Onda lunga

Le forme della protesta sono diverse ma si muovono tutte all’interno di una scelta di rifiuto delle politiche che le  classi dirigenti hanno imposto ai loro Paesi per affrontare la crisi del neoliberismo. Politiche che vogliono scaricare sulla parte più debole della società  tutti i costi del disastro provocato dalla violenta speculazione finanziaria. Se l’aumento del costo del pane è stata la scintilla che ha innestato le rivolte nei Paesi del Magreb, sono le scelte della leadership europea a provocare le rivolte in Spagna o in Grecia.
L’onda lunga delle manifestazioni di lavoratori che rischiano il lavoro, di giovani precari e di donne il cui destino rimane quello della disoccupazione permanente, ha portato ai risultati delle ultime amministrative e al trionfo dei Sì nei referendum in Italia. Anche alla fine degli anni sessanta, gli opinion maker di quegli anni turbolenti sottovalutarono l’onda politica che nelle scuole e nelle fabbriche chiedeva il mutamento di valori e priorità  nelle scelte delle classi dirigenti di allora.
Provocata da una generazione di giovani studenti e lavoratori, la “rivolta” richiedeva un’altra politica. Anche quello fu un moto che interessò gran parte dell’occidente e che, nel bene e nel male, più bene che male aggiungo, trasformò profondamente le società  e le loro istituzioni.
Se c’è stata una stagione di riforme in Italia questa è stata quella di quegli anni. Dalla riforma sanitaria, allo statuto dei lavoratori, all’istituzione delle regioni per arrivare alla legge sul divorzio, vi fu un processo riformista che aveva come forza propulsiva un grande movimento di massa capace di sollecitare governi e opposizione a mutare la loro agenda politica.
I partiti politici riuscirono a dare risposte alle esigenze poste dai movimenti di allora e soltanto la ferocia del terrorismo interruppe quel processo di avanzamento della società  italiana.
Riusciranno i partiti di oggi a capire i segnali che vengono dalle piazze e dal voto di giugno? Difficile da capire.
Siamo stati in apnea prima di Pontida. Che dirà  Bossi?  Che pensa Maroni? E il delfino Trota che idea ha del futuro?
Un Paese in ambasce per capire il significato delle parole di Bossi, è un Paese messo male. Che il capo leghista non abbandonerà  mai Berlusconi è cosa ormai ovvia. Che gli aut aut leghisti sono storielle da raccontare ai bambini in pigiamino verde per farli dormire è altrettanto evidente. La brutalità  di Calderoli nel cercare di impedire che Berlusconi faccia il suo dovere nel contribuire alla soluzione dei problemi di Napoli, dimostra che la Lega, ridimensionata dal voto popolare, vende fumo con i ministeri al Nord e gioca tutte le sue carte sollecitando l’odio contro i meridionali e gli immigrati. Quanto potrà  reggere la democrazia italiana a questo imbarbarimento?
Risulta evidente la pericolosità  di una situazione in cui il governo più forte della storia repubblicana sembra destinato a galleggiare nei marosi di una crisi profonda della società  italiana. (altro…)

Risacca padana

Riconosciuti maestri nell’arte della commedia, sia cinematografica che teatrale, gli italiani stanno vivendo in una sorta di tragicommedia che non promette niente di buono per il futuro dell’Italia.
Oggi il Capo della Lega parlerà  a Pontida e gli analisti politici si aspettano un altro penultimato di Bossi. Che dirà  Bossi? Niente di non conosciuto e ripetuto da anni ossessivamente e sistematicamente smentito il giorno dopo. Referendum e voto amministrativo hanno dimostrato che la granitica alleanza Lega PDL fa acqua da tutte le parti. L’onda padana si è trasformata in una risacca. Pontida non segnerà  i destini del Paese.
Più decisivo è ciò che ci ha comunicato sabato scorso l’agenzia di rating più importante al mondo: Moody’s. L’Italia rischia il declassamento del proprio rating: debito pubblico enorme; crescita insignificante; produttività  insufficiente. Moody’s certifica il fallimento della politica economica del governo Berlusconi. O No?
Essere declassati significa pagare di più gli interessi sul nostro debito e ciò comporta l’esigenza di trovare nuove risorse per rimunerare l’emissione dei nostri titoli sovrani. La speculazione finanziaria sta affilando le armi per colpire.
Il professor Prodi, che di queste cose se ne intende, sostiene che la manovra correttiva dei conti pubblici nei prossimi tre anni dovrà  essere di 60 miliardi di Euro. Draghi ritiene che se si parte subito, da ottobre prossimo, la manovra potrà  essere più leggera, ma l’impegno sarà  comunque di forte impatto economico e sociale. In mancanza di provvedimenti tesi ad innestare una nuova crescita del prodotto interno si dovrà  incidere soltanto sui servizi al cittadino e sui salari, stipendi e pensioni.
Di fronte a questo scenario, che cosa hanno in testa i mitici partecipanti al Governo del fare? Tralasciando le eleganti elaborazioni del ministro Brunetta, gli altri ministri sembrano figuranti in uno spettacolo dove i protagonisti sono altri.
La pressione di Berlusconi per obbligare Tremonti ad allargare i cordoni della borsa non sembra ottenere i risultati sperati. La spesa pubblica non può aumentare, le tasse non possono essere ridotte se non all’interno di una riforma che sia capace di allargare la platea contributiva. Per farlo ci vuole tempo e la volontà  politica di aggregare interessi diversi da quelli che hanno dominato il Paese nel ventennio berlusconiano. Una maggioranza parlamentare che non rispecchia più gli interessi e le idealità  prevalenti nel Paese, non è in grado di andare oltre al galleggiamento nell’autoconservazione.
Sostenere che i risultati dei referendum e delle amministrative non avranno conseguenze politiche è una mistificazione. Tra maggio e giugno è venuto in evidenza che anche in Italia è implosa l’ideologia liberista. Essa ha segnato una lunga fase della storia del mondo producendo il disastro che assilla tanta parte del popolo a tutte le latitudini e di tutti i ceti. Le nuove povertà  coinvolgono ormai gruppi sociali un tempo sicuri del loro futuro. Per la cecità  e l’egoismo delle classi dirigenti del Paese, almeno a due generazioni è stato assicurato soltanto un futuro di precarietà  o di emigrazione.
I mille movimenti che hanno per un anno riempito le piazze italiane per richiedere un nuovo modo di intendere l’interesse pubblico e le priorità  del Paese, hanno trovato nei quesiti referendari il modo di esprimere la volontà  di riconquistare la politica come strumento di cambiamento della società . Protagonisti fondamentali sono stati i giovani e le donne.
Il messaggio è stato netto: un’altra politica è possibile rispetto a quella che ci hanno propinato per così tanti anni le caste di ogni settore e coloro che vivono da decenni di politica. Sbaglierebbe il centrosinistra se pensasse che il segnale riguardi soltanto la destra politica. Il berlusconismo ha intriso anche molti di coloro che in nome della modernità  hanno considerato i beni pubblici come un patrimonio da svendere in un mercato truccato e che hanno inteso l’agire politico come la carriera per una vita di privilegi. Come è stato per altre tornate referendarie, anche questa volta il voto apre una nuova stagione per la politica. Tornare agli avanspettacoli vissuti per decenni nei salottini dei talk show sarebbe un suicidio per la democrazia italiana. Pensare ai risultati del referendum come ad un episodio da archiviare per tornare agli schemi della politica corrente non sarà  possibile. I partiti devono rifondarsi avendo ben chiaro che il rifiuto delle oligarchie non è contro la politica ma contro una politica personalizzata e piegata agli interessi dei singoli. Deleghe in bianco non sono più possibili e la partecipazione dei cittadini o degli iscritti al partito non è quella che si esaurisce in un seggio elettorale.
Anche per i movimenti che hanno costruito il successo di giugno si pone il problema di come costruire un assetto democratico complessivo. In questo assetto dovranno svolgere un ruolo anche i partiti. Diversi certo, ma la democrazia necessità  anche di formazioni politiche costruite attorno a valori, progetti e comportamenti trasparenti come collant per un governo della cosa pubblica esercitato nell’interesse generale. I quesiti votati in maniera plebiscitaria ci indicano la strada di come ripensare questo interesse. Il libero mercato non è la soluzione per gestire nell’interesse di tutti beni pubblici come l’acqua o l’ambiente. Il vincolo dell’uguaglianza di fronte alla legge non è un vincolo risolvibile da un voto del Parlamento.
La crisi del governo della destra potrà  trascinarsi e ciò a prezzi altissimi per la saldezza del Paese. Responsabilità  enormi spettano alle forze alternative al berlusconismo per costruire una proposta che riesca ad essere credibile. Non sarà  facile ma forse i cambiamenti avvenuti in questi mesi in tante parti del Mediterraneo saranno di grande aiuto per aggregare le forze necessarie ad affrontare le difficoltà  dell’Italia.

Referendum

Dal 1997 si sono svolte sei tornate referendarie che si riferivano a ventitre quesiti sulle materie più diverse. Nessun referendum abrogativo di norme ha raggiunto in queste circostanze il quorum. Un flop ripetuto negli anni che se dimostrava la precarietà  dello strumento referendum, segnalava anche la crisi della democrazia rappresentativa e del rapporto tra partiti e cittadini.
Soltanto il 25 e 26 giugno del 2006 un referendum costituzionale non confermò le modifiche alla seconda parte della Costituzione votate in Parlamento a maggioranza semplice. Non c’era bisogno del quorum eppure, inaspettatamente, quasi il 54% del corpo elettorale votò e il No raggiunse il 62% dei voti. La legge voluta dal governo Berlusconi-Bossi fu abrogata. La Costituzione salvò l’impianto voluto dai costituenti. A dispetto dell’indifferenza di molti politici e di tutto il sistema della comunicazione, il popolo scelse di andare alle urne per respingere norme che avrebbero stravolto quella che viene, nel mondo, considerata una delle migliori Carte Costituzionali. Nonostante il risultato inequivocabile del voto, da destra, dal centro e in pezzi del centrosinistra si è continuato a parlare in questi anni di riforme costituzionali. A conferma che, come succede in molti campi, la politica non ha inteso quanto la democrazia prefigurata dal dettato costituzionale sia apprezzata dalla gente comune e quanto ascoltate siano le parole del presidente Napolitano in difesa della nostra legge fondamentale. Non sarà  sufficiente una rabberciata maggioranza parlamentare per tentare un’altra volta di trasformare la Repubblica Italiana in una democrazia plebiscitaria. Sarebbe invece più utile affrontare quelle riforme che servono a far uscire dal pantano l’economia e affrontare con determinazione la situazione di precarietà  che assilla parti consistenti della società  italiana. Colpisce molto che nelle recenti classifiche dei paesi industrializzati l’Italia sia retrocessa dal quinto al settimo posto o che il tasso di emigrazione all’estero dei nostri giovani abbia raggiunto cifre raccapriccianti.
In genere il leader che ama i plebisciti utilizza i referendum per consolidare il suo potere. Anche in questo siamo un Paese particolare. Il Capo del governo che ripetutamente ci ricorda che Lui è stato scelto dal popolo e al popolo soltanto risponde, ha deciso di non partecipare al voto nei referendum di oggi e domani.
Rivendica la libertà  di astensione e al Suo popolo lascia la libertà  di voto. La cosa ha una sua stravaganza sia per ciò che riguarda l’astensione personale, sia perchè sembra che gli sia indifferente se il Suo popolo voterà  Sì o No. Si tratta di leggi fortissimamente volute dal Suo governo e dalla Sua maggioranza. Ed è decisamente bizzarro che una delle figure istituzionali più rilevanti, il Capo del governo, rifiuti di partecipare ad un rito democratico come sono le votazioni.
Molte figure istituzionali della destra hanno invece scelto di andare alle urne e votare liberamente Sì o No senza vincolo ideologico o di partito, ma soltanto guardando al merito dei quesiti referendari. Fanno benissimo presidenti di regioni, sindaci o parlamentari del centrodestra che proprio a salvaguardia delle istituzioni scelgono la strada della partecipazione al voto. (altro…)

La svolta

Sostenere che il centrodestra ha perso ma che il PD non ha vinto nell’ultima tornata elettorale, è mistificare la realtà . Anche una sommaria analisi del voto dimostra che la sconfitta della coalizione che guida il governo interessa gran parte delle città  in cui si è votato: Berlusconi e Bossi hanno visto ridimensionati i loro consensi da Trieste a Crotone passando da Milano, Novara, Cagliari e Napoli. Il Partito Democratico è in quasi tutte le aree del centro nord il primo partito. Considerare il voto come indifferente per la tenuta del governo è vendere panna irrancidita. Si è voluto un referendum sull’appeal del Cavaliere e il risultato è stato netto e non manipolabile nemmeno dall’onorevole Capezzone.
Sono andati al voto oltre tredici milioni di elettori, non si è trattato di un sondaggio. La sconfitta delle forze di governo, in primis del suo Capo, ha fatto il giro del mondo proprio perchè segnala un mutamento profondo degli orientamenti del Paese. Pensare che l’armata Brancaleone dei nominati in Parlamento possa essere in grado di assicurare un governo serio per i prossimi due anni è numericamente possibile, ma politicamente e istituzionalmente avventuroso.
La svolta c’è stata. E’ meglio che tutti ne prendano atto, sia il centrodestra che il centrosinistra.
La destra dovrà  riconsiderare come reagire alla crisi della leadership di Berlusconi. Crisi innegabile dopo un voto giocato interamente sulla capacità  di comunicazione del leader del centrodestra. Il meccanismo del Grande Comunicatore si è rotto, la realtà  ha ripreso il sopravvento sul sogno berlusconiano. E la realtà  è stata quella espressa in un giudizio negativo dell’azione del governo. Nel decennio trascorso il centrodestra è stato al governo per otto anni. Tutti gli indici in questi anni sono peggiorati sia nell’economia sia nella tenuta culturale e sociale del Paese. Molti commentatori hanno sottovalutato, prima delle elezioni, il significato politico delle proteste che almeno da un anno hanno riempito le piazze del Paese. Non c’è stato settore della società  che non abbia ripetutamente avvertito il ceto politico che la situazione diveniva insostenibile per che vive del proprio lavoro o per coloro che lavoro non hanno. La grande redistribuzione della ricchezza che ha segnato l’Italia da un ventennio, ha prodotto una casta di privilegiati in un Paese dove anche il ceto medio produttivo ha subito un impoverimento progressivo. Se è ormai intollerabile il depauperamento di salari e pensioni, è drammatico anche il fatto che tutta la partita dell’intervento pubblico nelle infrastrutture e nell’offerta dei servizi al cittadino sia crollata. Non è cosa da poco che la Confindustria abbia più volte richiamato il governo a realizzare programmi d’investimento sui fatiscenti servizi pubblici e richiesto una politica per una nuova crescita. Si denuncia la crisi generale mondiale, ma in questa crisi la Germania cresce di quasi il cinque per cento e l’Italia dell’uno per cento. Anche in Germania governa la destra, ma il loro governo si occupa dei destini del Paese e non degli affari del signor Giulio Cesare. (altro…)