituzionali?
Non è preoccupante per il ceto politico il fatto che siano state
raccolte in Umbria 12000 firme per un referendum diretto a
dimezzare le indennità  dei consiglieri regionali?
Noi non abbiamo raccolto firme. Non è nel nostro stile.
Sommessamente domandiamo: non avete esagerato in prebende?
Micropolis ottobre 2004

IL CONGRESSO DEI DS SARA’ SOLTANTO UN RITO

Un congresso di partito è sempre un evento importante per la democrazia.
Naturalmente non sempre le assise di partito hanno lo spessore di una svolta
rilevante per la vita interna e per l’immagine esterna di una data formazione
politica. Dipende dalle fasi della democrazia e questa che viviamo è una
pessima fase.
Da un esame delle piattaforme presentate dalle diverse correnti con cui i
Diesse vanno a congresso non sembrano risolti i problemi che attraversano il
maggior raggruppamento della sinistra italiana. Sarebbe ingeneroso non
considerare lo sforzo di elaborazione, ma le idee con cui Fassino vuol essere
riconfermato segretario non hanno la limpidezza necessaria a sciogliere il nodo
che aggroviglia da anni il partito nato dallo scioglimento del PCI. Partito
democratico o partito del socialismo europeo? Siamo ancora a questo nodo.
Nella mozione del segretario diessino rimane irrisolta la questione dell’identità
dei DS.
E’ tanto vero questo che esponenti di primo piano (Ruffolo, Trentin, Reichlin e
molti altri quasi tutti “fassiniani”), hanno sottoscritto un documento che chiede
al congresso la scelta di enfatizzare il fiore del socialismo europeo nel simbolo
diessino. Meno quercia e più rosa. Se non vuole essere una banale operazione
di marketing, bisognerebbe che gli stessi dirigenti facciano un passo avanti nel
dibattito congressuale chiedendo, alla solida maggioranza di Fassino, di
risolvere finalmente la questione che ha afflitto i diesse negli ultimi quindici
anni: quali valori e ideali rappresentare in Italia e in Europa. E principalmente
quale società intendono contribuire a costruire dal punto di vista sociale e
democratico.
Riproporre, come Fassino scrive, il riformismo come discrimine e come ideale
non basta. In Italia tutti si dichiarano riformisti, anche i beluscones che a modo
loro, stanno “riformando” il Paese.
Le parole, specialmente se sono aggettivi e non sostantivi, mutano nel tempo e
nel significato. Riformismo non significa niente se non si precisa che cosa e in
quale direzione si riforma. Affermare che i diesse sono per un riformismo di
tipo socialista, chiarirebbe meglio la differenza tra una sinistra moderna, il
centro democratico e la destra liberista. Ma forse qui sta il punto. Una parte
consistente (?) della maggioranza che si richiama a Fassino ritiene che è
proprio l’orizzonte di obbiettivi socialisti che va abolito? E’ questa una
spiegazione logica per l’ambiguità e il travaglio di questi anni. Il modello di
riformismo che si ha in testa è il blairismo e non la socialdemocrazia
scandinava? Si comprende la cautela. Esplicitare questa scelta (con la guerra
angloamericana in Iraq) qualche problema lo provocherebbe al segretario e alla
sua maggioranza. L’incertezza rimarrà.
L’accordo con la mozione di Fassino sembra essere preponderante.
Le proposte congressuali sono quattro, ma per esseri franchi non sembra che
ci siano grandi possibilità né per la mozione dell’onorevole Salvi né per la
mozione ambientalista. E anche per il raggruppamento che un tempo si
chiamava il correntone le prospettive congressuali non sono esaltanti. Si sono
sfilati i pezzi da novanta e le scelte di Cofferrati hanno perso di significativa
influenza nella dinamica nazionale. L’ex segretario della CGIL diventerà un
2
buon sindaco ma le consistenti forze della sinistra che ha attratto nel passato si
vanno sfarinando cercando collocazioni più consone.
Esemplare è ciò che sta succedendo in Umbria. La stagione pre elettorale, per
le regionali e politiche, consiglia a molti una ricollocazione negli schieramenti
interni. Niente di nuovo sotto il sole. Una posizione di minoranza non è facile
da gestire. Anche nel passato nei gruppi dirigenti umbri del PCI, le minoranze
non avevano grandi chance di divenire maggioranza e pochi riuscivano a
tenere posizioni diverse da quelle del centro del partito. Nelle fasi congressuali,
mai nel PCI umbro le idee di Ingrao sono state in maggioranza. Nonostante
l’influenza personale del leader della sinistra del partito nella nostra terra
prevaleva sempre la consonanza con Roma.
A conferma, basta analizzare i congressi di “Svolta” del PCI per verificare
quanto risicati erano i voti sulle tesi alternative a quelle del segretario
nazionale. Pochi del gruppo dirigente umbro votavano assieme a Ingrao. La
leggenda dell’Umbria ingraiana è appunto una favola.
La grandezza del PCI umbro consisteva nel sollecitare l’elezione al parlamento
di Ingrao nel collegio umbro pur non condividendo le sue posizioni politiche.
Altri tempi. Pur approvando la linea che veniva da Roma, i leader locali erano
in grado di gestire il dissenso ed anzi come gruppo dirigente complessivo
rivendicavano una autonomia di elaborazione politica dal centro del partito. E
in molte circostanze, l’Umbria divenne laboratorio di idee e di esperienze
particolarmente innovative nel settore della programmazione e nel rapporto tra
le istituzioni democratiche e i cittadini. “Umbria regione aperta” fu il primo
slogan della prima giunta regionale. Visto con gli occhi di oggi sembra uno
slogan eretico.
Non è casuale che il regionalismo umbro sia stato ravvisato, nel passato, tra
quelli a più alta capacità progettuale e che molte delle concrete realizzazioni
siano state poi “esportate”.
Le stesse esperienze di autogoverno locale hanno contribuito in modo
significativo al progresso della nostra comunità. Anche quando i sindaci o i
presidenti non venivano eletti direttamente, essi erano percepiti, in genere,
come leader popolari e non come professionisti della politica. Il mondo è
cambiato ed inutile stabilire se in meglio o in peggio. In realtà l’impressione è
che il prossimo congresso dei DS rischia di essere soltanto un rito. Molti giochi
sono fatti (federazione dei riformisti, liste uniche, ecc.. ecc.) e i gruppi dirigenti
che si affermeranno non saranno novità scioccanti per nessuno. Prevale il
bisogno di volti noti e di continuità.
Corriere dell’Umbria 24 ottobre 2004

IL CONGRESSO DEI DS SARA’ SOLTANTO UN RITO

Un congresso di partito è sempre un evento importante per la democrazia.
Naturalmente non sempre le assise di partito hanno lo spessore di una svolta
rilevante per la vita interna e per l’immagine esterna di una data formazione
politica. Dipende dalle fasi della democrazia e questa che viviamo è una
pessima fase.
Da un esame delle piattaforme presentate dalle diverse correnti con cui i
Diesse vanno a congresso non sembrano risolti i problemi che attraversano il
maggior raggruppamento della sinistra italiana. Sarebbe ingeneroso non
considerare lo sforzo di elaborazione, ma le idee con cui Fassino vuol essere
riconfermato segretario non hanno la limpidezza necessaria a sciogliere il nodo
che aggroviglia da anni il partito nato dallo scioglimento del PCI. Partito
democratico o partito del socialismo europeo? Siamo ancora a questo nodo.
Nella mozione del segretario diessino rimane irrisolta la questione dell’identità 
dei DS.
E’ tanto vero questo che esponenti di primo piano (Ruffolo, Trentin, Reichlin e
molti altri quasi tutti “fassiniani”), hanno sottoscritto un documento che chiede
al congresso la scelta di enfatizzare il fiore del socialismo europeo nel simbolo
diessino. Meno quercia e più rosa. Se non vuole essere una banale operazione
di marketing, bisognerebbe che gli stessi dirigenti facciano un passo avanti nel
dibattito congressuale chiedendo, alla solida maggioranza di Fassino, di
risolvere finalmente la questione che ha afflitto i diesse negli ultimi quindici
anni: quali valori e ideali rappresentare in Italia e in Europa. E principalmente
quale società  intendono contribuire a costruire dal punto di vista sociale e
democratico.
Riproporre, come Fassino scrive, il riformismo come discrimine e come ideale
non basta. In Italia tutti si dichiarano riformisti, anche i beluscones che a modo
loro, stanno “riformando” il Paese.
Le parole, specialmente se sono aggettivi e non sostantivi, mutano nel tempo e
nel significato. Riformismo non significa niente se non si precisa che cosa e in
quale direzione si riforma. Affermare che i diesse sono per un riformismo di
tipo socialista, chiarirebbe meglio la differenza tra una sinistra moderna, il
centro democratico e la destra liberista. Ma forse qui sta il punto. Una parte
consistente (?) della maggioranza che si richiama a Fassino ritiene che è
proprio l’orizzonte di obbiettivi socialisti che va abolito? E’ questa una
spiegazione logica per l’ambiguità  e il travaglio di questi anni. Il modello di
riformismo che si ha in testa è il blairismo e non la socialdemocrazia
scandinava? Si comprende la cautela. Esplicitare questa scelta (con la guerra
angloamericana in Iraq) qualche problema lo provocherebbe al segretario e alla
sua maggioranza. L’incertezza rimarrà .
L’accordo con la mozione di Fassino sembra essere preponderante.
Le proposte congressuali sono quattro, ma per esseri franchi non sembra che
ci siano grandi possibilità  nè per la mozione dell’onorevole Salvi nè per la
mozione ambientalista. E anche per il raggruppamento che un tempo si
chiamava il correntone le prospettive congressuali non sono esaltanti. Si sono
sfilati i pezzi da novanta e le scelte di Cofferrati hanno perso di significativa
influenza nella dinamica nazionale. L’ex segretario della CGIL diventerà  un
2
buon sindaco ma le consistenti forze della sinistra che ha attratto nel passato si
vanno sfarinando cercando collocazioni più consone.
Esemplare è ciò che sta succedendo in Umbria. La stagione pre elettorale, per
le regionali e politiche, consiglia a molti una ricollocazione negli schieramenti
interni. Niente di nuovo sotto il sole. Una posizione di minoranza non è facile
da gestire. Anche nel passato nei gruppi dirigenti umbri del PCI, le minoranze
non avevano grandi chance di divenire maggioranza e pochi riuscivano a
tenere posizioni diverse da quelle del centro del partito. Nelle fasi congressuali,
mai nel PCI umbro le idee di Ingrao sono state in maggioranza. Nonostante
l’influenza personale del leader della sinistra del partito nella nostra terra
prevaleva sempre la consonanza con Roma.
A conferma, basta analizzare i congressi di “Svolta” del PCI per verificare
quanto risicati erano i voti sulle tesi alternative a quelle del segretario
nazionale. Pochi del gruppo dirigente umbro votavano assieme a Ingrao. La
leggenda dell’Umbria ingraiana è appunto una favola.
La grandezza del PCI umbro consisteva nel sollecitare l’elezione al parlamento
di Ingrao nel collegio umbro pur non condividendo le sue posizioni politiche.
Altri tempi. Pur approvando la linea che veniva da Roma, i leader locali erano
in grado di gestire il dissenso ed anzi come gruppo dirigente complessivo
rivendicavano una autonomia di elaborazione politica dal centro del partito. E
in molte circostanze, l’Umbria divenne laboratorio di idee e di esperienze
particolarmente innovative nel settore della programmazione e nel rapporto tra
le istituzioni democratiche e i cittadini. “Umbria regione aperta” fu il primo
slogan della prima giunta regionale. Visto con gli occhi di oggi sembra uno
slogan eretico.
Non è casuale che il regionalismo umbro sia stato ravvisato, nel passato, tra
quelli a più alta capacità  progettuale e che molte delle concrete realizzazioni
siano state poi “esportate”.
Le stesse esperienze di autogoverno locale hanno contribuito in modo
significativo al progresso della nostra comunità . Anche quando i sindaci o i
presidenti non venivano eletti direttamente, essi erano percepiti, in genere,
come leader popolari e non come professionisti della politica. Il mondo è
cambiato ed inutile stabilire se in meglio o in peggio. In realtà  l’impressione è
che il prossimo congresso dei DS rischia di essere soltanto un rito. Molti giochi
sono fatti (federazione dei riformisti, liste uniche, ecc.. ecc.) e i gruppi dirigenti
che si affermeranno non saranno novità  scioccanti per nessuno. Prevale il
bisogno di volti noti e di continuità .
Corriere dell’Umbria 24 ottobre 2004