da Francesco Mandarini | Mar 19, 2012
Il differenziale tra i titoli di stato italiani e quelli tedeschi è tornato venerdì scorso ai livelli dell’agosto 2011. Buona notizia che consente qualche risparmio alle finanze pubbliche e che certifica l’affidabilità del governo Monti nei mercati finanziari. Rimane ancora misteriosa la politica del governo per ciò che concerne la crescita del Paese. Bisogna intendersi quando si parla di crescita. Immaginare uno sviluppo basato su massicci interventi pubblici in infrastrutture che hanno un impatto massiccio nel territorio, non è ipotizzabile nè per ragioni finanziarie, le risorse non ci sono, nè per ragioni ecologiche. E’ invece augurabile una crescita che risolva l’antico problema della manutenzione volta a evitare i vari disastri chiamati naturali, ma che naturali non sono. L’Italia è una terra “giovane” sottoposta a frane, terremoti, inondazioni. Una politica di messa a norma delle vastissime zone a rischio sarebbe una scelta saggia: è certificato che il costo di risanamento è nettamente inferiore a quanto si deve investire per risanare i disastri. Quante sono le nuove abitazioni che rimangono per anni sfitte? Non c’è statistica che l’abbia raccontato. E nessuno sta facendo indagini su quanta parte dei centri storici sia disabitata e priva di ogni funzione economica. Si continuano a costruire palazzi e centri commerciali mentre parti consistenti delle città sono in decadenza. E’ inimmaginabile una scelta politico-amministrativa che incentivi il riuso di spazi all’interno delle cinte urbane? Quanto lavoro si potrebbe creare se invece di ricercare le risorse della Bucalossi, i comuni favorissero il recupero delle vecchie strutture abitative, commerciali o d’intrattenimento? Non è possibile riconvertire parte delle imprese edili in aziende volte al restauro delle abitazioni dei rioni dei centri urbani ormai ridotti a gusci vuoti? Crescere per una società è possibile anche favorendo i consumi collettivi. Una sanità e un sistema scolastico adeguati ai tempi significano anche possibilità di lavoro e non solo, quindi, la soddisfazione e la tutela di diritti essenziali dei cittadini. Ciò che ha prevalso in questi anni è stata una politica di tagli al già precario welfare italiano. Siamo in Europa agli ultimi posti in settori fondamentali quali la scuola e le politiche per la famiglia. Il governo della destra non ha fatto nulla per invertire la tendenza all’impoverimento delle famiglie italiane. C’era la speranza che il nuovo governo, oltre a affrontare l’emergenza del debito, avesse in mente qualcosa di diverso dalla solita ricetta del neo-liberismo, meno stato più mercato. Si sperava che visto il fallimento “mondiale” di tale impostazione, Monti avrebbe cercato rimedi diversi. Al momento non se ne vedono. La discussione sembra impantanata sulla riforma del mercato del lavoro e sull’articolo diciotto dello statuto del lavoro. Lo Stato continua a non pagare i propri fornitori. Le aziende continuano a chiudere; la cassa integrazione ad aumentare; la sanità pubblica a decadere a vantaggio di quella (più costosa) privata. Ma lo spread diminuisce e, com’è noto, la speranza rimane l’ultima a morire. E i così detti partiti? Il festival degli scandali a tutte le latitudini sembrano le sole notizie rilevanti a conferma della decadenza della democrazia repubblicana. Corriere dell’Umbria 18 marzo 2012
da Francesco Mandarini | Mar 13, 2012
L’economia di carta, quella della finanza, degli spread e di quell’incomprensibile groviglio di speculazioni e facili arricchimenti, sembra meno volatile. L’economia reale, quella che produce beni materiali, lavoro e benessere per il popolo, va malissimo. A gennaio la produzione di auto è calata del trentatrè e cinque per cento con effetti devastanti su tutto l’indotto delle piccole fabbriche. I tassi di disoccupazione e di cassa integrazione continuano a crescere provocando un malessere sociale colto intelligentemente nella manifestazione di Roma della FIOM. Sul significato della manifestazione Valentino Parlato ricorda che: “la nostra Costituzione afferma che siamo una Repubblica fondata sul lavoro. Nell’attuale confronto sulla riforma del lavoro, va data grande attenzione anche agli aspetti simbolici. E vengo all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, sul quale siamo a uno scontro fondamentalmente ideologico, simbolico, cui anche il Presidente Napolitano dovrebbe prestare più attenzione. Un industriale come Carlo De Benedetti ha detto che l’art.18 non gli è mai servito nella gestione d’impresa. Cancellare l’art. 18 oggi non serve affatto agli imprenditori. Cancellarlo è solo dare uno schiaffo in faccia a chi lavora e ai sindacati tutti, dire loro che debbono piegare la schiena davanti al padrone”. Non ha ragione il fondatore del Manifesto? Una forzatura del governo rispetto a questa materia non potrebbe che provocare l’esplosione di un conflitto di cui il Paese non ha bisogno. La moria d’imprese, piccole e medie è dovuta alla ventennale mancanza di ogni politica industriale e di sviluppo. Il nodo non è quello di rendere più facili i licenziamenti ma quello di creare occasioni che rendono possibile una nuova fase di crescita del Paese. A questo la politica deve dare risposta. Riprogettare l’Italia è compito del governo centrale ma anche delle realtà regionali. Da questo punto di vista impressiona lo stato della politica in Umbria. La nostra è una terra che è uscita dal sottosviluppo soltanto qualche decennio fa. Pur in ritardo nella rete delle infrastrutture tradizionali, e debole nel settore del terziario avanzato, ha saputo negli anni settanta e ottanta crescere conquistando mercati non solo nel tessile e nell’abbigliamento ma anche nella meccanica, nell’industria alimentare e in altri settori produttivi. La sottocapitalizzazione delle imprese ha sollecitato politiche della pubblica amministrazione tese a fornire risorse ma essenzialmente progetti di sviluppo, utilizzando al meglio i fondi comunitari. La tenuta sociale è stata assicurata da un welfare regionale e locale eccellente in alcuni settori, ma anche con aspetti di assistenzialismo basato sull’implementazione delle strutture burocratiche. Oggi tutto questo è in crisi e negarlo sarebbe da sciocchi. Sandra Monacelli, capogruppo dell’UDC in consiglio regionale, sostiene che per affrontare “questa inedita congiuntura storica” c’è bisogno di formule nuove. Se ho ben compreso, si tratterebbe di tradurre in umbro l’esperienza del governo Monti. La proposta ha una sua legittimità nella misura in cui il centrosinistra non riesce a ritrovare la strada di stare insieme in maniera civile e produttiva. Soprattutto è urgente dimostrare che l’alleanza al potere è in grado di assicurare una capacità di governo adeguata alle esigenze di una crisi che rende ormai precaria la stessa tenuta sociale della nostra comunità .
da Francesco Mandarini | Mar 13, 2012
L’economia di carta, quella della finanza, degli spread e di quell’incomprensibile groviglio di speculazioni e facili arricchimenti, sembra meno volatile. L’economia reale, quella che produce beni materiali, lavoro e benessere per il popolo, va malissimo. A gennaio la produzione di auto è calata del trentatré e cinque per cento con effetti devastanti su tutto l’indotto delle piccole fabbriche. I tassi di disoccupazione e di cassa integrazione continuano a crescere provocando un malessere sociale colto intelligentemente nella manifestazione di Roma della FIOM. Sul significato della manifestazione Valentino Parlato ricorda che: “la nostra Costituzione afferma che siamo una Repubblica fondata sul lavoro. Nell’attuale confronto sulla riforma del lavoro, va data grande attenzione anche agli aspetti simbolici. E vengo all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, sul quale siamo a uno scontro fondamentalmente ideologico, simbolico, cui anche il Presidente Napolitano dovrebbe prestare più attenzione. Un industriale come Carlo De Benedetti ha detto che l’art.18 non gli è mai servito nella gestione d’impresa. Cancellare l’art. 18 oggi non serve affatto agli imprenditori. Cancellarlo è solo dare uno schiaffo in faccia a chi lavora e ai sindacati tutti, dire loro che debbono piegare la schiena davanti al padroneâ€. Non ha ragione il fondatore del Manifesto? Una forzatura del governo rispetto a questa materia non potrebbe che provocare l’esplosione di un conflitto di cui il Paese non ha bisogno. La moria d’imprese, piccole e medie è dovuta alla ventennale mancanza di ogni politica industriale e di sviluppo. Il nodo non è quello di rendere più facili i licenziamenti ma quello di creare occasioni che rendono possibile una nuova fase di crescita del Paese. A questo la politica deve dare risposta. Riprogettare l’Italia è compito del governo centrale ma anche delle realtà regionali. Da questo punto di vista impressiona lo stato della politica in Umbria. La nostra è una terra che è uscita dal sottosviluppo soltanto qualche decennio fa. Pur in ritardo nella rete delle infrastrutture tradizionali, e debole nel settore del terziario avanzato, ha saputo negli anni settanta e ottanta crescere conquistando mercati non solo nel tessile e nell’abbigliamento ma anche nella meccanica, nell’industria alimentare e in altri settori produttivi. La sottocapitalizzazione delle imprese ha sollecitato politiche della pubblica amministrazione tese a fornire risorse ma essenzialmente progetti di sviluppo, utilizzando al meglio i fondi comunitari. La tenuta sociale è stata assicurata da un welfare regionale e locale eccellente in alcuni settori, ma anche con aspetti di assistenzialismo basato sull’implementazione delle strutture burocratiche. Oggi tutto questo è in crisi e negarlo sarebbe da sciocchi. Sandra Monacelli, capogruppo dell’UDC in consiglio regionale, sostiene che per affrontare “questa inedita congiuntura storica†c’è bisogno di formule nuove. Se ho ben compreso, si tratterebbe di tradurre in umbro l’esperienza del governo Monti. La proposta ha una sua legittimità nella misura in cui il centrosinistra non riesce a ritrovare la strada di stare insieme in maniera civile e produttiva. Soprattutto è urgente dimostrare che l’alleanza al potere è in grado di assicurare una capacità di governo adeguata alle esigenze di una crisi che rende ormai precaria la stessa tenuta sociale della nostra comunità .
da Francesco Mandarini | Mar 6, 2012
La Banca Centrale Europea con le due aste di dicembre 2011 e del 29 febbraio 2012 ha introdotto nel circuito finanziario europeo circa mille miliardi di euro, prestati a bassissimi tassi d’interesse alle banche europee che ne hanno fatta richiesta. Che faranno adesso i nostri banchieri con le rilevanti risorse messe a loro disposizione da Mario Draghi? Nella scelta della BCE è evidente l’intenzione di assicurare al sistema produttivo quei finanziamenti necessari a riprendere la crescita dell’economia reale in Italia e in Europa. A oggi le notizie non sono buone. Basta discutere con qualche imprenditore di qualsiasi settore per capire quante difficoltà si incontrano nell’ottenere credito da un istituto bancario. Prevale la telefonata mattutina di qualche funzionario che ti annuncia il ritiro del fido. Forse i nostri banchieri continuano a preferire investire nell’economia di “carta” piuttosto che finanziare la piccola industria? Servono poco le prediche sull’esigenza di crescere e di migliorare la produttività del Paese se non si mettono a disposizione delle imprese le risorse necessarie. C’è qualcuno che pensa che l’aumento di produttività sia possibile aumentando la fatica “muscolare” dei lavoratori? La mancata crescita italiana ha origine dal crollo degli investimenti e nella scelta di preferire l’innovazione del processo produttivo piuttosto che nell’innovazione di prodotto. Esemplare da questo punto di vista la vicenda Fiat. Aumento dello sfruttamento del lavoro senza una singola idea che non sia la “Nuova500″ o la “Nuova Panda”. Non si esce dalla recessione senza riprendere a investire in ricerca e per farlo è necessario che il sistema finanziario faccia scelte diverse da quelle che ci hanno portato al disastro attuale. Il rigore di bilancio non ha senso se non si rafforzano le basi produttive del Paese. Per combattere la disoccupazione di massa non bastano le liberalizzazioni approvate dal Senato della Repubblica e la riforma del mercato del lavoro, se la discussione resta impantanata nello scontro ideologico sull’articolo diciotto, non aiuterà certo il sistema produttivo a crescere. Carlo De Benedetti ha ricordato che in cinquanta anni vissuti da imprenditore, non ha mai una volta avuto problemi derivanti dallo Statuto dei lavoratori. Se lo dice lui! Il gentile presidente Monti ha una grande esperienza dei meccanismi che regolano la Comunità Europea. Il Capo del governo sa bene che in Europa la struttura pubblica liquida i propri fornitori a trenta, sessanta giorni. Lo Stato italiano, in tutti i suoi livelli, ha ottanta miliardi di debito con le imprese. I tempi di pagamento sono drammaticamente di là dei limiti europei. Non potrebbero gli efficienti ministri accelerare un poco il saldo delle fatture? Sarebbe una boccata d’ossigeno per un’economia in gravi difficoltà . Certo molto più importante della liberalizzazione dei taxi.
da Francesco Mandarini | Feb 27, 2012
I palazzi del potere democratico dovrebbero essere i luoghi di rappresentazione delle società che devono governare. Non sembra proprio che ciò che sta accadendo a Palazzo Cesaroni, sede dell’assemblea regionale, abbia qualcosa a che fare con ciò che angoscia la comunità umbra. Vicende giudiziarie s’intrecciano con la crisi evidente della maggioranza di centrosinistra e, alle lotte intestine tra e nei partiti di governo, si aggiunge la decisione del centrodestra di far dimettere i propri rappresentanti da tutti gli incarichi istituzionali. La paralisi dell’assemblea è così assicurata. Che la situazione politica regionale sia pessima da anni è sotto gli occhi di tutti. Basta osservare il trend del non voto delle diverse tornate elettorali per capire che il rapporto tra i partiti e la società è entrato, da molto tempo, in una fase difficilissima. Problema: sono in grado questi partiti di autoriformarsi per recuperare affidabilità ? Il dubbio è legittimo considerando che, la stragrande maggioranza del ceto politico è in campo da decenni, e che i “giovani” dirigenti non sembra che abbiano potuto o saputo introdurre novità rilevanti nell’agire politico. Ciò che manca è una qualsiasi forma d’intelligenza collettiva. Questa mancanza impedisce ai partiti di far prevalere al loro interno l’interesse collettivo così che tutto è riportato al destino e alla carriera del singolo. L’interesse collettivo è oggi quello di avere un consiglio regionale efficace nel contrastare la crisi della società umbra. Una crisi che, per non essere generici, significa innanzitutto un’economia che non riesce a dare lavoro nè ai giovani nè alle donne e che produce soltanto cassa integrazione per aziende in crisi. Non solo questo per fortuna. Eccellenze produttive umbre riescono a consolidarsi, a esportare le loro produzioni e a crescere nonostante l’insufficienza del credito e di una struttura pubblica inadeguata, spesso burocratizzata e comunque in ritardo nei processi d’innovazione nelle reti del terziario avanzato. Responsabilità della giunta e del consiglio regionale è quella di costruire assieme alle forze sociali, un quadro programmatico capace di mettere a leva le intelligenze e le risorse culturali di una terra che, in molte fasi della sua storia, ha saputo trovare la strada per progredire. La buona politica si costruisce anche con atti di generosità dei singoli. E’ evidente che un consiglio regionale paralizzato determina una situazione d’incertezza che si riflette sul senso comune di tutta l’Umbria. Apprezzabili sarebbero passi indietro. Aiuterebbero i partiti e la politica a recuperare quella stima e quel rispetto che al momento non esistono nemmeno in Umbria. La delegittimazione quando c’è, la si combatte attraverso atti virtuosi.