da Francesco Mandarini | Lug 17, 2007
Cicciobello per gli amici, il Piacione per i nemici politici, Francesco Rutelli è da diversi decenni protagonista della politica italiana. Nonostante la bruciante sconfitta, quale leader del centrosinistra, nelle elezioni del 2001 che segnò il trionfo di Berlusconi, l’ex sindaco di Roma è rimasto sempre a galla. Pur amando il sistema politico statunitense Rutelli non segue i comportamenti dei leader americani che, se sconfitti, vanno a casa. Il nostro resta in campo al servizio del Paese.
Tanto per semplificare le cose, all’amico Prodi l’ex radicale ha lanciato un “manifesto” a cui hanno aderito diversi esponenti del riformismo italiano. Conoscendo la devozione di Rutelli, frammista ad ammirazione, per il Cardinal Ruini, siamo rassicurati sulla qualità e sulla cultura della modernità del manifesto rutelliano. Una domanda. Se si presenta una piattaforma politica in una fase di costruzione di un nuovo partito, logica vorrebbe che è implicita una candidatura alla guida della nuova formazione politica. In questo caso non sembra così. Rutelli appoggia Veltroni. Se fossi Veltroni qualche dubbio lo avrei.
La piattaforma politica di Rutelli è esplicita: basta con le alleanze coatte, basta con il conservatorismo della sinistra. Rutelli prefigura un nuovo centrosinistra, senza sinistra. Una bella coalizione che comprende Casini e Mastella e che escluda a priori, Mussi e Diliberto, passando per un ormai stralunato Fassino. Bella prospettiva e più che altro vincente. Non si sa bene da dove arriverebbero i voti per governare, ma questa è una quisquilia. Che la formazione del Partito Democratico sarebbe stata complessa lo si poteva capire dalle premesse, ma una confusione come quella che stiamo vivendo ci sembra eccessiva anche per una classe politica non di primissima qualità .
Il “mi candido alle primarie” di alcuni leader cui segue smentite a raffica, è la rappresentazione di un pasticcio che rischia di indebolire anche gli aspetti positivi contenuti nell’ipotesi di un partito diverso dalle oligarchie oggi dominanti.
Non capisco l’interesse di Veltroni ad essere oggetto di un plebiscito che, come quello che ha avuto Prodi, non garantisce affatto la possibilità di guidare un partito o un Paese. Sarebbe saggio evitare il meccanismo della dichiarazione quotidiana su tutto e su tutti ed è certo che non sempre i consigli e le sollecitazioni sono disinteressate.
Prendiamo la questione del referendum per l’abolizione della legge elettorale imposta da Berlusconi. Un’ignominia che deve essere superata, su questo nessun dubbio. Il quesito referendario supera alcune brutture, ma ne lascia intatte e anzi ne mantiene l’essenza antidemocratica. Anche se i Sì vincessero sarebbero sempre le segreterie dei partiti a nominare i parlamentari. E’ una falsificazione dei comitati promotori affermare che il referendum diminuirebbe il numero dei partiti. Il referendum tende ad assegnare la maggioranza dei seggi (340 alla Camera) alla lista che ottiene più voti. Oggi questo meccanismo è previsto per la coalizione. Che cambierebbe? Che una lista con il 20% dei voti potrebbe avere la maggioranza alla Camera dei deputati se le altre liste ne prendono meno. Una mostruosità giuridica. Il costituzionalista Giovanni Ferrara ha scritto su “Il Manifesto” di giovedì scorso: “La legge Acerbo, che diede poi il via all’instaurazione del regime fascista, pur attribuendo un premio di maggioranza altissimo, poneva la condizione per ottenerlo l’aver conseguito il 25% dei voti popolari. Acerbo aveva, insomma, maggior rispetto almeno per i numeri di quanto ne dimostrino i promotori del referendum per qualche parvenza di democrazia”.
Mistificare le cose non fa bene alla democrazia. Sono ormai sedici anni che si improvvisano leggi elettorali e che si tenta di costruire un sistema politico efficace senza fare passi avanti.
Non si è ancora convinti che le forzature producono mostruosità ? Si è imposto, con un altro referendum mistificante, il sistema maggioritario e si è generato un bailamme di formazioni politiche personali spalancando la strada al berlusconismo di destra, di centro e di sinistra.
Che produrrà un referendum sbagliato? Nonostante che la grande stampa enfatizzi l’esigenza e il valore innovativo del referendum, è consigliabile qualche momento di riflessione.Rigenerare la democrazia dovrebbe essere uno dei compiti del PD e di una sinistra adeguata alla bisogna. Il silenzio rispetto alla mistificazione dei referandari, della grande stampa e di Confindustria non è un bel segnale.
da Francesco Mandarini | Lug 12, 2007
La vicenda politica continua ad essere confusa e incomprensibile per i non addetti ai lavori. La mistificazione di presentare le difficoltà del governo Prodi come il risultato delle forzature ideologiche della cosi detta sinistra radicale, regna sovrana nella grande stampa e nelle dichiarazioni della destra unita nella lotta con i “veri” riformisti del centrosinistra. Tra questi si distingue il senatore Dini che, con leggerezza, ha dichiarato: “Come si dice a Roma, morto un papa se ne fa un altro. Cade Prodi? Fatti suoi”. Se i teodem dichiarano che mai voteranno i Dico (progetto di legge del governo) o se Mastella minaccia, un giorno sì e l’altro pure, tragedie se non si ascoltano i suoi desideri, se Rutelli chiama a raccolta i giovani contro l’ipotesi di abolire lo “scalone” pensionistico, per gli opinion maker tutto ciò rientra nel libero confronto. Loro hanno ragione a prescindere. Portatori di un’ideologia che idolatra il libero mercato non riescono a intendere le ragioni degli altri. Dini, Polito, Mastella, Rutelli e compagni hanno siglato un programma elettorale che prevedeva il superamento dello “scalone” imposto con legge dalla destra? Il programma con cui si sono ottenuti i voti per governare non è la bibbia, dicono.
Gli impegni con gli elettori? Carta straccia. Intendiamoci la questione dell’allungamento dell’età lavorativa è un problema, ma è un dilemma anche la gestione dei diritti acquisiti. Cercare di trovare una soluzione che salvaguardi, assieme all’interesse nazionale, anche l’interesse dei singoli, non può essere considerata una forzatura estremistica. E’ un imbroglio cercare di costruire uno scontro tra le diverse generazioni. I giovani sono certamente messi male. Pessima scuola, scadente università , lavori sempre più precari e mal pagati. Per la prima volta nella storia dell’occidente (compresi gli Stati Uniti) i figli hanno condizioni di vita peggiori di quelle dei propri genitori. Una vita da precario non è un gran che, ma le responsabilità di questo stato di cose non è certo riconducibile all’operaio che dopo trentacinque anni di contributi vuole andare in pensione. La questione giovanile è una grande e drammatica emergenza nazionale che richiede alla politica scelte radicali nell’organizzare un modello di sviluppo diverso da quello imposto dal liberismo rampante anche in Italia. Il distacco delle nuove generazioni dall’agire politico è sotto gli occhi di tutti e per la sinistra si tratta di una vera emergenza che deve guidare le sue scelte concrete in Parlamento e nelle istituzioni in genere.
Il problema delle sinistre (troppe) non è quello del radicalismo, ma quello delle forze che riesce ad influenzare. Ricerche e studi dimostrano che il sindacato organizza bene i lavoratori del pubblico impiego e i pensionati, meno bene gli addetti al settore privato, malissimo il rapporto sindacale con tutto il settore del lavoro flessibile e del terziario avanzato o tradizionale. Le varie espressioni politiche della sinistra hanno scarsissimo appeal nelle forze produttive in genere. In particolare sono quasi scomparse dai luoghi di lavoro le organizzazioni di partito. I movimenti politici giovanili funzionano quasi tutti fuori dei partiti e vivono di “eventi”. La sclerosi dei gruppi dirigenti dei partiti è di tale gravità da impedire qualsiasi processo di rinnovamento. Abbiamo la classe dirigente (non solo politica) più vecchia d’Europa e, nonostante questo, si formulano organigrammi futuri che continuano a ruotare attorno ai soliti noti. Chi si lamenta dell’esplodere dell’antipolitica dovrebbe interrogarsi anche sui motivi che producono questo rigetto di massa del ceto politico. Non si tratta soltanto di consensi elettorali che si spostano da un’area all’altra. Questo rientra nei meccanismi della democrazia. Ciò che è in discussione è un’intera classe politica che si dimostra incapace di corrispondere ai problemi del Paese e che si caratterizza per il suo egocentrismo che fa da pendant a quello di certi leader industriali. Impermeabili come l’acciaio le elite italiane non hanno in testa che il loro perpetuarsi.
da Francesco Mandarini | Lug 12, 2007
E’ l’America, bellezza. Il comitato dei quarantacinque “fondatori” il partito democratico ha deciso: il modello per scegliere il primo segretario sarà quello che i democratici americani usano per la scelta del candidato alla presidenza. I nostri creativi rinnovatori importano il meccanismo delle primarie per l’elezione del segretario. Il presidente già c’è ed è Prodi. Irriducibili, nonostante i disastri istituzionali prodotti negli ultimi quindici anni, i riformisti confermano la loro linea presidenzialista. Ogni partito sceglie le sue regole e se Berlusconi non sente nemmeno il bisogno di farsi eleggere, il leader del PD avrà il suo plebiscito. Sono fatti privati di partito? Non è così semplice.
Il rischio che si corre è quello di consolidare una forma di democrazia plebiscitaria in cui leader autoritari senza autorità , continueranno a considerare le assemblee elettive come un intralcio alla governabilità . Eletti alle primarie, i capi, si richiameranno al “popolo” e non al parlamento per governare. Mario Tronti ha ragione quando ricorda che se è stata un’utopia assegnare tutto il potere ai Soviet, sarebbe terribile dare tutto il potere ai “gazebo”. Nonostante che soltanto un anno fa il popolo ha sconfitto la controriforma costituzionale voluta da Berlusconi e non contrastata più di tanto dai riformisti. Questi ultimi non hanno abbandonata l’idea di un sistema elettorale che prevede l’indicazione del premier. Chiti e gli altri innovatori non vogliono capire che l’Italia è una repubblica parlamentare e che il capo del governo è scelto dal Parlamento e non eletto direttamente. Il risultato del referendum è stato rimosso? Si mitizzano le primarie che hanno scelto Prodi e si cestinano i milioni di voti contro la controriforma berlusconiana? Non si può fare senza stracciare la Carta Costituzionale.
La democrazia americana è ben diversa da quella di quasi tutto il mondo occidentale. Non siamo stati mai particolarmente attratti da un sistema politico che allontana il popolo dalla vita politica e la personalizzazione della politica ci sembra la prima causa dell’antipolitica. Quando invece di un progetto politico si sceglie l’appeal di un candidato, le conseguenze possono essere molto sgradevoli. Se si guarda poi all’intreccio tra affari e politica, l’America è maestra in questo campo: le costosissime campagne elettorali sono finanziate apertamente da corporation e industrie varie che, poi, riescono a condizionare alla radice ogni processo legislativo e ogni scelta del presidente. Il lobbismo è la carta che decide i destini di tutti gli addetti all’attività politica. Provate a farvi eleggere se siete contro la libera circolazione delle armi o se avete l’intenzione di toccare gli interessi delle industrie farmaceutiche. Anche per questi motivi, ricordiamo, che spesso la maggioranza degli elettori Usa non partecipa al voto. Sicuramente apprezziamo il sistema di pesi e contrappesi costruiti dalla democrazia americana, una struttura dei poteri che consente la salvaguardia delle assemblee rappresentative e impedisce lo strapotere del presidente. Magari fosse così in Italia. Il presidenzialismo nostrano voluto dai riformisti di ogni colore ha svuotato quasi completamente consigli regionali, comunali e provinciali di ogni potere rendendo vana ogni forma di rappresentanza.
Pagati bene, i consiglieri, rischiano di diventare nulla facenti e non per loro esclusiva responsabilità . Il sistema istituzionale figlio del maggioritario e delle improvvisate “riforme” degli anni ’90 ha prodotto la inefficienza costosa degli apparati pubblici.
Sembra che si sia riaperta in Umbria, anche a seguito dell’esplodere della questione dei costi della politica, il problema del numero dei consiglieri dell’assemblea regionale. Auguriamoci che prevalga la consapevolezza che occorra dare un segnale forte di comprensione del grado di impoverimento del rapporto tra i cittadini e la politica delle istituzioni. Insistere nel prevedere 36 consiglieri più 8 assessori non eletti, più un presidente con poteri assoluti, sarebbe disastroso. Meglio cambiare.
Sarebbe apprezzabile anche una qualche dimostrazione pratica di riforma della elefantiaca struttura pubblica. Di proposte se ne sentono molte, ma concretamente poco succede. Eppure riformare bisogna, sciogliendo enti e organismi che producono ormai soltanto prebende per vassalli e valvassori e che vengono considerati da molti soltanto come inutili strutture brucia soldi.
Non siamo una pubblicazione abituata a trattare di scandali, di intercettazioni e di indagini. Predicatori alla Luca Cordero di Montezemolo non rientrano nei nostri riferimenti ideali. Le campagne giornalistiche contro la politica non ci seducono esattamente come consideriamo indigeribile l’avanspettacolo televisivo che i vari leader di partito o di governo ci propinano ogni sera. I vizi privati della classe politica possono essere divertenti, ma apprezzeremmo di più osservare nel concreto qualche virtù pubblica dei nostri governanti ad ogni livello.
E’ non è certo una virtù questa sordità diffusa rispetto alle condizioni materiali di tanta parte del popolo italiano.